
NC-353
26.10.2025
Fin dagli anni ’90, il cinema di Kathryn Bigelow si concentra sulla rappresentazione della visione come territorio di conflitto, un campo in cui mettere in crisi il paradigma relativo alla rappresentazione cinematografica, facendolo collidere e confondere con un flusso ininterrotto di immagini, atte a integrare interi sistemi mediali, fino a sfumare e consumare del tutto il confine tra l’immagine e il mondo. Una forma, dunque, di immagine che assume il ruolo di sistema, ponendo sempre più in crisi la narrazione classica – fondata perlopiù su apparati di ripresa esterni, che canalizzano dunque il racconto in un punto di vista oggettivo – a favore di una circolazione illimitata delle immagini, che dissolve il principio di centralità narrativa. Ne è un chiaro esempio Strange Days (1995), in cui il dispositivo SQUID offre una simulazione così intensa da rendere l’immagine virtuale completamente indistinguibile da quella reale. Praticamente una dimostrazione di un universo mediatico totalizzante dove l’immagine prevale sul referenziale.
Questo sistema ad alta tensione, che riflette una contemporaneità tutta digitalizzata in cui le immagini operano direttamente sul campo di battaglia, si riscopre totalmente assorbito dalle decisioni politiche e dalla burocrazia nel suo nuovo A House Of Dynamite (2025), presentato in Concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Il film prodotto da Netflix, infatti, mette in primo piano il rapporto tra la gestione degli eventi apocalittici relativi ad un attacco nucleare e l’impossibilità di comprendere univocamente l’informazione proveniente dalle immagini. L’utilizzo di glitch nei monitor, nel film, indica uno stadio di regressione primordiale, dove l’astrazione dei dati diventa impossibile se non attraverso collegamenti e ipertesti che innestano il legame tra le diverse prospettive, di cui il racconto della Bigelow è decisamente pregno.
I fatti e le loro iscrizioni mediali tendono sempre di più a compenetrarsi in maniera tale da lasciar sfuggire e fraintendere le immagini del war movie, talmente tanto globalizzate e innestate nel processo globale da rendersi astratte e burocratiche, generando una tensione tra immagine-soggetto e immagine-sistema, ovvero tra trasparenza e opacità. In tal senso, non è un caso che ogni immagine nel film risulti incompleta, e che al Presidente interpretato da Idris Elba spettino le inquadrature più ambigue dell’intero film, in cui il suo volto, dapprima immerso nel nero della webcam – dalla quale proviene solamente la voce – appare poi diviso a metà dai riflessi dei vari radar delle sale di controllo.

Kathryn Bigelow a lavoro sul set

A House of Dynamite (2025)
Ogni schermo promette di mostrare tutto - la traiettoria del missile, il countdown, la simulazione dell’impatto - e tuttavia ogni immagine resta parziale. Nonostante la totale trasparenza dei dati ripresi dalla Bigelow, A House Of Dynamite pone lo spettatore di fronte a un vuoto semantico in cui l’immagine diventa solamente potenziale, ovvero non concretizza un atto effettivo, quanto piuttosto materializza la sua possibilità. Anche il montaggio, importante strumento ausiliare, diventa un modo per esplicitare la propria visione del mondo nei confronti delle immagini del war movie di oggi. La visione contemporanea, per la regista, è inevitabilmente una visione condivisa, collettiva e alienata, dove l’evento stesso è subordinato al modo in cui viene visto e dove anche il catastrofico è mediato dai dispositivi e dunque alterato.
Nell’epoca della sorveglianza globale, non esiste più una vera trasparenza visiva. Ogni immagine è insieme rivelazione e occultamento. La dialettica fra immagine-soggetto e immagine-sistema diventa così una riflessione sulla condizione dello spettatore contemporaneo, che guarda attraverso dispositivi che al contempo lo osservano e lo riflettono. Si tratta dunque di un cinema “dell’interfaccia”, in cui la visione è sempre mediata, e in cui l’opacità non è un difetto, ma un linguaggio a sé stante. L’immagine, lungi dall’essere finestra sul reale, si afferma come schermo riflettente del potere e della paura.
Non esiste più una soggettività ben definita, poiché il punto di vista non appartiene a nessuno, se non a un occhio neutrale e dunque onnisciente. Una condizione di iper-visione che riporta alla mente, inevitabilmente, lo sci-fi degli anni ’90 – di cui, peraltro, lo stesso Strange Days è esempio cardine – e dove i dispositivi di sorveglianza inglobano addirittura l’uomo, riducendolo al ruolo d’interfaccia tra la sua specie e il digitale. Anche per questo motivo, la regista elude radicalmente ogni forma di spettacolarizzazione tipica del genere. Solamente privando il genere della componente action è possibile affermare con ulteriore forza e notevole lungimiranza che la vera immagine della distruzione non è quella che coinvolge il cinema catastrofico/apocalittico e mostra la deflagrazione fisica del contesto, quanto piuttosto quella che non può essere guardata.

Rebecca Ferguson A House of Dynamite (2025)
In virtù di quest’impossibilità, l’unico modo per risolvere A House Of Dynamite è quello di privare lo spettatore della visione dell’inevitabilità degli atti, come succede nel finale del film, quando Kathryn Bigelow decide di mostrare l’evacuazione di tutti i cittadini nel bunker statale situato in Pennsylvania precedendolo da un fuori campo sonoro che annuncia il contrattacco nei confronti della Corea Del Nord, dopo il precedente lancio del missile da parte degli asiatici. Tale negazione totale dell’immagine costringe lo spettatore a contemplare la "scelta tra resa e suicidio" come l'unica, eterna, realtà di un mondo che ha fondato la propria sicurezza sulla possibilità della propria distruzione.
Lo spettatore assiste, dunque, all’ennesima metamorfosi del dispositivo cinematografico, che da immagine-sistema si ricalibra in immagine-tempo, evolvendosi in simbolo di un'attesa infinita e senza speranza, in un flusso visivo e temporale in cui l’ambiguità è totale e irrimediabile.
NC-353
26.10.2025

Kathryn Bigelow a lavoro sul set
Fin dagli anni ’90, il cinema di Kathryn Bigelow si concentra sulla rappresentazione della visione come territorio di conflitto, un campo in cui mettere in crisi il paradigma relativo alla rappresentazione cinematografica, facendolo collidere e confondere con un flusso ininterrotto di immagini, atte a integrare interi sistemi mediali, fino a sfumare e consumare del tutto il confine tra l’immagine e il mondo. Una forma, dunque, di immagine che assume il ruolo di sistema, ponendo sempre più in crisi la narrazione classica – fondata perlopiù su apparati di ripresa esterni, che canalizzano dunque il racconto in un punto di vista oggettivo – a favore di una circolazione illimitata delle immagini, che dissolve il principio di centralità narrativa. Ne è un chiaro esempio Strange Days (1995), in cui il dispositivo SQUID offre una simulazione così intensa da rendere l’immagine virtuale completamente indistinguibile da quella reale. Praticamente una dimostrazione di un universo mediatico totalizzante dove l’immagine prevale sul referenziale.
Questo sistema ad alta tensione, che riflette una contemporaneità tutta digitalizzata in cui le immagini operano direttamente sul campo di battaglia, si riscopre totalmente assorbito dalle decisioni politiche e dalla burocrazia nel suo nuovo A House Of Dynamite (2025), presentato in Concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Il film prodotto da Netflix, infatti, mette in primo piano il rapporto tra la gestione degli eventi apocalittici relativi ad un attacco nucleare e l’impossibilità di comprendere univocamente l’informazione proveniente dalle immagini. L’utilizzo di glitch nei monitor, nel film, indica uno stadio di regressione primordiale, dove l’astrazione dei dati diventa impossibile se non attraverso collegamenti e ipertesti che innestano il legame tra le diverse prospettive, di cui il racconto della Bigelow è decisamente pregno.
I fatti e le loro iscrizioni mediali tendono sempre di più a compenetrarsi in maniera tale da lasciar sfuggire e fraintendere le immagini del war movie, talmente tanto globalizzate e innestate nel processo globale da rendersi astratte e burocratiche, generando una tensione tra immagine-soggetto e immagine-sistema, ovvero tra trasparenza e opacità. In tal senso, non è un caso che ogni immagine nel film risulti incompleta, e che al Presidente interpretato da Idris Elba spettino le inquadrature più ambigue dell’intero film, in cui il suo volto, dapprima immerso nel nero della webcam – dalla quale proviene solamente la voce – appare poi diviso a metà dai riflessi dei vari radar delle sale di controllo.

A House of Dynamite (2025)
Ogni schermo promette di mostrare tutto - la traiettoria del missile, il countdown, la simulazione dell’impatto - e tuttavia ogni immagine resta parziale. Nonostante la totale trasparenza dei dati ripresi dalla Bigelow, A House Of Dynamite pone lo spettatore di fronte a un vuoto semantico in cui l’immagine diventa solamente potenziale, ovvero non concretizza un atto effettivo, quanto piuttosto materializza la sua possibilità. Anche il montaggio, importante strumento ausiliare, diventa un modo per esplicitare la propria visione del mondo nei confronti delle immagini del war movie di oggi. La visione contemporanea, per la regista, è inevitabilmente una visione condivisa, collettiva e alienata, dove l’evento stesso è subordinato al modo in cui viene visto e dove anche il catastrofico è mediato dai dispositivi e dunque alterato.
Nell’epoca della sorveglianza globale, non esiste più una vera trasparenza visiva. Ogni immagine è insieme rivelazione e occultamento. La dialettica fra immagine-soggetto e immagine-sistema diventa così una riflessione sulla condizione dello spettatore contemporaneo, che guarda attraverso dispositivi che al contempo lo osservano e lo riflettono. Si tratta dunque di un cinema “dell’interfaccia”, in cui la visione è sempre mediata, e in cui l’opacità non è un difetto, ma un linguaggio a sé stante. L’immagine, lungi dall’essere finestra sul reale, si afferma come schermo riflettente del potere e della paura.
Non esiste più una soggettività ben definita, poiché il punto di vista non appartiene a nessuno, se non a un occhio neutrale e dunque onnisciente. Una condizione di iper-visione che riporta alla mente, inevitabilmente, lo sci-fi degli anni ’90 – di cui, peraltro, lo stesso Strange Days è esempio cardine – e dove i dispositivi di sorveglianza inglobano addirittura l’uomo, riducendolo al ruolo d’interfaccia tra la sua specie e il digitale. Anche per questo motivo, la regista elude radicalmente ogni forma di spettacolarizzazione tipica del genere. Solamente privando il genere della componente action è possibile affermare con ulteriore forza e notevole lungimiranza che la vera immagine della distruzione non è quella che coinvolge il cinema catastrofico/apocalittico e mostra la deflagrazione fisica del contesto, quanto piuttosto quella che non può essere guardata.

Rebecca Ferguson A House of Dynamite (2025)
In virtù di quest’impossibilità, l’unico modo per risolvere A House Of Dynamite è quello di privare lo spettatore della visione dell’inevitabilità degli atti, come succede nel finale del film, quando Kathryn Bigelow decide di mostrare l’evacuazione di tutti i cittadini nel bunker statale situato in Pennsylvania precedendolo da un fuori campo sonoro che annuncia il contrattacco nei confronti della Corea Del Nord, dopo il precedente lancio del missile da parte degli asiatici. Tale negazione totale dell’immagine costringe lo spettatore a contemplare la "scelta tra resa e suicidio" come l'unica, eterna, realtà di un mondo che ha fondato la propria sicurezza sulla possibilità della propria distruzione.
Lo spettatore assiste, dunque, all’ennesima metamorfosi del dispositivo cinematografico, che da immagine-sistema si ricalibra in immagine-tempo, evolvendosi in simbolo di un'attesa infinita e senza speranza, in un flusso visivo e temporale in cui l’ambiguità è totale e irrimediabile.