di Omar Franini e Antonio Orrico, Cecilia Parini, Lorenzo Sartor e Arturo Garavaglia
NC-313
18.06.2025
Come ogni anno, durante il mese di giugno si svolge il Festival di Annecy, il palcoscenico internazionale più importante del cinema d’animazione dove vengono presentate le opere animate più innovative della stagione cinematografica. Oltre ai grandi titoli firmati Walt Disney Pictures e Pixar, la manifestazione accoglie una variopinta selezione di lungometraggi provenienti da ogni parte del mondo. Oggi vi racconteremo le visioni che più ci hanno affascinato. Inoltre, con questa selezione vogliamo mettere in risalto anche diverse tecniche di animazione; tra cui il disegno a mano di Balentes di Giovanni Columbu, la grafica computer 2D di Jinsei di Ryuya Suzuki e Allah n’est pas obligé di Zaven Najjar ed infine la grafica computer 3D di Space Cadet di Eric San.
Allah n’est pas obligé, di Zaven Najjar
Presentato come Work-in-Progress al Festival di Annecy 2024 e successivamente selezionato per la competizione ufficiale nel 2025, Allah n’est pas obligé di Zaven Najjar è l'adattamento del romanzo omonimo di Ahmadou Kourouma che racconta la storia di Birahima, un orfano della Guinea di dieci anni che, nel tentativo di raggiungere la zia in Liberia, viene coinvolto nella guerra civile e costretto a diventare un bambino-soldato. La scelta di trasportare questa storia sullo schermo grazie all’animazione e alla computer grafica 2D e 3D si è rivelata più che azzeccata per riflettere il punto di vista del protagonista che, usando la propria immaginazione, racconta la propria esperienza trasformando l’orrore e la brutalità della guerra in un racconto che, a volte, prende direzioni surreali. Non a caso, Najjar usa abilmente silhouette grafiche marcate, un eccesso di cromatura e sfondi ricchi per mettere in risalto questa componente espressiva fumettistica e pop (l’uso di California Love di 2Pac e Dr. Dre per introdurre le vicende di Birahima è semplicemente geniale), che fa da contrasto con le crude immagini e situazioni che il giovane protagonista vive. Questo approccio, già presente nel romanzo di Kourouma, non sminuisce la gravità della situazione politica affrontata, ma al contrario, ne amplifica l’irrazionalità e la crudeltà. Allah n’est pas obligé è un film necessario al giorno d’oggi, una visione che si rivolge soprattutto a un pubblico giovane, dimostrando ancora una volta come l’animazione possa affrontare temi delicati e duri come la guerra spingendosi oltre i confini del realismo senza rinunciare all’estro creativo delle tecniche adoperate.
Balentes, di Giovanni Columbu
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e quest’anno al 54esimo Festival del Cinema di Rotterdam, Balentes è un film d’animazione in tecnica tradizionale disegnato a mano dal regista e pittore sardo Giovanni Columbu. L’opera narra una storia raccontata al cineasta dalla propria nonna e avvenuta in Sardegna nel 1940, ovvero il furto di un cavallo destinato a partire per la guerra da parte di due ragazzini rispettivamente di 11 e 14 anni, evento insignificante rispetto alla portata del periodo storico rappresentato, ma comunque cruciale per definire gli ideali di resistenza che avrebbero portato alla fine del Fascismo. I disegni in bianco e nero di Columbu sono distinti da un tratto indefinito, essenziale, che si limita sempre a suggerire le figure senza mai mostrare singoli dettagli o particolari rilevanti. Anzi, sia la Storia della nazione che la storia dei due giovani protagonisti viene osservata da lontano, come se noi spettatori la stessimo spiando da una lente sporca e arrugginita, mentre le singole parole si perdono spesso a causa dei rumori naturali, dei suoni dei passi umani e dei versi animali. In alcune sequenze gli effetti a iride suggeriscono una visione da lontano di qualcosa che dovrebbe essere vietato mostrare, come se le istanze fasciste che opprimono i protagonisti fossero le stesse che impediscono di preservare il ricordo di quel periodo e di dare forma a una reale memoria storica, che invece può essere costruita solo come ombra, come pittura rupestre di un tempo perduto. Lo stile frammentato delle animazioni (che si rispecchia poi in una storia dai pezzi disordinati che spetta a noi ricomporre) e l’impermanenza delle figure disegnate a schermo rimandano inevitabilmente alle origini della Settima Arte, a un proto-cinema a 16 frame al secondo. E come quel cinema è oggi un museo di fantasmi del passato, che percorrono muti quadri statici, allo stesso modo le inquadrature di Columbu sono perlopiù fisse, laddove invece i personaggi sono rappresentati in una continua metamorfosi che gli impedisce di assumere una sola forma e che inevitabilmente fanno pensare ad un altro film d’animazione sulla storia italiana del Novecento, ossia Invelle (2023) di Simone Massi. L’autore riempie così la sua opera di simboli del cinema primitivo, come la presenza fondamentale del treno, altra figura simbolo di dinamismo, o degli stessi cavalli, che come alla fine dell’Ottocento erano stati usati per rappresentare la nuova frontiera dell’arte visuale, vengono oggi usati da Columbu per svelare l’illusione alla base della permanenza della visione, in sequenze dove l’assenza di un frame mancante mostra l’artificialità dell’animazione e rende evidente la sua stessa costruzione. Come i dettagli delle animazioni e dei disegni si perdono in una ricerca stilistica che scarnifica l’immagine cinematografica di ogni sua pretesa di una rappresentazione realistica, allo stesso modo delle vite dei due protagonisti rimangono solo tracce, frammenti di un dipinto lasciato incompleto, come tale appare la Storia ai nostri occhi contemporanei.
ChaO, di Yasuhiro Aoki
In una Shangai futuristica umani e sirene convivono pacificamente insieme, ma come si è arrivati a questo? ChaO è il nuovo film prodotto da STUDIO4℃ e diretto da Yasuhiro Aoki. Attraverso un giovane giornalista facciamo la conoscenza di Stephan, che anni prima era diventato famoso per essersi sposato con la principessa del regno delle sirene Chao, creando così un primo punto d’unione tra umani e creature marine. Durante questa chiacchierata Stephan racconterà al giovane come siano andate davvero le cose e come la sua storia d’amore non sia stata per nulla semplice. ChaO è girato in animazione 2D e il character design è di Hirokazu Kojima, che mette in scena uno stile di disegno unico. Alcuni elementi sembrano lievemente tratteggiati, quasi minimalisti, mentre altri elementi, come alcuni personaggi, sono iper dettagliati. Il tratto del disegno non è mai netto e i personaggi cambiano forma, sono fluidi e si uniformano perfettamente al paesaggio che li circonda. La regia di Aoki e lo stile di Kojima si sposano perfettamente dando vita a un film con situazioni comiche (le scene non sono mai vuote e vi è sempre un piccolo sketch portato avanti dai personaggi di sfondo o protagonisti stessi), ma che nonostante l’apparente leggerezza nasconde tematiche più importanti, come il desiderio di essere amati e l'elaborazione della perdita. ChaO è una stupenda fiaba contemporanea che si portata giustamente a casa il premio della giuria, dimostrando come ancora oggi il Giappone sia il paese dell’animazione e che con il 2D si possono ancora creare film freschi e innovativi.
Heart of Darkness, di Rogério Nunes
Esordio nel lungometraggio d'animazione di Rogèrio Nunes, Heart of Darkness è un libero riadattamento dell'omonimo romanzo di Joseph Conrad. Il film del regista brasiliano, però, sembra guardare direttamente all'altrettanto noto adattamento del testo, Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Le atmosfere e le tematiche, infatti, richiamano esplicitamente l'opera del 1979. Con uno stile d'animazione che ibrida con efficacia il 2D e il 3D e con una stilizzazione delle figure che ricorda molto il Satoshi Kon di Paranoia Agent (2004), Rogèrio Nunes porta avanti una dura denuncia sociale nei confronti della violenza e della brutalità delle forze governative brasiliane. Purtroppo, però, dopo un incipit folgorante che richiama, in maniera ironica, le modalità dei videogiochi fps recenti, la storia prosegue pedissequamente lungo i binari già noti del romanzo, ingabbiando la forma del road movie in schematici incontri con personaggi i cui caratteri vengono solo abbozzati. A mancare, dunque, non è né la tecnica, più che discreta, né la dura denuncia sociale che ci si aspetta da un riadattamento di Conrad filtrato dalla lente di Apocalypse Now, ma delle metafore e dei simboli che vadano oltre la consuetudine e rendano Heart of Darkness un film da guardare non solo per la pregevolezza tecnica, ma anche per la profondità del suo racconto. Nota di merito finale va data alla colonna sonora, che mischia molteplici generi musicali, dal rock al metal fino a suoni più tradizionalmente brasiliani e si sposa alla perfezione con l'esuberanza delle immagini.
Jinsei, di Ryan Suzuki
L’inizio di Jinsei, opera prima del regista giapponese Ryuya Suzuki, è la chiave di volta di tutto il film: un campo-controcampo tra la soggettiva del protagonista che vede la madre morente e quella della donna stessa. Quest’ultimo controcampo presenta però una stonatura, perché la madre non riesce a vedere interamente il figlio, ma solo un frammento del suo volto tra le dita della propria mano, mentre cerca di raggiungerlo.Come nel resto del film, il protagonista riuscirà sempre a guardare con lucida freddezza ciò che ha davanti, mentre chiunque lo guarderà vedrà solo un frammento della sua identità. Realizzato dal 2020 al 2025 dal regista con l’ausilio di un iPad e un budget risicato, l’esordio dell’animatore nipponico si distingue fin da subito per uno stile d’animazione grezzo, che però viene valorizzato attraverso una curata gestione di ogni inquadratura e un particolare uso dei formati, attraverso cui Suzuki riempie l’opera di scelte stilistiche stimolanti. Lo stile patinato di disegni e ambienti diventa il mezzo per veicolare una critica verso la società dello spettacolo e la sua artificiosità, che si scontra con l’astrattezza delle varie scelte espressive di montaggio e regia. Ma il centro nevralgico dell’opera rimane l’esplorazione della vita del protagonista lungo i decenni e divisa in dieci atti, dai primi anni Duemila fino ad un lontano futuro fantascientifico in cui l’umanità non esiste più. Ognuno di questi dieci capitoli si intitola con il soprannome con cui il personaggio viene riconosciuto in quel periodo della sua vita e ogni persona che lo incontra non riuscirà mai a comprendere totalmente la persona che si trova davanti, ma ne conserverà solo un frammento della sua identità. Il percorso di ricerca identitaria del protagonista (che sarà cantante di un gruppo idol, senzatetto, attore, soldato, messia di una nuova umanità) passerà lungo la storia del Giappone contemporaneo e futuro, mostrando le difficoltà e le contraddizioni del capitalismo moderno.Non è un caso che durante tutto il film l’occhio del protagonista avrà un ruolo importante e che, durante uno di questi segmenti, egli verrà riconosciuto come “Dio”, perché infatti lo sguardo totalizzante di questa figura silenziosa, osservatrice e senza un’identità definita altro non è che quello di una divinità. Il suo occhio è quello del cinema, che riesce a imporsi sulla realtà e a svelarne la sua natura più tragica e grottesca. Attraverso uno stile originale e una narrazione frammentata, l’opera di Suzuki si impone già come uno dei film d’animazione più originali e audaci in uscita quest'anno.
La Fille qui explose, di Caroline Poggi e Jonathan Vinel
Caroline Poggi e Jonathan Vinel sono un duo cinematografico che ha intrapreso una collaborazione fitta ormai da qualche anno, nello specifico dal 2014 con il mediometraggio Tant qu'il nous reste des fusils à pompe (2014), vincitore dell’Orso d’oro per il cortometraggio al Festival di Berlino 2014 e vero e proprio primo punto cardine della loro poetica, che abbraccia una rappresentazione pessimistica della condizione giovanile odierna. Dopo aver realizzato insieme i corti Notre héritage (2016) e After School Knife Fight (2017), che rafforzano la loro poetica, e aver partecipato così al film collettivo Ultra Rêve (2018), vero e proprio manifesto del cinema-revè, insieme a Bertrand Mandico e Yann Gonzalez, il duo gira il suo primo lungometraggio, Jessica Forever (2018), selezionato al TIFF e alla Berlinale. In questo lungo, il duo riesce già a condensare tutte le ossessioni del proprio cinema, dal concetto di avatar come “coquille vide” da riempire con pulsioni, angosce e desideri individuali all’uso di un’estetica iper-realistica che rimanda al medium videoludico, secondo loro l’unico in grado di restituire la sensazione libera e “sacra” di esplorazione, svincolata da convenzioni narrative tradizionali. Dopo vari altri corti e la presentazione a Cannes, nella sezione Quinzaine Des Cinéastes, del loro secondo lungometraggio dal titolo Eat The Night (2024), ulteriore rafforzamento della poetica dell’apocalisse digitale che sta coinvolgendo la Gen-Z nel presente, sono approdati quest’anno ad Annecy con il loro nuovo cortometraggio, dal titolo La Fille Qui Explose (2024). Il corto mescola realismo crudo ed estetica da videogame, essendo stato realizzato interamente con l’ausilio dell’Unreal Engine 4, sfruttando la metafora dell’esplosione e della ripetizione come metafora della rabbia interiore, dell’angoscia generazionale di un mondo che non accoglie i propri giovani, ma anzi provvede ad emarginarli definitivamente e ad alienarli attraverso una condizione sociale disastrata, che si ripercuote anche corporalmente. La ricomposizione incessante del corpo di Candice, protagonista del cortometraggio, enfatizza l’eterna fragilità e resilienza umana, riflettendo diegeticamente la sofferenza interiore dell’età adolescenziale, che diventa poi, in modo molto più grave, una vera e propria dissociazione mentale e corporea, rappresentando in modo ottimale il flusso frammentato dell’identità immersa in un mondo totalmente digitalizzato. La Fille Qui Explose è preda di un ibrido narrativo che materializza e si fa specchio di una generazione “persa”, alla ricerca disperata di un punto d’ancoraggio emotivo per dare un senso alla propria esistenza. L’estetica in 3D, volutamente repellente, permette allo spettatore di osservare questa violenza e questa perdizione prendere forma man mano, senza però negare agli adolescenti la possibilità di una rinascita effettiva (come mostra anche il finale del mediometraggio), mescolando dunque, alla disperazione per questa condizione globale, una fonte di speranza e di ottimismo.
La gran historia de la filosofía occidental, di Aria Covamonas
Spiegare la storia della filosofia non è semplice, ma usarne i riferimenti culturali per fare satira politica nel 2025 è ancora più complesso. Aria Covamonas esordisce alla regia con un film d’animazione complesso, irriverente e per niente scontato, La gran historia de la filosofía occidental si può considerare a pieno un film dadaista. Partendo già dalla tecnica utilizzata, infatti la regista messicana ha deciso di girare l’intero film in cutout, una forma di stop motion che utilizza i ritagli di carta, col quale si vuole richiamare agli ’20 e ’30 e alle avanguardie artistiche di quei decenni. Il film inizia con un animatore cosmico a cui viene chiesto di girare un film filosofico sotto la diretta supervisione di Mao Zedong, che però decide di condannare a morte tutti fin dal primo take. A intervenire per salvare la situazione sarà il compagno Scimmia che altri non è che Sun Wukong, personaggio letterario cinese che da sempre viene associato alla ribellione (nella mitologia infatti il re scimmia fu colui che sfidò gli dei). Da questo momento il film prende una piega surreale, ma è proprio in questo delirio visivo e sonoro che tra citazioni varie, Covamonas semina la sua denuncia contro la politica dell’autoritarismo ma anche nei confronti di un’arte sempre più capitalizzata che libera. Dove se Mao Zedong rappresenta la repressione politica, per denunciare il mondo culturale, Covamonas mette in scena Mickey Mouse con le fattezze di Walt Disney. A dare un tocco d’arte in più, oltre alla tecnica menzionata prima, c’è soprattutto l’utilizzo dell’audio a cui si è voluto dare un effetto che rendesse le voci e i suoni come uscire da un vecchio vinile. Se non ci fossero riferimenti culturali a noi vicini, come il covid e Disney, il film potrebbe tranquillamente sembrare uscito da un archivio degli anni ’30. Covamonas non solo si rifà all’estetica dadaista, ma ne sposa soprattutto il manifesto e le intenzioni. In un mondo dove tutto sembra impazzito e dove la ragione (non a caso il film originariamente fa riferimento ai filosofi), è proprio l’arte che ci può aiutare ad essere più liberi.
Olivia y Las Nubes, di Tómas Pichardo-Espaillat
Frutto di una produzione durata più di un decennio e a cui hanno lavorato decine di animatori dagli stili differenti, Olivia y Las Nubes è un film in tecnica mista proveniente dalla Repubblica Dominicana ed esordio al lungometraggio dell’artista Tomas Pichardo-Espaillat. Presentato a Locarno nel 2024 nel Concorso Cineasti del Presente, l’opera è un puzzle narrativo diviso in due parti, le quali andranno a collegarsi in un finale che definirà una risposta a tutti gli interrogativi al centro dell’intreccio. Al primo impatto l’opera stupisce per l’accumulo stratificato di tecniche differenti: animazione in 2D, animazione a pastello, con la seta, stop-motion… ogni scelta estetica porta con sé un cambiamento di registro, una diversa sperimentazione tecnica che va ad arricchire l’esperienza filmica, andando anche a mutare per rispecchiare l’introspezione dei vari personaggi: quando il film mostra la casa di Olivia e di suo figlio Mauricio, lo split-screen viene usato per frammentare lo spazio bidimensionale, rispecchiando lo stato di smarrimento cognitivo della protagonista; nelle sequenze ambientate nell’ufficio di Ramon le animazioni sono ridotte al minimo e lo stile da spot corporativo rispecchia la monotonia della sua vita lavorativa; o le scene oniriche come quella ambientata nella discoteca in cui si rifugia Mauricio, che hanno uno stile psichedelico e dagli accesi colori lampeggianti, volti a rappresentare un’alienazione rispetto alla realtà. Ma la riverenza dell’autore nei confronti dell’arte dell’animazione si esprime anche attraverso il personaggio di Barbara, la quale rifugge dalla realtà proprio attraverso la creazione di corti in stop-motion, allo stesso modo in cui, sempre nel 2024, il regista Adam Elliot ha mostrato la sua protagonista Grace apprendere la medesima tecnica dal padre in Memoir of a Snail. Le strade diventano luogo d’incontro col mistico, i desideri dei personaggi sembrano concretizzarsi solo nei sogni e la critica sociale del film è contaminata da un realismo magico che trova nelle sovrapposizioni di montaggio e nelle metamorfosi dell’animazione il punto di contatto degli stati emotivi dei personaggi con i cambiamenti degli spazi. Ma i virtuosismi di cui vive la pellicola non sono mai fine a se stessi e infatti Olivia y Las Nubes trova forza anche nella sua frammentazione narrativa, nel partire dall’immagine di una ragazza spaventata da ciò che si nasconde nel baule sotto il suo letto per narrare i traumi del passato, di un amore tossico o non corrisposto, che segna la vita della protagonista e passa di generazione in generazione, in un ciclico ripetersi degli stessi errori. Non basta un singolo stile per rappresentare la varietà di tipi e dilemmi umani che il cineasta vuole narrare, esattamente come non basterà una vita ai personaggi di Olivia, Ramon, Mauricio e Barbara per lasciarsi alle spalle i dolori che ancora portano nel proprio baule.
Space Cadet, di Eric San
Eric San è noto a tutti per la sua attitudine musicale e per il suo impegno che occupa vari campi artistici. Il giovane artista canadese, oltre ad essere uno scratch DJ conosciuto con il famigerato pseudonimo Kid Koala ed aver contribuito in prima persona ai Gorillaz (insieme al leader dei Blur, Damon Albarn), vanta collaborazioni di vario tipo con gruppi come Radiohead, Beastie Boys e Preservation Hall Jazz Band. Ha cominciato a conoscere da vicino il mondo del cinema dagli anni 2000, come collaboratore per tracce delle colonne sonore di film quali Shaun Of The Dead (2004), Blade II (2004), Looper (2012) e Baby Driver (2017). La sua notevole poliedricità non si esaurisce con la musica, ma sconfina perfino nell’arte fumettistica. Eric San è infatti autore e illustratore delle graphic novel Nufonia Must Fall (2003) e Space Cadet (2011). Proprio quest’ultima è stata poi adattata nel 2025 dallo stesso San, che grazie a questo adattamento ha ufficialmente esordito nel mondo del cinema con il suo primo lungometraggio d’animazione, presentato a Berlino 2025 nella sezione Generation Kplus e riproposto ad Annecy 2025 nella sezione Contrechamps. Space Cadet si rivela un sorprendente debutto per il giovane artista, regalando al pubblico un’esperienza molto particolare, a metà tra autorialità e cinema sensoriale. Il film, dietro l’apparente coming-of-age della sua protagonista, è effettivamente la metafora della solitudine del diverso, un racconto sulla necessità d’empatia in un mondo in cui chi viene etichettato come diverso non ha vita semplice. La figura del robot, più che esprimere l’iper-tecnologizzazione della società odierna, si rivela piuttosto una figura genitoriale dismessa, un caregiver completamente messo da parte in una società che delega e poi dimentica. L’assenza di dialoghi rafforza l’idea che l’interiorità di questa macchina sia inascoltata, eppure profondissima. In Space Cadet, il confine sentimentale tra umano e tecnologia decade, ed Eric San crea un diario emotivo di un essere non umano che sperimenta per la prima volta un sentimento di vuoto. Ma la cosa più interessante si rivela nella disattesa di percorsi d’animazione in voga al giorno d’oggi. A differenza delle grandi produzioni, infatti, il film rinuncia a narrazioni fortemente strutturate, battute memorabili o colpi di scena. Si muove invece nell’alveo di un'animazione "tattile" e meditativa, affine per certi versi all’estetica poetica di un grandissimo quale Isao Takahata, sfruttando però uno stile in 3D molto diverso dalla norma, in cui c’è spazio anche per inserti action provenienti da mondi totalmente differenti da quello occidentale (come nel caso delle sequenze d’azione, che ricalcano lo stile dei wuxia) e soprattutto per le emozioni nostalgiche, con il finale che diventa un bellissimo excursus sulla potenza nostalgica della memoria e, filosoficamente, su quanto le nostre vite vadano vissute a pieno, sebbene siano passeggere.
The Square, di Kim Bo-sol
Ambientato in Corea del Nord, l’opera prima di Kim Bo-sol racconta la relazione clandestina tra Isak Borg, diplomatico svedese, e Seo Bok-joo, una vigilessa locale che rappresenta una figura emblematica del regime. In un contesto opprimente e sotto costante sorveglianza come quello di Pyongyang, questa loro connessione diventa simbolo di resistenza e libertà individuale. L’animazione 2D colpisce sin da subito con il suo stile minimalista e gli spazi dilatati; le composizioni di Kim, prediligendo vuoti e silenzi, risaltano quella sensazione di assenza e alienazione che permea l’intera opera. La regia e l’animazione rinunciano all’ornamento e agli eccessi per lasciare spazio a un’analisi introspettiva della tensione psicologica dei personaggi.Se all’inizio la dinamica tra i due innamorati sembra al centro della storia, un terzo personaggio diventa fondamentale man mano che il film procede: Myeong-jun, interprete di Borg. Dando spazio anche a quest’ultimo, The Square si può accostare narrativamente a The Lives of Others di Florian Henckel von Donnersmarck (2006), due film che raccontano l’invasività di uno Stato che vigila costantemente sui propri cittadini, e il modo in cui la sensibilità individuale riesce a sopravvivere anche nei sistemi più repressivi. The Square è un film intimo e toccante, il cui minimalismo stilistico si sposa perfettamente con la narrativa centrale, costruendo un ponte fra due mondi dove amore ed empatia fungono da forma di ribellione contro un contesto sociopolitico asfissiante.
di Omar Franini e Antonio Orrico, Cecilia Parini, Lorenzo Sartor e Arturo Garavaglia
NC-313
18.06.2025
Come ogni anno, durante il mese di giugno si svolge il Festival di Annecy, il palcoscenico internazionale più importante del cinema d’animazione dove vengono presentate le opere animate più innovative della stagione cinematografica. Oltre ai grandi titoli firmati Walt Disney Pictures e Pixar, la manifestazione accoglie una variopinta selezione di lungometraggi provenienti da ogni parte del mondo. Oggi vi racconteremo le visioni che più ci hanno affascinato. Inoltre, con questa selezione vogliamo mettere in risalto anche diverse tecniche di animazione; tra cui il disegno a mano di Balentes di Giovanni Columbu, la grafica computer 2D di Jinsei di Ryuya Suzuki e Allah n’est pas obligé di Zaven Najjar ed infine la grafica computer 3D di Space Cadet di Eric San.
Allah n’est pas obligé, di Zaven Najjar
Presentato come Work-in-Progress al Festival di Annecy 2024 e successivamente selezionato per la competizione ufficiale nel 2025, Allah n’est pas obligé di Zaven Najjar è l'adattamento del romanzo omonimo di Ahmadou Kourouma che racconta la storia di Birahima, un orfano della Guinea di dieci anni che, nel tentativo di raggiungere la zia in Liberia, viene coinvolto nella guerra civile e costretto a diventare un bambino-soldato. La scelta di trasportare questa storia sullo schermo grazie all’animazione e alla computer grafica 2D e 3D si è rivelata più che azzeccata per riflettere il punto di vista del protagonista che, usando la propria immaginazione, racconta la propria esperienza trasformando l’orrore e la brutalità della guerra in un racconto che, a volte, prende direzioni surreali. Non a caso, Najjar usa abilmente silhouette grafiche marcate, un eccesso di cromatura e sfondi ricchi per mettere in risalto questa componente espressiva fumettistica e pop (l’uso di California Love di 2Pac e Dr. Dre per introdurre le vicende di Birahima è semplicemente geniale), che fa da contrasto con le crude immagini e situazioni che il giovane protagonista vive. Questo approccio, già presente nel romanzo di Kourouma, non sminuisce la gravità della situazione politica affrontata, ma al contrario, ne amplifica l’irrazionalità e la crudeltà. Allah n’est pas obligé è un film necessario al giorno d’oggi, una visione che si rivolge soprattutto a un pubblico giovane, dimostrando ancora una volta come l’animazione possa affrontare temi delicati e duri come la guerra spingendosi oltre i confini del realismo senza rinunciare all’estro creativo delle tecniche adoperate.
Balentes, di Giovanni Columbu
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e quest’anno al 54esimo Festival del Cinema di Rotterdam, Balentes è un film d’animazione in tecnica tradizionale disegnato a mano dal regista e pittore sardo Giovanni Columbu. L’opera narra una storia raccontata al cineasta dalla propria nonna e avvenuta in Sardegna nel 1940, ovvero il furto di un cavallo destinato a partire per la guerra da parte di due ragazzini rispettivamente di 11 e 14 anni, evento insignificante rispetto alla portata del periodo storico rappresentato, ma comunque cruciale per definire gli ideali di resistenza che avrebbero portato alla fine del Fascismo. I disegni in bianco e nero di Columbu sono distinti da un tratto indefinito, essenziale, che si limita sempre a suggerire le figure senza mai mostrare singoli dettagli o particolari rilevanti. Anzi, sia la Storia della nazione che la storia dei due giovani protagonisti viene osservata da lontano, come se noi spettatori la stessimo spiando da una lente sporca e arrugginita, mentre le singole parole si perdono spesso a causa dei rumori naturali, dei suoni dei passi umani e dei versi animali. In alcune sequenze gli effetti a iride suggeriscono una visione da lontano di qualcosa che dovrebbe essere vietato mostrare, come se le istanze fasciste che opprimono i protagonisti fossero le stesse che impediscono di preservare il ricordo di quel periodo e di dare forma a una reale memoria storica, che invece può essere costruita solo come ombra, come pittura rupestre di un tempo perduto. Lo stile frammentato delle animazioni (che si rispecchia poi in una storia dai pezzi disordinati che spetta a noi ricomporre) e l’impermanenza delle figure disegnate a schermo rimandano inevitabilmente alle origini della Settima Arte, a un proto-cinema a 16 frame al secondo. E come quel cinema è oggi un museo di fantasmi del passato, che percorrono muti quadri statici, allo stesso modo le inquadrature di Columbu sono perlopiù fisse, laddove invece i personaggi sono rappresentati in una continua metamorfosi che gli impedisce di assumere una sola forma e che inevitabilmente fanno pensare ad un altro film d’animazione sulla storia italiana del Novecento, ossia Invelle (2023) di Simone Massi. L’autore riempie così la sua opera di simboli del cinema primitivo, come la presenza fondamentale del treno, altra figura simbolo di dinamismo, o degli stessi cavalli, che come alla fine dell’Ottocento erano stati usati per rappresentare la nuova frontiera dell’arte visuale, vengono oggi usati da Columbu per svelare l’illusione alla base della permanenza della visione, in sequenze dove l’assenza di un frame mancante mostra l’artificialità dell’animazione e rende evidente la sua stessa costruzione. Come i dettagli delle animazioni e dei disegni si perdono in una ricerca stilistica che scarnifica l’immagine cinematografica di ogni sua pretesa di una rappresentazione realistica, allo stesso modo delle vite dei due protagonisti rimangono solo tracce, frammenti di un dipinto lasciato incompleto, come tale appare la Storia ai nostri occhi contemporanei.
ChaO, di Yasuhiro Aoki
In una Shangai futuristica umani e sirene convivono pacificamente insieme, ma come si è arrivati a questo? ChaO è il nuovo film prodotto da STUDIO4℃ e diretto da Yasuhiro Aoki. Attraverso un giovane giornalista facciamo la conoscenza di Stephan, che anni prima era diventato famoso per essersi sposato con la principessa del regno delle sirene Chao, creando così un primo punto d’unione tra umani e creature marine. Durante questa chiacchierata Stephan racconterà al giovane come siano andate davvero le cose e come la sua storia d’amore non sia stata per nulla semplice. ChaO è girato in animazione 2D e il character design è di Hirokazu Kojima, che mette in scena uno stile di disegno unico. Alcuni elementi sembrano lievemente tratteggiati, quasi minimalisti, mentre altri elementi, come alcuni personaggi, sono iper dettagliati. Il tratto del disegno non è mai netto e i personaggi cambiano forma, sono fluidi e si uniformano perfettamente al paesaggio che li circonda. La regia di Aoki e lo stile di Kojima si sposano perfettamente dando vita a un film con situazioni comiche (le scene non sono mai vuote e vi è sempre un piccolo sketch portato avanti dai personaggi di sfondo o protagonisti stessi), ma che nonostante l’apparente leggerezza nasconde tematiche più importanti, come il desiderio di essere amati e l'elaborazione della perdita. ChaO è una stupenda fiaba contemporanea che si portata giustamente a casa il premio della giuria, dimostrando come ancora oggi il Giappone sia il paese dell’animazione e che con il 2D si possono ancora creare film freschi e innovativi.
Heart of Darkness, di Rogério Nunes
Esordio nel lungometraggio d'animazione di Rogèrio Nunes, Heart of Darkness è un libero riadattamento dell'omonimo romanzo di Joseph Conrad. Il film del regista brasiliano, però, sembra guardare direttamente all'altrettanto noto adattamento del testo, Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Le atmosfere e le tematiche, infatti, richiamano esplicitamente l'opera del 1979. Con uno stile d'animazione che ibrida con efficacia il 2D e il 3D e con una stilizzazione delle figure che ricorda molto il Satoshi Kon di Paranoia Agent (2004), Rogèrio Nunes porta avanti una dura denuncia sociale nei confronti della violenza e della brutalità delle forze governative brasiliane. Purtroppo, però, dopo un incipit folgorante che richiama, in maniera ironica, le modalità dei videogiochi fps recenti, la storia prosegue pedissequamente lungo i binari già noti del romanzo, ingabbiando la forma del road movie in schematici incontri con personaggi i cui caratteri vengono solo abbozzati. A mancare, dunque, non è né la tecnica, più che discreta, né la dura denuncia sociale che ci si aspetta da un riadattamento di Conrad filtrato dalla lente di Apocalypse Now, ma delle metafore e dei simboli che vadano oltre la consuetudine e rendano Heart of Darkness un film da guardare non solo per la pregevolezza tecnica, ma anche per la profondità del suo racconto. Nota di merito finale va data alla colonna sonora, che mischia molteplici generi musicali, dal rock al metal fino a suoni più tradizionalmente brasiliani e si sposa alla perfezione con l'esuberanza delle immagini.
Jinsei, di Ryan Suzuki
L’inizio di Jinsei, opera prima del regista giapponese Ryuya Suzuki, è la chiave di volta di tutto il film: un campo-controcampo tra la soggettiva del protagonista che vede la madre morente e quella della donna stessa. Quest’ultimo controcampo presenta però una stonatura, perché la madre non riesce a vedere interamente il figlio, ma solo un frammento del suo volto tra le dita della propria mano, mentre cerca di raggiungerlo.Come nel resto del film, il protagonista riuscirà sempre a guardare con lucida freddezza ciò che ha davanti, mentre chiunque lo guarderà vedrà solo un frammento della sua identità. Realizzato dal 2020 al 2025 dal regista con l’ausilio di un iPad e un budget risicato, l’esordio dell’animatore nipponico si distingue fin da subito per uno stile d’animazione grezzo, che però viene valorizzato attraverso una curata gestione di ogni inquadratura e un particolare uso dei formati, attraverso cui Suzuki riempie l’opera di scelte stilistiche stimolanti. Lo stile patinato di disegni e ambienti diventa il mezzo per veicolare una critica verso la società dello spettacolo e la sua artificiosità, che si scontra con l’astrattezza delle varie scelte espressive di montaggio e regia. Ma il centro nevralgico dell’opera rimane l’esplorazione della vita del protagonista lungo i decenni e divisa in dieci atti, dai primi anni Duemila fino ad un lontano futuro fantascientifico in cui l’umanità non esiste più. Ognuno di questi dieci capitoli si intitola con il soprannome con cui il personaggio viene riconosciuto in quel periodo della sua vita e ogni persona che lo incontra non riuscirà mai a comprendere totalmente la persona che si trova davanti, ma ne conserverà solo un frammento della sua identità. Il percorso di ricerca identitaria del protagonista (che sarà cantante di un gruppo idol, senzatetto, attore, soldato, messia di una nuova umanità) passerà lungo la storia del Giappone contemporaneo e futuro, mostrando le difficoltà e le contraddizioni del capitalismo moderno.Non è un caso che durante tutto il film l’occhio del protagonista avrà un ruolo importante e che, durante uno di questi segmenti, egli verrà riconosciuto come “Dio”, perché infatti lo sguardo totalizzante di questa figura silenziosa, osservatrice e senza un’identità definita altro non è che quello di una divinità. Il suo occhio è quello del cinema, che riesce a imporsi sulla realtà e a svelarne la sua natura più tragica e grottesca. Attraverso uno stile originale e una narrazione frammentata, l’opera di Suzuki si impone già come uno dei film d’animazione più originali e audaci in uscita quest'anno.
La Fille qui explose, di Caroline Poggi e Jonathan Vinel
Caroline Poggi e Jonathan Vinel sono un duo cinematografico che ha intrapreso una collaborazione fitta ormai da qualche anno, nello specifico dal 2014 con il mediometraggio Tant qu'il nous reste des fusils à pompe (2014), vincitore dell’Orso d’oro per il cortometraggio al Festival di Berlino 2014 e vero e proprio primo punto cardine della loro poetica, che abbraccia una rappresentazione pessimistica della condizione giovanile odierna. Dopo aver realizzato insieme i corti Notre héritage (2016) e After School Knife Fight (2017), che rafforzano la loro poetica, e aver partecipato così al film collettivo Ultra Rêve (2018), vero e proprio manifesto del cinema-revè, insieme a Bertrand Mandico e Yann Gonzalez, il duo gira il suo primo lungometraggio, Jessica Forever (2018), selezionato al TIFF e alla Berlinale. In questo lungo, il duo riesce già a condensare tutte le ossessioni del proprio cinema, dal concetto di avatar come “coquille vide” da riempire con pulsioni, angosce e desideri individuali all’uso di un’estetica iper-realistica che rimanda al medium videoludico, secondo loro l’unico in grado di restituire la sensazione libera e “sacra” di esplorazione, svincolata da convenzioni narrative tradizionali. Dopo vari altri corti e la presentazione a Cannes, nella sezione Quinzaine Des Cinéastes, del loro secondo lungometraggio dal titolo Eat The Night (2024), ulteriore rafforzamento della poetica dell’apocalisse digitale che sta coinvolgendo la Gen-Z nel presente, sono approdati quest’anno ad Annecy con il loro nuovo cortometraggio, dal titolo La Fille Qui Explose (2024). Il corto mescola realismo crudo ed estetica da videogame, essendo stato realizzato interamente con l’ausilio dell’Unreal Engine 4, sfruttando la metafora dell’esplosione e della ripetizione come metafora della rabbia interiore, dell’angoscia generazionale di un mondo che non accoglie i propri giovani, ma anzi provvede ad emarginarli definitivamente e ad alienarli attraverso una condizione sociale disastrata, che si ripercuote anche corporalmente. La ricomposizione incessante del corpo di Candice, protagonista del cortometraggio, enfatizza l’eterna fragilità e resilienza umana, riflettendo diegeticamente la sofferenza interiore dell’età adolescenziale, che diventa poi, in modo molto più grave, una vera e propria dissociazione mentale e corporea, rappresentando in modo ottimale il flusso frammentato dell’identità immersa in un mondo totalmente digitalizzato. La Fille Qui Explose è preda di un ibrido narrativo che materializza e si fa specchio di una generazione “persa”, alla ricerca disperata di un punto d’ancoraggio emotivo per dare un senso alla propria esistenza. L’estetica in 3D, volutamente repellente, permette allo spettatore di osservare questa violenza e questa perdizione prendere forma man mano, senza però negare agli adolescenti la possibilità di una rinascita effettiva (come mostra anche il finale del mediometraggio), mescolando dunque, alla disperazione per questa condizione globale, una fonte di speranza e di ottimismo.
La gran historia de la filosofía occidental, di Aria Covamonas
Spiegare la storia della filosofia non è semplice, ma usarne i riferimenti culturali per fare satira politica nel 2025 è ancora più complesso. Aria Covamonas esordisce alla regia con un film d’animazione complesso, irriverente e per niente scontato, La gran historia de la filosofía occidental si può considerare a pieno un film dadaista. Partendo già dalla tecnica utilizzata, infatti la regista messicana ha deciso di girare l’intero film in cutout, una forma di stop motion che utilizza i ritagli di carta, col quale si vuole richiamare agli ’20 e ’30 e alle avanguardie artistiche di quei decenni. Il film inizia con un animatore cosmico a cui viene chiesto di girare un film filosofico sotto la diretta supervisione di Mao Zedong, che però decide di condannare a morte tutti fin dal primo take. A intervenire per salvare la situazione sarà il compagno Scimmia che altri non è che Sun Wukong, personaggio letterario cinese che da sempre viene associato alla ribellione (nella mitologia infatti il re scimmia fu colui che sfidò gli dei). Da questo momento il film prende una piega surreale, ma è proprio in questo delirio visivo e sonoro che tra citazioni varie, Covamonas semina la sua denuncia contro la politica dell’autoritarismo ma anche nei confronti di un’arte sempre più capitalizzata che libera. Dove se Mao Zedong rappresenta la repressione politica, per denunciare il mondo culturale, Covamonas mette in scena Mickey Mouse con le fattezze di Walt Disney. A dare un tocco d’arte in più, oltre alla tecnica menzionata prima, c’è soprattutto l’utilizzo dell’audio a cui si è voluto dare un effetto che rendesse le voci e i suoni come uscire da un vecchio vinile. Se non ci fossero riferimenti culturali a noi vicini, come il covid e Disney, il film potrebbe tranquillamente sembrare uscito da un archivio degli anni ’30. Covamonas non solo si rifà all’estetica dadaista, ma ne sposa soprattutto il manifesto e le intenzioni. In un mondo dove tutto sembra impazzito e dove la ragione (non a caso il film originariamente fa riferimento ai filosofi), è proprio l’arte che ci può aiutare ad essere più liberi.
Olivia y Las Nubes, di Tómas Pichardo-Espaillat
Frutto di una produzione durata più di un decennio e a cui hanno lavorato decine di animatori dagli stili differenti, Olivia y Las Nubes è un film in tecnica mista proveniente dalla Repubblica Dominicana ed esordio al lungometraggio dell’artista Tomas Pichardo-Espaillat. Presentato a Locarno nel 2024 nel Concorso Cineasti del Presente, l’opera è un puzzle narrativo diviso in due parti, le quali andranno a collegarsi in un finale che definirà una risposta a tutti gli interrogativi al centro dell’intreccio. Al primo impatto l’opera stupisce per l’accumulo stratificato di tecniche differenti: animazione in 2D, animazione a pastello, con la seta, stop-motion… ogni scelta estetica porta con sé un cambiamento di registro, una diversa sperimentazione tecnica che va ad arricchire l’esperienza filmica, andando anche a mutare per rispecchiare l’introspezione dei vari personaggi: quando il film mostra la casa di Olivia e di suo figlio Mauricio, lo split-screen viene usato per frammentare lo spazio bidimensionale, rispecchiando lo stato di smarrimento cognitivo della protagonista; nelle sequenze ambientate nell’ufficio di Ramon le animazioni sono ridotte al minimo e lo stile da spot corporativo rispecchia la monotonia della sua vita lavorativa; o le scene oniriche come quella ambientata nella discoteca in cui si rifugia Mauricio, che hanno uno stile psichedelico e dagli accesi colori lampeggianti, volti a rappresentare un’alienazione rispetto alla realtà. Ma la riverenza dell’autore nei confronti dell’arte dell’animazione si esprime anche attraverso il personaggio di Barbara, la quale rifugge dalla realtà proprio attraverso la creazione di corti in stop-motion, allo stesso modo in cui, sempre nel 2024, il regista Adam Elliot ha mostrato la sua protagonista Grace apprendere la medesima tecnica dal padre in Memoir of a Snail. Le strade diventano luogo d’incontro col mistico, i desideri dei personaggi sembrano concretizzarsi solo nei sogni e la critica sociale del film è contaminata da un realismo magico che trova nelle sovrapposizioni di montaggio e nelle metamorfosi dell’animazione il punto di contatto degli stati emotivi dei personaggi con i cambiamenti degli spazi. Ma i virtuosismi di cui vive la pellicola non sono mai fine a se stessi e infatti Olivia y Las Nubes trova forza anche nella sua frammentazione narrativa, nel partire dall’immagine di una ragazza spaventata da ciò che si nasconde nel baule sotto il suo letto per narrare i traumi del passato, di un amore tossico o non corrisposto, che segna la vita della protagonista e passa di generazione in generazione, in un ciclico ripetersi degli stessi errori. Non basta un singolo stile per rappresentare la varietà di tipi e dilemmi umani che il cineasta vuole narrare, esattamente come non basterà una vita ai personaggi di Olivia, Ramon, Mauricio e Barbara per lasciarsi alle spalle i dolori che ancora portano nel proprio baule.
Space Cadet, di Eric San
Eric San è noto a tutti per la sua attitudine musicale e per il suo impegno che occupa vari campi artistici. Il giovane artista canadese, oltre ad essere uno scratch DJ conosciuto con il famigerato pseudonimo Kid Koala ed aver contribuito in prima persona ai Gorillaz (insieme al leader dei Blur, Damon Albarn), vanta collaborazioni di vario tipo con gruppi come Radiohead, Beastie Boys e Preservation Hall Jazz Band. Ha cominciato a conoscere da vicino il mondo del cinema dagli anni 2000, come collaboratore per tracce delle colonne sonore di film quali Shaun Of The Dead (2004), Blade II (2004), Looper (2012) e Baby Driver (2017). La sua notevole poliedricità non si esaurisce con la musica, ma sconfina perfino nell’arte fumettistica. Eric San è infatti autore e illustratore delle graphic novel Nufonia Must Fall (2003) e Space Cadet (2011). Proprio quest’ultima è stata poi adattata nel 2025 dallo stesso San, che grazie a questo adattamento ha ufficialmente esordito nel mondo del cinema con il suo primo lungometraggio d’animazione, presentato a Berlino 2025 nella sezione Generation Kplus e riproposto ad Annecy 2025 nella sezione Contrechamps. Space Cadet si rivela un sorprendente debutto per il giovane artista, regalando al pubblico un’esperienza molto particolare, a metà tra autorialità e cinema sensoriale. Il film, dietro l’apparente coming-of-age della sua protagonista, è effettivamente la metafora della solitudine del diverso, un racconto sulla necessità d’empatia in un mondo in cui chi viene etichettato come diverso non ha vita semplice. La figura del robot, più che esprimere l’iper-tecnologizzazione della società odierna, si rivela piuttosto una figura genitoriale dismessa, un caregiver completamente messo da parte in una società che delega e poi dimentica. L’assenza di dialoghi rafforza l’idea che l’interiorità di questa macchina sia inascoltata, eppure profondissima. In Space Cadet, il confine sentimentale tra umano e tecnologia decade, ed Eric San crea un diario emotivo di un essere non umano che sperimenta per la prima volta un sentimento di vuoto. Ma la cosa più interessante si rivela nella disattesa di percorsi d’animazione in voga al giorno d’oggi. A differenza delle grandi produzioni, infatti, il film rinuncia a narrazioni fortemente strutturate, battute memorabili o colpi di scena. Si muove invece nell’alveo di un'animazione "tattile" e meditativa, affine per certi versi all’estetica poetica di un grandissimo quale Isao Takahata, sfruttando però uno stile in 3D molto diverso dalla norma, in cui c’è spazio anche per inserti action provenienti da mondi totalmente differenti da quello occidentale (come nel caso delle sequenze d’azione, che ricalcano lo stile dei wuxia) e soprattutto per le emozioni nostalgiche, con il finale che diventa un bellissimo excursus sulla potenza nostalgica della memoria e, filosoficamente, su quanto le nostre vite vadano vissute a pieno, sebbene siano passeggere.
The Square, di Kim Bo-sol
Ambientato in Corea del Nord, l’opera prima di Kim Bo-sol racconta la relazione clandestina tra Isak Borg, diplomatico svedese, e Seo Bok-joo, una vigilessa locale che rappresenta una figura emblematica del regime. In un contesto opprimente e sotto costante sorveglianza come quello di Pyongyang, questa loro connessione diventa simbolo di resistenza e libertà individuale. L’animazione 2D colpisce sin da subito con il suo stile minimalista e gli spazi dilatati; le composizioni di Kim, prediligendo vuoti e silenzi, risaltano quella sensazione di assenza e alienazione che permea l’intera opera. La regia e l’animazione rinunciano all’ornamento e agli eccessi per lasciare spazio a un’analisi introspettiva della tensione psicologica dei personaggi.Se all’inizio la dinamica tra i due innamorati sembra al centro della storia, un terzo personaggio diventa fondamentale man mano che il film procede: Myeong-jun, interprete di Borg. Dando spazio anche a quest’ultimo, The Square si può accostare narrativamente a The Lives of Others di Florian Henckel von Donnersmarck (2006), due film che raccontano l’invasività di uno Stato che vigila costantemente sui propri cittadini, e il modo in cui la sensibilità individuale riesce a sopravvivere anche nei sistemi più repressivi. The Square è un film intimo e toccante, il cui minimalismo stilistico si sposa perfettamente con la narrativa centrale, costruendo un ponte fra due mondi dove amore ed empatia fungono da forma di ribellione contro un contesto sociopolitico asfissiante.