A cura di Ludovico Cantisani in collaborazione con Antonio Orrico
INT-27
30.03.2023
Bertrand Mandico - nato a Tolosa nel 1971 - è, a livello internazionale, uno dei più acclamati esponenti del cinema sperimentale contemporaneo. Ha al suo attivo quasi cinquanta titoli da regista, tra cortometraggi d’autore e commercials televisivi, svariati dei quali sono presenti nel catalogo della piattaforma specializzata MUBI. Il suo primo lungometraggio, Wild Boys, è stato proclamato dalla prestigiosa rivsta Cahiers du cinéma come il miglior film del 2018; il suo secondo lungometraggio, After Blue, noto anche come Paradis Sale, è stato invece presentato al Festival di Locarno nel 2021. Co-firmatario nel 2012 dell’Incoherence Manifesto assieme alla filmmaker islandese Katrín Ólafsdóttir, negli anni si è saputo imporre all’attenzione della critica e dei festival internazionali specializzati con uno stile unico e inconfondibile, dominato da una grandissima elaborazione fotografica e dalla forte presenza di tematiche di genere.
Il nostro Ludovico Cantisani, in collaborazione con Antonio Orrico, ha avuto la fortuna di intrattenere un'interessante conversazione con il regista, e di parlare con lui della sua distintiva, ed eclettica, visione di cinema. La traduzione dell'intervista è stata curata da Riccardo Garbetta.
Qual è stato il tuo primo contatto con il cinema e come hai maturato la decisione di diventare regista?
Ho innanzitutto visto molti film in televisione. Inizi di film e colonne sonore, a dirla tutta: dei film trasmessi la sera in tv, potevo vederne soltanto l’inizio, poi i miei genitori mi chiedevano di andare a letto e, ascoltando la colonna sonora attraverso le pareti, immaginavo il seguito. Le mie prime emozioni cinematografiche sono legate alle grandi scimmie: la prima parte di King Kong, fino al suo arrivo davanti a Jessica Lange, nella versione di Dino De Laurentiis degli anni settanta; l’inizio de Il pianeta delle scimmie, che sono riuscito a vedere fino all’arrivo delle scimmie sui cavalli, sempre nella versione anni settanta... A volte mi capitava anche di vedere brevi spezzoni di film mostrati all’interno di trasmissioni specifiche sul cinema; è così che ho scoperto, ad esempio, il cinema di Lynch molto presto, con frammenti di Elephant Man (l’inseguimento dell’uomo mascherato nella stazione) e brani di Eraserhead (la scena del pasto e del pollo). Altri estratti di film fantastici che mi hanno segnato dopo che ci ero incappato da ragazzino sono stati certe sequenze de La zona morta di David Cronenberg e Stati di allucinazione di Ken Russel. Fortunatamente c’erano anche i film che venivano trasmessi in tv durante il giorno, ma io li potevo vedere solo quando ero malato e dovevo stare a casa. È così che ho scoperto Toby Dammit e Le tentazioni del dottor Antonio di Fellini, per dire, e altre stranezze sorprendenti. Avevo anche un libro sul cinema, intitolato Les secrets du cinéma, che conoscevo a memoria. Il mio primo contatto con il cinema è stato quindi nel segno del frammento, della frustrazione, dell’immaginario e dei deliri febbrili. Volevo essere attore o attrice, credevo che gli attori fossero i motori dell’azione e dell’immaginario. Volevo fare cinema essendone al centro.
Qual è stata la tua formazione da cineasta e come sei passato dall’animazione al live action?
Non avendo una telecamera in casa ero convinto che il cinema fosse riservato a un’élite, a gente nata nell’ambiente, e non era quello il mio caso. Io disegnavo e facevo collage sognando il cinema. Le arti plastiche e la storia dell’arte hanno preso il sopravvento a un certo punto. Non a caso è stato attraverso i film d’animazione che sono potuto entrare nel mondo del cinema, per me era una porta d’ingresso più accessibile. Amavo e amo gli autori di film d’animazione, quelli sperimentali, i creatori di universi singolari. Ho imparato molto dal lavoro di Stan Brakhage, di Yuri Norstein, di Paul Grimault, di Laloux & Topor, di Caroline Leaf, di Jan Svankmajer e soprattutto di Walerian Borowczyk, che era passato da film d’animazione surreali a riprese erotiche reali. Per me lui è stato un modello di percorso. Stavo facendo film d’animazione ibridi e appena ho potuto sono passato alle riprese vere e proprie.
Leggendo alcune delle tue precedenti interviste e altri studi sul tuo cinema, mi ha colpito sapere che cerchi di limitare il più possibile la fase di post-produzione dell’immagine, intervenendo sul colore il più possibile sul set e cercando di realizzare dal vivo anche tutti gli effetti; invece l’audio è ricostruito quasi interamente in post-produzione, tra doppiaggio ed effetti sonori. A cosa si deve questa tua scelta registica?
Ho lavorato all’inizio a molti prodotti audiovisivi su commissione di vario tipo, con una post-produzione altrettanto controllata e irregimentata, e molto lunga. Una prassi che ho detestato, troppo stress con intermediari ottusi e di scarso garbo. Per questo motivo da un certo momento in poi ho deciso di realizzare tutti i miei effetti sul set, di vivere i film come spettacoli, dove la concentrazione corale, per gli attori e per i tecnici, converge in modo da raggiungere un punto finale, l’equilibrio delle riprese. Quello che non si riesce a creare sul set non deve esistere, perché è cinema “finto”: tutto quello che lo spettatore deve vedere è quello che è stato ripreso dalla camera, la pellicola sta lì a certificare l’onestà della menzogna. D’altra parte il suono, che è più organico, passa attraverso un altro processo di produzione, molto più ibrido. Il suono è la materia che lega le immagini tra loro durante il montaggio. Non a caso io costruisco la colonna sonora mentre realizzo il montaggio delle immagini, e viceversa: la colonna sonora dei miei film è espressionista, mentre le mie immagini sono impressioniste.
In che modo pensi che l’aspetto sonoro di un film possa intervenire sulla narrazione?
La colonna sonora inonda le immagini, è come un liquido che ingurgita la costruzione filmica. La colonna sonora fluidifica il racconto, porta a galla le emozioni che galleggiano come battelli su un mare. La colonna sonora e in generale tutto il sonoro di un film si infiltra nell’inconscio dello spettatore, è un liquido sensitivo.
La maggior parte dei tuoi film sono caratterizzati da un uso incredibilmente espressivo del colore: luci molto contrastate e innaturali, con colori primari alla Suspiria, oppure al contrario un bianco e nero rigoroso, quasi bressoniano, come in Boro in the Box o in molte scene di The Wild Boys. La tua attenzione rispetto al colore a quali fonti, cinematografiche o pittoriche, si ispira?
Mi assumo in modo radicale la responsabilità delle mie scelte fotografiche. Devono servire al mio scopo e nutrire un immaginario specifico per ogni film, quali che siano il formato e il budget. Per il colore sono stato molto influenzato dai film di Mario Bava e da Vittorio Storaro. Altre influenze mi sono arrivate però anche da registi radicali che hanno sperimentato senza grandi mezzi, come Carmelo Bene, Shuji Terayama o Seijun Suzuki… Mi piace che la fotografia si distacchi dal consenso realistico, o dall’estetica art house convenzionale. Il colore deve inebriare lo spettatore, è l’essenza dell’immagine. Mi ispira molto in questa direzione anche la pittura simbolista di Gustave Moreau o di William Blake. Artisti moderni, espressionisti, pop o surreali come Dix, Ensor, Ernst, Philip Guston o Bacon, sono a loro volta fonti d’ispirazione costante. Così come i luoghi comuni formali di certi vecchi fumetti del tipo White Boy in Skull Valley di Garett Price... Il colore come trampolino di lancio nell’onirico. Quando lavoro in bianco e nero, i miei riferimenti provengono invece per lo più dalla storia della fotografia; posso rifarmi ad artisti tanto diversi come Helmuth Newton o Witkin, faccio grandi salti nei miei film in bianco e nero. Io credo che per me il bianco e nero sia espressione del pensiero, e che il colore lo sia dei sentimenti. A seconda della natura dei film, seguo il mio presupposto estetico.
Come ti relazioni con i tuoi direttori della fotografia?
Con un consapevole mix di precisione e vaghezza. Instauro con il mio direttore della fotografia un rapporto di fiducia e comprensione: cerco di essere puntuale nelle mie indicazioni, ma di lasciargli al contempo zone di libertà e d’inventiva. Non è sempre facile lavorare con me, soprattutto perché sono io che faccio da operatore per tutti i miei film.
In che modo impostazioni di luce così complesse come quelle che caratterizzano i tuoi corti e film possono essere realizzate direttamente sul set?
Dovresti chiedere al mio direttore della fotografia abituale, Pascale Granel. Abbiamo poco tempo sul set e pochissimi mezzi. Occorre molto lavoro di preparazione. Non bisogna aver paura di essere radicali, si lavora senza reti, con fede, come acrobati bendati.
In un’intervista ad ExtraExtraMagazine hai affermato che «il digitale è piuttosto vicino allo scanner di una stampante, mentre la celluloide è molto più vicina a una carezza: girare su pellicola è profondamente erotico». Quanto ritieni importante l’organicità e la matericità, nella tua concezione del cinema e della sua fotografia?
Il corpo, la pelle, gli elementi organici si inscrivono in un décorum, in cui minerale e vegetale coabitano. Questa giustapposizione di materie vive e morte, di fluidi e di fumi fluttuanti, crea l’erotismo delle immagini. Senza questa coabitazione non c’è erotismo possibile. Il corpo umano è la cinghia di trasmissione del desiderio. La luce rivela questa alchimia alla pellicola che riflette, mentre il digitale si accontenta di captare.
Preferisci il 35mm o il Super16?
In questo momento il perfos-cope da 35 mm 2 è il formato con cui mi sento più a mio agio.
Quali esperienze hai avuto invece con il digitale e cosa ti ha lasciato insoddisfatto?
Uso il digitale per le mie retroproiezioni, i miei collage. Poi rifilmo tali immagini in 35mm per dar loro un’anima. Il digitale è un rubinetto che apri e l’immagine scorre, ma insapore. È un’immagine funzionale che non è abitata. Amo la pellicola, ma anche le immagini in digitale possono catturare l’anima.
Tu hai girato un grandissimo numero di cortometraggi e mediometraggi a partire dalla fine degli anni novanta, alcuni dei quali molto premiati a livello festivaliero, e hai esordito al lungometraggio nel 2018 con The Wild Boys; e anche dopo il tuo esordio al lungometraggio hai continuato a girare corti, come The Return of the Tragedy. Il fatto che dai tuoi primi corti al tuo primo lungometraggio sia passato un tempo relativamente lungo, di vent’anni, si deve a difficoltà produttive nel reperire tutti i fondi necessari, o è piuttosto frutto di una tua predilezione verso il “cinema breve”?
Nel il mio percorso ho avuto molte difficoltà a montare i miei film lunghi. All’inizio della mia carriera avevo firmato un contratto diabolico con un produttore, un contratto in esclusiva che mi ha bloccato per letteralmente dieci anni. Questo mi ha impedito di girare lungometraggi, non facevo altro che scrivere sceneggiature. Durante questo periodo ho realizzato alcuni corti semplicemente per non crepare di fame. Ho dovuto girare per poter respirare. Picasso diceva: “Se fossi rinchiuso in una prigione, dipingerei sui muri con la mia merda”. Senza essere così triviale, io ho fatto quel che ho potuto per esistere cinematograficamente. E, paradossalmente, sono sempre riuscito a tirare avanti a campare con i miei film e con la mia scrittura. Il formato corto mi consente di sperimentare una varietà di idee in modo abbastanza rapido, e con la giusta leggerezza. Le mie idee e i miei desideri cinematografici sono di molti tipi, si adattano ai formati e ai budget. Il vincolo mi stimola, purché sia variabile geometricamente.
Sei a tuo agio adesso a passare tra le due forme, dal corto-mediometraggio al lungo?
Sì, del resto ho voglia di recuperare il “tempo perduto". Il formato lungo corrisponde al mio stile narrativo, il formato corto corrisponde più alle mie pulsioni... Mi sento come se fossi stato rinchiuso in una prigione, sulla falsariga del Conte di Montecristo. Gli anni di attesa mi hanno permesso di trovare un tesoro inaspettato, un segreto cinematografico che mi è stato rivelato dalle mie esperienze sui cortometraggi, e che mi aiuta adesso ad arricchire i miei lunghi. Ora mi accingo a girare il mio terzo lungometraggio.
Uno dei tuoi corti più originali e irriverenti era Boro in the Box, un omaggio al già citato regista polacco naturalizzato francese Walerian Borowczyk. Come è nato il progetto e come hai strutturato questo curioso “biopic”?
È nato dalla mia ammirazione per Borowczyk e dal non averlo incontrato. Borowczyk aveva visto uno dei miei primi film, Il cavaliere azzurro, che gli era piaciuto e mi aveva proposto di incontrarci. Ma io ho rifiutato l’invito, ero troppo intimidito. Poi Boro è morto, e io son rimasto col rimpianto di non essere andato a trovarlo e di non aver avuto uno scambio sulla sua opera ispiratrice. Gli ho reso omaggio a modo mio, fantasticando con un film biografico, mi sono servito di Boro per creare una figura di cineasta “nudo e crudo”.
Quali sono gli elementi del cinema di Borowczyk che più ti hanno colpito come spettatore e più ti hanno influenzato come regista?
Il suo stile unico nel plasmare le inquadrature: uno stile breve, erotico, e surreale! Borowczyk ha creato una grammatica cinematografica specifica per il suo cinema, molto economica ed efficace, carica di riferimenti pittorici. Nelle sue inquadrature Boro incorporava frammenti fugaci, immagini folgoranti e inquietanti. Questa costruzione crea una ritmica dell’immagine che trovo semplicemente sublime. Borowczyk è un regista che mi ha incoraggiato a coltivare la mia singolarità abbracciando in toto le mie influenze. Non l’ho incontrato, ma ho incontrato la sua opera, che mi ha parlato.
Un altro dei tuoi cortometraggi più impressionanti e irriverenti era Ultra Pulpe (Prehistoric Cabaret), che si svolgeva in una sorta di cabaret islandese, dove si esplorava in diretta l’interno del corpo femminile attraverso una camera con cui la donna penetrava sé stessa. Come è nato questo cortometraggio e come hai fatto a creare le immagini psichedeliche proiettate durante la scena?
È un film girato in Islanda in due giorni. In un teatro. Ero ad Arnarstapi, dove Jules Vernes ha immaginato l’inizio del suo viaggio al centro della Terra. Ho deciso di adattare il suo romanzo a modo mio, proponendo un viaggio al centro dell’attrice. Anche Jules Vernes aveva un rapporto molto particolare con il suo organismo, col suo stomaco e le sue viscere... Le visioni psichedeliche sono vedute rocciose islandesi, che coabitano con frammenti di film di serie Z. In forma burlesca, il film rende omaggio al coraggio delle attrici/artiste di music-hall. Mi piace il cabaret, lo considero al di sopra del teatro e del melodramma.
Da un punto di vista produttivo, quali sono di solito le basi per il finanziamento dei tuoi progetti?
Aiuti di Stato, aiuti regionali, aiuti da altri Paesi, acquisti da parte di TV, preacquisti da distributori, mecenati, contributi di produttori, commissioni, generosità di tecnici e attrici o attori che lavorano nei film. Mi destreggio tra tutti questi metodi di finanziamento a seconda dei progetti. E cerco di trovare un equilibrio per continuare a creare.
Quali sono i partner produttivi con cui ti sei trovato a collaborare più spesso per i tuoi corti e mediometraggi, e chi ha finanziato la realizzazione di The Wild Boys?
In Francia il CNC rimane il mio principale supporto per i lungometraggi e i mediometraggi, ma anche gli aiuti regionali sono stati e sono tuttora importanti... France 2, uno dei principali canali della TV francese, mi ha spesso supportato per i film mediometraggi. Molto importanti nel corso della mia carriera sono stati anche UFO, il mio distributore, e i contributi del mio produttore abituale, l’Ecce Films. Last but not least, il mio proprio investimento personale nei progetti, che spesso offro alla produzione.
Venendo più nello specifico su The Wild Boys, quali sono state le tue principali reference nell’ambito cinematografico, pittorico e fotografico?
Te ne faccio una lista, se vuoi: William Burroughs, Querelle di Fassbinder, L’Atalante di Jean Vigo, Lord Jim, Il profondo desiderio degli dei di Imamura, David Bowie, Ulisse di Lob e Pichard, Venerdì o Limbo del Pacifico, Il marinaio che abbandonò il mare, Le confessioni di un fumatore d’oppio di Zugsmith, Henry Darger, Jonathan Swift, Suehiro Maruo, Elegia della lotta di Suzuki, Matango di Ishiro Honda, i fratelli Chapman, Portiere di notte di Liliana Cavani, L’isola del dottor Moreau di Don Taylor, Max Ernst, Veruschka, Il funerale delle rose di Toshio Matsumoto, Mishima di Paul Schraeder, Hosoe Eikoh, Werner Schroeter, Teruoishii, Un chant d’amour di Genet, Tatsumu Hijikata, Louise Bourgeois… etc.
Qual è stata nello specifico l’influenza degli scritti di William Burroughs sulla sceneggiatura del film?
È stato il seme che ha fatto crescere l’albero.
In che momento della preparazione di The Wild Boys hai deciso che i “ragazzacci” del titolo dovessero essere interpretati da cinque attrici, e perché?
Nel momento stesso in cui è nata l’idea del film.
Come hai lavorato invece per caratterizzare la flora e la fauna mostruose dell’isola misteriosa su cui i ragazzi fanno naufragio?
Sono partito dall’idea di rendere l’isola a mo’ di collage, con l’associazione di sentimenti contraddittori tra piacere e tortura. La pianta che lecca, la pianta che frusta, i frutti pelosi, i frutti appiccicosi…
Una delle tue collaboratrici più ricorrenti è l’attrice rumena Elina Löwensohn, nel cast anche di The Wild Boys. Il tuo primo lavoro con lei è stato Boro in the Box?
Sì, abbiamo iniziato a lavorare insieme sul set di Boro. Elina ha interpretato un doppio ruolo: quello di Boro, l’eroe del film, nonché l’alter ego di Borowczyk, sua madre.
In quali altri tuoi film brevi ha preso parte?
In tutti i miei corti e lungometraggi a partire da Boro, compresi quelli non ancora finiti.
E come mai ti sei trovato così bene a collaborare con lei?
Elina è il mio doppio, l’attrice che avrei sognato di essere. Quando io filmo mi sento profondamente attrice. Al tempo stesso, lei mi ispira una moltitudine di personaggi, ha una capacità inaudita di catturare l’essenza dei personaggi che io immagino. Può trasformarsi e far esistere i suoi ruoli visivamente e interiormente. Elina ha un coraggio all’altezza del suo talento. E ama la precisione, come me.
Quanto il Coronavirus ha influenzato la tua produzione attuale?
Ho girato e montato durante il periodo di reclusione, ho potuto evadere applicandomi in un ritmo di lavoro intenso e ininterrotto.
E quanto pensi che cambierà le dinamiche del cinema indipendente e underground europeo?
Penso che l’eccessiva produzione di film saturerà un mercato già indebolito dall’abbondanza, quasi offensiva, di piattaforme. Che i copioni concordati finiranno per logorare la tolleranza degli spettatori. Credo che l’immaginario e l’originalità debbano prevalere sull’obsoleto realismo. L’underground in realtà non esiste, nel cinema ci sono tre grandi famiglie: gli autori e gli artisti singolari - autori che sono al tempo stesso produttori e commercianti - e i registi mercenari. L’equa presenza di queste tre famiglie è importante perché il cinema continui ad esistere. Il cinema è un ecosistema fragile, non devono esserci squilibri. Se perde la sua componente artistica, il cinema non esiste più, ma lo stesso accadrebbe se il cinema perdesse la sua componente commerciale, a scanso di equivoci. Le piattaforme cinematografiche sono come le piattaforme petrolifere, bucano il suolo per bere la materia prima senza preoccuparsi del passato o del futuro. Anche a costo di prosciugarne la fonte. Confido nonostante tutto nel futuro, negli imprevedibili capovolgimenti del desiderio negli spettatori.
Nel tuo cinema ha un grande rilievo lo “scombinare le carte” circa i ruoli di genere, la corporeità e la fisicità, le relazioni LGBTQ+ o in generale non eteronormative. Come ti collochi rispetto al dibattito contemporaneo sul gender e sul queer?
La rivoluzione queer sta cambiando la percezione del concetto stesso di individuo. Questa è un’evoluzione indispensabile, ed evidente. Detesto le frontiere, le regole. Sono un abitante del confine, una persona non binaria, che sostiene la libertà di essere o di non essere, la libertà di definirsi, la libertà di trasformarsi, di assumere i propri sentimenti e di prendere in mano la propria individualità polimorfa. Mi sento transgender in ogni senso della parola. Sono sempre felice di vedere i confini che si muovono, le libertà che si diffondono.
In che modo il cinema può confrontarsi con i temi dell’identità sessuale e di genere dei singoli individui?
Abbattendo le frontiere e liberando la fantasia. Scioccando, disturbando e ponendo domande. Confondendo le acque e soprattutto evitando il populismo e rifiutando ogni morale regressiva.
Quale pensi sia la “funzione” del cinema, il suo senso?
Il cinema è una macchina fantasmagorica, un oppio dei popoli, un ideale artistico, uno strumento per visionari, un’ipnosi collettiva, una speranza nella notte, il peggio o il meglio, l’oblio della realtà. Il cinema è multiplo, la sua funzione è scompigliata da tutti coloro che lo abitano, lo occupano e lo dirottano. Per me il cinema è un rivelatore dell’inconscio.
Quali sono le specificità del linguaggio filmico e qual è per te, pensando soprattutto ai tuoi lavori di cortometraggio, il confine tra cinema e videoarte?
Bastano due immagini e un suono per raccontare una storia, per fare cinema. È quello che ho scoperto da bambino. Ho uno strabismo divergente, e per rieducare i miei occhi mi mettevano un’immagine diversa in ogni occhio. Un leone in un occhio, una gabbia nell’altro. Ho dovuto far entrare il leone nella gabbia. Ma non riuscivo mai a rinchiudere la belva. Preferivo divergere verso la libertà, piuttosto che convergere verso la reclusione. Il cinema è il proliferare delle immagini a partire da una data parola. Inizia così il linguaggio del cinema, la fuga delle immagini verso la libertà di espressione. La cosiddetta videoarte è spesso la convergenza delle immagini verso il concetto. I miei film possono incrociare la strada dell’opera artistica, dell’art movie in senso stretto, ma ai miei occhi sono soprattutto saltimbanchi, fanciulli turbolenti. I miei cortometraggi vengono proiettati nei centri d’arte quando vi sono invitati, e ne sono felicissimo... ma comunque continuo a definirli “film”. Cerco di sfuggire alla formalizzazione, voglio immaginare e fare film per lasciarli accarezzare tra le spine.
A cura di Ludovico Cantisani in collaborazione con Antonio Orrico
INT-27
30.03.2023
Bertrand Mandico - nato a Tolosa nel 1971 - è, a livello internazionale, uno dei più acclamati esponenti del cinema sperimentale contemporaneo. Ha al suo attivo quasi cinquanta titoli da regista, tra cortometraggi d’autore e commercials televisivi, svariati dei quali sono presenti nel catalogo della piattaforma specializzata Mubi. Il suo primo lungometraggio, Wild Boys, è stato proclamato dalla prestigiosa rivsta Cahiers du cinéma come il miglior film del 2018; il suo secondo lungometraggio, After Blue, noto anche come Paradis Sale, è stato invece presentato al Festival di Locarno nel 2021. Co-firmatario nel 2012 dell’Incoherence Manifesto assieme alla filmmaker islandese Katrín Ólafsdóttir, negli anni si è saputo imporre all’attenzione della critica e dei festival internazionali specializzati con uno stile unico e inconfondibile, dominato da una grandissima elaborazione fotografica e dalla forte presenza di tematiche di genere.
Il nostro Ludovico Cantisani, in collaborazione con Antonio Orrico, ha avuto la fortuna di intrattenere un'interessante conversazione con il regista, e di parlare con lui della sua distintiva, ed eclettica, visione di cinema. La traduzione dell'intervista è stata curata da Riccardo Garbetta.
Qual è stato il tuo primo contatto con il cinema e come hai maturato la decisione di diventare regista?
Ho innanzitutto visto molti film in televisione. Inizi di film e colonne sonore, a dirla tutta: dei film trasmessi la sera in tv, potevo vederne soltanto l’inizio, poi i miei genitori mi chiedevano di andare a letto e, ascoltando la colonna sonora attraverso le pareti, immaginavo il seguito. Le mie prime emozioni cinematografiche sono legate alle grandi scimmie: la prima parte di King Kong, fino al suo arrivo davanti a Jessica Lange, nella versione di Dino De Laurentiis degli anni settanta; l’inizio de Il pianeta delle scimmie, che sono riuscito a vedere fino all’arrivo delle scimmie sui cavalli, sempre nella versione anni settanta... A volte mi capitava anche di vedere brevi spezzoni di film mostrati all’interno di trasmissioni specifiche sul cinema; è così che ho scoperto, ad esempio, il cinema di Lynch molto presto, con frammenti di Elephant Man (l’inseguimento dell’uomo mascherato nella stazione) e brani di Eraserhead (la scena del pasto e del pollo). Altri estratti di film fantastici che mi hanno segnato dopo che ci ero incappato da ragazzino sono stati certe sequenze de La zona morta di David Cronenberg e Stati di allucinazione di Ken Russel. Fortunatamente c’erano anche i film che venivano trasmessi in tv durante il giorno, ma io li potevo vedere solo quando ero malato e dovevo stare a casa. È così che ho scoperto Toby Dammit e Le tentazioni del dottor Antonio di Fellini, per dire, e altre stranezze sorprendenti. Avevo anche un libro sul cinema, intitolato Les secrets du cinéma, che conoscevo a memoria. Il mio primo contatto con il cinema è stato quindi nel segno del frammento, della frustrazione, dell’immaginario e dei deliri febbrili. Volevo essere attore o attrice, credevo che gli attori fossero i motori dell’azione e dell’immaginario. Volevo fare cinema essendone al centro.
Qual è stata la tua formazione da cineasta e come sei passato dall’animazione al live action?
Non avendo una telecamera in casa ero convinto che il cinema fosse riservato a un’élite, a gente nata nell’ambiente, e non era quello il mio caso. Io disegnavo e facevo collage sognando il cinema. Le arti plastiche e la storia dell’arte hanno preso il sopravvento a un certo punto. Non a caso è stato attraverso i film d’animazione che sono potuto entrare nel mondo del cinema, per me era una porta d’ingresso più accessibile. Amavo e amo gli autori di film d’animazione, quelli sperimentali, i creatori di universi singolari. Ho imparato molto dal lavoro di Stan Brakhage, di Yuri Norstein, di Paul Grimault, di Laloux & Topor, di Caroline Leaf, di Jan Svankmajer e soprattutto di Walerian Borowczyk, che era passato da film d’animazione surreali a riprese erotiche reali. Per me lui è stato un modello di percorso. Stavo facendo film d’animazione ibridi e appena ho potuto sono passato alle riprese vere e proprie.
Leggendo alcune delle tue precedenti interviste e altri studi sul tuo cinema, mi ha colpito sapere che cerchi di limitare il più possibile la fase di post-produzione dell’immagine, intervenendo sul colore il più possibile sul set e cercando di realizzare dal vivo anche tutti gli effetti; invece l’audio è ricostruito quasi interamente in post-produzione, tra doppiaggio ed effetti sonori. A cosa si deve questa tua scelta registica?
Ho lavorato all’inizio a molti prodotti audiovisivi su commissione di vario tipo, con una post-produzione altrettanto controllata e irregimentata, e molto lunga. Una prassi che ho detestato, troppo stress con intermediari ottusi e di scarso garbo. Per questo motivo da un certo momento in poi ho deciso di realizzare tutti i miei effetti sul set, di vivere i film come spettacoli, dove la concentrazione corale, per gli attori e per i tecnici, converge in modo da raggiungere un punto finale, l’equilibrio delle riprese. Quello che non si riesce a creare sul set non deve esistere, perché è cinema “finto”: tutto quello che lo spettatore deve vedere è quello che è stato ripreso dalla camera, la pellicola sta lì a certificare l’onestà della menzogna. D’altra parte il suono, che è più organico, passa attraverso un altro processo di produzione, molto più ibrido. Il suono è la materia che lega le immagini tra loro durante il montaggio. Non a caso io costruisco la colonna sonora mentre realizzo il montaggio delle immagini, e viceversa: la colonna sonora dei miei film è espressionista, mentre le mie immagini sono impressioniste.
In che modo pensi che l’aspetto sonoro di un film possa intervenire sulla narrazione?
La colonna sonora inonda le immagini, è come un liquido che ingurgita la costruzione filmica. La colonna sonora fluidifica il racconto, porta a galla le emozioni che galleggiano come battelli su un mare. La colonna sonora e in generale tutto il sonoro di un film si infiltra nell’inconscio dello spettatore, è un liquido sensitivo.
La maggior parte dei tuoi film sono caratterizzati da un uso incredibilmente espressivo del colore: luci molto contrastate e innaturali, con colori primari alla Suspiria, oppure al contrario un bianco e nero rigoroso, quasi bressoniano, come in Boro in the Box o in molte scene di The Wild Boys. La tua attenzione rispetto al colore a quali fonti, cinematografiche o pittoriche, si ispira?
Mi assumo in modo radicale la responsabilità delle mie scelte fotografiche. Devono servire al mio scopo e nutrire un immaginario specifico per ogni film, quali che siano il formato e il budget. Per il colore sono stato molto influenzato dai film di Mario Bava e da Vittorio Storaro. Altre influenze mi sono arrivate però anche da registi radicali che hanno sperimentato senza grandi mezzi, come Carmelo Bene, Shuji Terayama o Seijun Suzuki… Mi piace che la fotografia si distacchi dal consenso realistico, o dall’estetica art house convenzionale. Il colore deve inebriare lo spettatore, è l’essenza dell’immagine. Mi ispira molto in questa direzione anche la pittura simbolista di Gustave Moreau o di William Blake. Artisti moderni, espressionisti, pop o surreali come Dix, Ensor, Ernst, Philip Guston o Bacon, sono a loro volta fonti d’ispirazione costante. Così come i luoghi comuni formali di certi vecchi fumetti del tipo White Boy in Skull Valley di Garett Price... Il colore come trampolino di lancio nell’onirico. Quando lavoro in bianco e nero, i miei riferimenti provengono invece per lo più dalla storia della fotografia; posso rifarmi ad artisti tanto diversi come Helmuth Newton o Witkin, faccio grandi salti nei miei film in bianco e nero. Io credo che per me il bianco e nero sia espressione del pensiero, e che il colore lo sia dei sentimenti. A seconda della natura dei film, seguo il mio presupposto estetico.
Come ti relazioni con i tuoi direttori della fotografia?
Con un consapevole mix di precisione e vaghezza. Instauro con il mio direttore della fotografia un rapporto di fiducia e comprensione: cerco di essere puntuale nelle mie indicazioni, ma di lasciargli al contempo zone di libertà e d’inventiva. Non è sempre facile lavorare con me, soprattutto perché sono io che faccio da operatore per tutti i miei film.
In che modo impostazioni di luce così complesse come quelle che caratterizzano i tuoi corti e film possono essere realizzate direttamente sul set?
Dovresti chiedere al mio direttore della fotografia abituale, Pascale Granel. Abbiamo poco tempo sul set e pochissimi mezzi. Occorre molto lavoro di preparazione. Non bisogna aver paura di essere radicali, si lavora senza reti, con fede, come acrobati bendati.
In un’intervista ad ExtraExtraMagazine hai affermato che «il digitale è piuttosto vicino allo scanner di una stampante, mentre la celluloide è molto più vicina a una carezza: girare su pellicola è profondamente erotico». Quanto ritieni importante l’organicità e la matericità, nella tua concezione del cinema e della sua fotografia?
Il corpo, la pelle, gli elementi organici si inscrivono in un décorum, in cui minerale e vegetale coabitano. Questa giustapposizione di materie vive e morte, di fluidi e di fumi fluttuanti, crea l’erotismo delle immagini. Senza questa coabitazione non c’è erotismo possibile. Il corpo umano è la cinghia di trasmissione del desiderio. La luce rivela questa alchimia alla pellicola che riflette, mentre il digitale si accontenta di captare.
Preferisci il 35mm o il Super16?
In questo momento il perfos-cope da 35 mm 2 è il formato con cui mi sento più a mio agio.
Quali esperienze hai avuto invece con il digitale e cosa ti ha lasciato insoddisfatto?
Uso il digitale per le mie retroproiezioni, i miei collage. Poi rifilmo tali immagini in 35mm per dar loro un’anima. Il digitale è un rubinetto che apri e l’immagine scorre, ma insapore. È un’immagine funzionale che non è abitata. Amo la pellicola, ma anche le immagini in digitale possono catturare l’anima.
Tu hai girato un grandissimo numero di cortometraggi e mediometraggi a partire dalla fine degli anni novanta, alcuni dei quali molto premiati a livello festivaliero, e hai esordito al lungometraggio nel 2018 con The Wild Boys; e anche dopo il tuo esordio al lungometraggio hai continuato a girare corti, come The Return of the Tragedy. Il fatto che dai tuoi primi corti al tuo primo lungometraggio sia passato un tempo relativamente lungo, di vent’anni, si deve a difficoltà produttive nel reperire tutti i fondi necessari, o è piuttosto frutto di una tua predilezione verso il “cinema breve”?
Nel il mio percorso ho avuto molte difficoltà a montare i miei film lunghi. All’inizio della mia carriera avevo firmato un contratto diabolico con un produttore, un contratto in esclusiva che mi ha bloccato per letteralmente dieci anni. Questo mi ha impedito di girare lungometraggi, non facevo altro che scrivere sceneggiature. Durante questo periodo ho realizzato alcuni corti semplicemente per non crepare di fame. Ho dovuto girare per poter respirare. Picasso diceva: “Se fossi rinchiuso in una prigione, dipingerei sui muri con la mia merda”. Senza essere così triviale, io ho fatto quel che ho potuto per esistere cinematograficamente. E, paradossalmente, sono sempre riuscito a tirare avanti a campare con i miei film e con la mia scrittura. Il formato corto mi consente di sperimentare una varietà di idee in modo abbastanza rapido, e con la giusta leggerezza. Le mie idee e i miei desideri cinematografici sono di molti tipi, si adattano ai formati e ai budget. Il vincolo mi stimola, purché sia variabile geometricamente.
Sei a tuo agio adesso a passare tra le due forme, dal corto-mediometraggio al lungo?
Sì, del resto ho voglia di recuperare il “tempo perduto". Il formato lungo corrisponde al mio stile narrativo, il formato corto corrisponde più alle mie pulsioni... Mi sento come se fossi stato rinchiuso in una prigione, sulla falsariga del Conte di Montecristo. Gli anni di attesa mi hanno permesso di trovare un tesoro inaspettato, un segreto cinematografico che mi è stato rivelato dalle mie esperienze sui cortometraggi, e che mi aiuta adesso ad arricchire i miei lunghi. Ora mi accingo a girare il mio terzo lungometraggio.
Uno dei tuoi corti più originali e irriverenti era Boro in the Box, un omaggio al già citato regista polacco naturalizzato francese Walerian Borowczyk. Come è nato il progetto e come hai strutturato questo curioso “biopic”?
È nato dalla mia ammirazione per Borowczyk e dal non averlo incontrato. Borowczyk aveva visto uno dei miei primi film, Il cavaliere azzurro, che gli era piaciuto e mi aveva proposto di incontrarci. Ma io ho rifiutato l’invito, ero troppo intimidito. Poi Boro è morto, e io son rimasto col rimpianto di non essere andato a trovarlo e di non aver avuto uno scambio sulla sua opera ispiratrice. Gli ho reso omaggio a modo mio, fantasticando con un film biografico, mi sono servito di Boro per creare una figura di cineasta “nudo e crudo”.
Quali sono gli elementi del cinema di Borowczyk che più ti hanno colpito come spettatore e più ti hanno influenzato come regista?
Il suo stile unico nel plasmare le inquadrature: uno stile breve, erotico, e surreale! Borowczyk ha creato una grammatica cinematografica specifica per il suo cinema, molto economica ed efficace, carica di riferimenti pittorici. Nelle sue inquadrature Boro incorporava frammenti fugaci, immagini folgoranti e inquietanti. Questa costruzione crea una ritmica dell’immagine che trovo semplicemente sublime. Borowczyk è un regista che mi ha incoraggiato a coltivare la mia singolarità abbracciando in toto le mie influenze. Non l’ho incontrato, ma ho incontrato la sua opera, che mi ha parlato.
Un altro dei tuoi cortometraggi più impressionanti e irriverenti era Ultra Pulpe (Prehistoric Cabaret), che si svolgeva in una sorta di cabaret islandese, dove si esplorava in diretta l’interno del corpo femminile attraverso una camera con cui la donna penetrava sé stessa. Come è nato questo cortometraggio e come hai fatto a creare le immagini psichedeliche proiettate durante la scena?
È un film girato in Islanda in due giorni. In un teatro. Ero ad Arnarstapi, dove Jules Vernes ha immaginato l’inizio del suo viaggio al centro della Terra. Ho deciso di adattare il suo romanzo a modo mio, proponendo un viaggio al centro dell’attrice. Anche Jules Vernes aveva un rapporto molto particolare con il suo organismo, col suo stomaco e le sue viscere... Le visioni psichedeliche sono vedute rocciose islandesi, che coabitano con frammenti di film di serie Z. In forma burlesca, il film rende omaggio al coraggio delle attrici/artiste di music-hall. Mi piace il cabaret, lo considero al di sopra del teatro e del melodramma.
Da un punto di vista produttivo, quali sono di solito le basi per il finanziamento dei tuoi progetti?
Aiuti di Stato, aiuti regionali, aiuti da altri Paesi, acquisti da parte di TV, preacquisti da distributori, mecenati, contributi di produttori, commissioni, generosità di tecnici e attrici o attori che lavorano nei film. Mi destreggio tra tutti questi metodi di finanziamento a seconda dei progetti. E cerco di trovare un equilibrio per continuare a creare.
Quali sono i partner produttivi con cui ti sei trovato a collaborare più spesso per i tuoi corti e mediometraggi, e chi ha finanziato la realizzazione di The Wild Boys?
In Francia il CNC rimane il mio principale supporto per i lungometraggi e i mediometraggi, ma anche gli aiuti regionali sono stati e sono tuttora importanti... France 2, uno dei principali canali della TV francese, mi ha spesso supportato per i film mediometraggi. Molto importanti nel corso della mia carriera sono stati anche UFO, il mio distributore, e i contributi del mio produttore abituale, l’Ecce Films. Last but not least, il mio proprio investimento personale nei progetti, che spesso offro alla produzione.
Venendo più nello specifico su The Wild Boys, quali sono state le tue principali reference nell’ambito cinematografico, pittorico e fotografico?
Te ne faccio una lista, se vuoi: William Burroughs, Querelle di Fassbinder, L’Atalante di Jean Vigo, Lord Jim, Il profondo desiderio degli dei di Imamura, David Bowie, Ulisse di Lob e Pichard, Venerdì o Limbo del Pacifico, Il marinaio che abbandonò il mare, Le confessioni di un fumatore d’oppio di Zugsmith, Henry Darger, Jonathan Swift, Suehiro Maruo, Elegia della lotta di Suzuki, Matango di Ishiro Honda, i fratelli Chapman, Portiere di notte di Liliana Cavani, L’isola del dottor Moreau di Don Taylor, Max Ernst, Veruschka, Il funerale delle rose di Toshio Matsumoto, Mishima di Paul Schraeder, Hosoe Eikoh, Werner Schroeter, Teruoishii, Un chant d’amour di Genet, Tatsumu Hijikata, Louise Bourgeois… etc.
Qual è stata nello specifico l’influenza degli scritti di William Burroughs sulla sceneggiatura del film?
È stato il seme che ha fatto crescere l’albero.
In che momento della preparazione di The Wild Boys hai deciso che i “ragazzacci” del titolo dovessero essere interpretati da cinque attrici, e perché?
Nel momento stesso in cui è nata l’idea del film.
Come hai lavorato invece per caratterizzare la flora e la fauna mostruose dell’isola misteriosa su cui i ragazzi fanno naufragio?
Sono partito dall’idea di rendere l’isola a mo’ di collage, con l’associazione di sentimenti contraddittori tra piacere e tortura. La pianta che lecca, la pianta che frusta, i frutti pelosi, i frutti appiccicosi…
Una delle tue collaboratrici più ricorrenti è l’attrice rumena Elina Löwensohn, nel cast anche di The Wild Boys. Il tuo primo lavoro con lei è stato Boro in the Box?
Sì, abbiamo iniziato a lavorare insieme sul set di Boro. Elina ha interpretato un doppio ruolo: quello di Boro, l’eroe del film, nonché l’alter ego di Borowczyk, sua madre.
In quali altri tuoi film brevi ha preso parte?
In tutti i miei corti e lungometraggi a partire da Boro, compresi quelli non ancora finiti.
E come mai ti sei trovato così bene a collaborare con lei?
Elina è il mio doppio, l’attrice che avrei sognato di essere. Quando io filmo mi sento profondamente attrice. Al tempo stesso, lei mi ispira una moltitudine di personaggi, ha una capacità inaudita di catturare l’essenza dei personaggi che io immagino. Può trasformarsi e far esistere i suoi ruoli visivamente e interiormente. Elina ha un coraggio all’altezza del suo talento. E ama la precisione, come me.
Quanto il Coronavirus ha influenzato la tua produzione attuale?
Ho girato e montato durante il periodo di reclusione, ho potuto evadere applicandomi in un ritmo di lavoro intenso e ininterrotto.
E quanto pensi che cambierà le dinamiche del cinema indipendente e underground europeo?
Penso che l’eccessiva produzione di film saturerà un mercato già indebolito dall’abbondanza, quasi offensiva, di piattaforme. Che i copioni concordati finiranno per logorare la tolleranza degli spettatori. Credo che l’immaginario e l’originalità debbano prevalere sull’obsoleto realismo. L’underground in realtà non esiste, nel cinema ci sono tre grandi famiglie: gli autori e gli artisti singolari - autori che sono al tempo stesso produttori e commercianti - e i registi mercenari. L’equa presenza di queste tre famiglie è importante perché il cinema continui ad esistere. Il cinema è un ecosistema fragile, non devono esserci squilibri. Se perde la sua componente artistica, il cinema non esiste più, ma lo stesso accadrebbe se il cinema perdesse la sua componente commerciale, a scanso di equivoci. Le piattaforme cinematografiche sono come le piattaforme petrolifere, bucano il suolo per bere la materia prima senza preoccuparsi del passato o del futuro. Anche a costo di prosciugarne la fonte. Confido nonostante tutto nel futuro, negli imprevedibili capovolgimenti del desiderio negli spettatori.
Nel tuo cinema ha un grande rilievo lo “scombinare le carte” circa i ruoli di genere, la corporeità e la fisicità, le relazioni LGBTQ+ o in generale non eteronormative. Come ti collochi rispetto al dibattito contemporaneo sul gender e sul queer?
La rivoluzione queer sta cambiando la percezione del concetto stesso di individuo. Questa è un’evoluzione indispensabile, ed evidente. Detesto le frontiere, le regole. Sono un abitante del confine, una persona non binaria, che sostiene la libertà di essere o di non essere, la libertà di definirsi, la libertà di trasformarsi, di assumere i propri sentimenti e di prendere in mano la propria individualità polimorfa. Mi sento transgender in ogni senso della parola. Sono sempre felice di vedere i confini che si muovono, le libertà che si diffondono.
In che modo il cinema può confrontarsi con i temi dell’identità sessuale e di genere dei singoli individui?
Abbattendo le frontiere e liberando la fantasia. Scioccando, disturbando e ponendo domande. Confondendo le acque e soprattutto evitando il populismo e rifiutando ogni morale regressiva.
Quale pensi sia la “funzione” del cinema, il suo senso?
Il cinema è una macchina fantasmagorica, un oppio dei popoli, un ideale artistico, uno strumento per visionari, un’ipnosi collettiva, una speranza nella notte, il peggio o il meglio, l’oblio della realtà. Il cinema è multiplo, la sua funzione è scompigliata da tutti coloro che lo abitano, lo occupano e lo dirottano. Per me il cinema è un rivelatore dell’inconscio.
Quali sono le specificità del linguaggio filmico e qual è per te, pensando soprattutto ai tuoi lavori di cortometraggio, il confine tra cinema e videoarte?
Bastano due immagini e un suono per raccontare una storia, per fare cinema. È quello che ho scoperto da bambino. Ho uno strabismo divergente, e per rieducare i miei occhi mi mettevano un’immagine diversa in ogni occhio. Un leone in un occhio, una gabbia nell’altro. Ho dovuto far entrare il leone nella gabbia. Ma non riuscivo mai a rinchiudere la belva. Preferivo divergere verso la libertà, piuttosto che convergere verso la reclusione. Il cinema è il proliferare delle immagini a partire da una data parola. Inizia così il linguaggio del cinema, la fuga delle immagini verso la libertà di espressione. La cosiddetta videoarte è spesso la convergenza delle immagini verso il concetto. I miei film possono incrociare la strada dell’opera artistica, dell’art movie in senso stretto, ma ai miei occhi sono soprattutto saltimbanchi, fanciulli turbolenti. I miei cortometraggi vengono proiettati nei centri d’arte quando vi sono invitati, e ne sono felicissimo... ma comunque continuo a definirli “film”. Cerco di sfuggire alla formalizzazione, voglio immaginare e fare film per lasciarli accarezzare tra le spine.