di Lorenzo Sartor
NC-301
14.05.2025
“Ci sono tracce di anime nei paesaggi”
Così inizia uno dei corti più celebrati del regista di origini spagnole Lois Patiño, Noite Sem Distância (2015), girato interamente in visione notturna, in cui possiamo assistere a tutti i temi principali affrontati fino ad ora dal cineasta: il mito, l’annullarsi del singolo nel paesaggio, nonché i sogni dell’uomo e i rapporti con la sue ombre più intime. Il corto è in realtà il culmine di un discorso sui paesaggi e sull’irrilevanza dell’essere umano che il regista inizia non al cinema, bensì nella dimensione dell’installazione artistica e della videoarte. Tutti i corti della prima fase della carriera di Patiño più che film sono infatti veri e propri studi sulla percezione umana, su come si lascia influenzare dal contesto in cui vive, in una ricerca vicina ai lavori etnologici di Miguel Gomes e di una parte della videoarte portoghese e argentina con cui il l'autore ha dialogato lungo tutta la propria carriera.
Tutta questa prima fase di sperimentazione trova concreta applicazione nel suo lungometraggio d’esordio, Costa da Morte (2013), composto quasi esclusivamente da campi lunghi in cui la presenza umana diventa insignificante rispetto ai paesaggi, come piccole formiche spiate dall’esterno, in un continuo rapporto di sguardo con uno spettatore che è osservatore onnisciente e dotato di una visione superiore rispetto a quella dei singoli personaggi. Una didascalia interna al film parla infatti di “uomini che entrano nei paesaggi e paesaggi che entrano negli uomini”, come se l’unico modo di accedere a una visione totalizzante della realtà fosse proprio l’annullamento dell’elemento umano nella vastità dell’ambiente esterno.
Gli uomini diventano così residui del passato, figure stilizzate e piccole come pitture rupestri, parti integrante di un mito che si disinteressa delle loro particolarità. Ma è nell’elemento sonoro che l’uomo riesce a non venire schiacciato dal mito, perché per quanto l’occhio dello spettatore sia lontano dai personaggi, noi riusciamo comunque a sentire le loro voci e i loro racconti. Degli esseri umani non rimangono così i corpi, ma solo le storie.
Noite Sem Distância (2015)
La presenza umana che si annulla nel paesaggio in Lúa Vermella (2019)
Dovranno passare diversi anni prima che nel cinema di Patiño la prospettiva mitica prenda piede rispetto a quella etnologica. Il successivo lungometraggio del cineasta, Lua Vermella (2020) parte infatti con un’invocazione di stampo mitologico alla madre terra e, fin da subito, diviene chiaro come i personaggi siano rappresentati come ombre fissate su un paesaggio, residuati di un’umanità passata che rimane solo come parte integrante del mito. Gli attori per buona parte del film rimangono immobili all’interno dei loro quadri, la capacità del cinema di scolpire il tempo in movimento viene portata al suo estremo di massima rappresentazione plastica, come in una moderna reinterpretazione di L'Année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, 1962) in cui è inutile cercare di fissare un logico scorrere del tempo.
Tutto ciò che i personaggi raccontano, ascoltano o percepiscono rimane perlopiù lasciato a un fuoricampo inarrivabile all’occhio dello spettatore e il campo del visibile rimane ancorato a due simboli che ritorneranno nelle successive opere dell’autore: la luna, icona dell’immobilità che divora il tempo, e il mare, il moto che il cinema ambisce a ricreare, ma che nel film si realizza solo attraverso i movimenti di macchina, i quali velano e disvelano tutto ciò che appare allo spettatore. Ma il rapporto di Lua Vermella con il mito non si limita alle mitologie più distanti nel tempo del teatro greco, ma arriva fino a quello elisabettiano. Le streghe che nella piece teatrale profetizzano il fato di Macbeth annunciano qui il destino tragico dell’ultimo reliquato dell’umanità, rappresentati come fantasmi, gli stessi che opprimevano Amleto o Bruto nel Giulio Cesare nei testi shakespeariani.
“Non ho fatto altro che sognare” diceva Riccardo III alla fine della sua visione nell’opera omonima. E come nel lavoro di Shakespeare, anche in quello di Patiño è importante il modo in cui si entra e si esce dal sogno. Infatti nel film Samsara (2023), partendo anche in questo caso dall’osservazione contemplativa di una comunità di giovani monaci buddisti di Laos, il cineasta arriva a raccontare del trapasso e della reincarnazione delle anime in quello che è praticamente un sogno ad occhi chiusi. Dopo una prima parte che ritorna a trattare della percezione umana e dell’annullamento del singolo nel contesto in cui vive, nel secondo atto il regista stesso invita lo spettatore a chiudere gli occhi e a lasciarsi trascinare in un’esperienza puramente sensoriale, lasciando a chi (non) guarda il piacere di decidere quando riaprirli.
Farlo vuol dire svelare il trucco, togliere il velo di maya che sta dietro all’artificio con cui il cinema ricostruisce la dimensione del sogno. In questa ideale trasposizione di un processo di morte e reincarnazione di una donna anziana che ritrova poi vita nel corpo di una capretta, il regista punta a negare la forma classica del cinema per mostrare i limiti del visibile, per indicare la via verso una non-forma, verso un oggetto filmico che non può essere realmente visualizzato. In un cinema come questo, attraversato da fantasmi e assenze, lo spettatore stesso diventa una presenza spettrale nel viaggio verso il non-visibile. Nel rapportarsi all’ideale buddista il lungometraggio ribadisce l’annullamento individuale che avviene nella visione in sala, in cui non ci sono più i singoli spettatori con le loro percezioni personali, ma esclusivamente un unico corpus-spettatoriale, un solo occhio totalizzante che assiste all’esperienza cinematografica.
Samsara (2023)
La ritualità culturale e mitica della poetica di Patiño assume così le forme di un rituale spettatoriale, visione collettiva di uno stato di esistenza che nemmeno il cinema può esprimere concretamente. In un anno in cui Victor Erice, con il suo Cerrar Los Ojos (2023), testimonia la morte del classicismo (e come non rimanga altro allo spettatore se non chiudere gli occhi) e Jonathan Glazer, con The Zone Of Interest (2023), lascia l’orrore dell’olocausto al fuoricampo posto oltre le mura di Auschwitz e al controcampo irreale del gerarca Hoss (Christian Friedel), anche questo film dimostra il non-rappresentabile e ciò a cui non può essere dato forma come una possibile via per il futuro del cinema.
Laddove in Samsara è il regista a rifiutarsi di mostrare, nella sua opera successiva saranno i personaggi stessi a negare la propria rappresentazione. L’influenza shakespeariana, già presente nella filmografia fin qui analizzata, diventa ancora più esplicita nel recente Ariel (2025), presentato in anteprima internazionale a Rotterdam e proiettato in Italia all’appena conclusosi Bellaria Film Festival. Originariamente concepito assieme al regista argentino Matías Piñeiro, con cui aveva già realizzato un corto basato sulle opere di Shakespeare (Sycorax, 2021), il film ruota attorno all’arrivo di un’attrice (Agustina Muñoz nel ruolo di se stessa) su un’isola abitata solo dai personaggi delle piece del drammaturgo elisabettiano.
Condannati a un ciclico ripetersi di monologhi e tragedie, gli abitanti del luogo cominciano a rifiutare il fato della propria rappresentazione, in una sorta di parabola anti-pirandelliana di personaggi che vorrebbero fuggire dal loro stesso autore. La protagonista, chiamata per sostituire un’altra attrice che doveva interpretare Ariel nella rappresentazione de La Tempesta, incontrerà il vero personaggio del testo shakespeariano (Irene Ascolar) e inizierà un giro a vuoto lungo le varie zone dell’isola per assistere al farsi di ogni rappresentazione, in un viaggio ludico che presenta l’umorismo del teatro dell’assurdo beckettiano e richiama ai giochi rivettiani di Le Pont du Nord (1981) o Céline et Julie vont en bateau: Phantom Ladies Over Paris (Celine e Julie vanno in barca, 1974), nonché alle decostruzioni divertite del nuovo cinema argentino di El Pampero Cine. Non è infatti un caso che Agustina Muñoz fosse una delle protagoniste de La Flor (2018) di Mariano Llinás, e che lo stesso Patiño, in quanto studente di Llinás, sia stato molto influenzato nella sua carriera dai compatrioti del Pampero.
Una sequenza di Céline et Julie vont en bateau: Phantom Ladies Over Paris (Céline e Julie vanno in barca, 1974) di Jacques Rivette
Pur avendo dichiarato in un’intervista il dialogo delle sue opere con quelle del gruppo di cineasti argentini, il motivo principale che connette La Tempesta di Shakespeare con il cinema di Patiño risiede, su sua stessa ammissione, “nella spiritualità degli elementi naturali”. Il suo interesse per la contemplazione dei paesaggi e per l’uso delle onde come manifestazione di un movimento emotivo trova un nuovo sviluppo nell’adattamento del testo teatrale, i cui motivi simbolici e psicologici vengono messi in scena attraverso una serie di dissolvenze incrociate, sovrapposizioni e scelte stilistiche di stampo impressionista che rendono per immagini lo stato esistenziale dei protagonisti. Queste soluzioni linguistiche riescono così a mostrare la dissociazione degli abitanti dell’isola rispetto al perseguimento del loro ruolo, in un meta-gioco tra finzione e realtà in cui i personaggi si interrogano sul loro stato di figure intrappolate in storie rigide e destinate a ripetersi.
Dopo aver rappresentato per un’intera carriera esseri umani calati nella loro rappresentazione e fissati all’interno del mito, il cineasta concede ai personaggi una presa di consapevolezza rispetto al personale libero arbitrio, che costituisce in realtà la più rispettosa e coerente rielaborazione del testo originale. Nel teatro elisabettiano non esistono infatti Dei-osservatori o motivazioni extratestuali alle azioni dei personaggi, e ridare ad essi la possibilità di rifiutare un ruolo e l’ideale eterna ripetizione delle immagini è la maggiore testimonianza dell’eredità del Bardo.
Ma allo stesso tempo, ciò rappresenta pure un nuovo sviluppo per la poetica del regista spagnolo, che con questo suo ultimo film ha smesso di mettere in scena persone insignificanti rispetto al mondo che le circonda e ha cominciato a parlare di esseri umani, che per la prima volta trovano nelle sue opere anche una dignità psicologica e un’evoluzione interiore.
Ariel (2025), l'ultimo lavoro di Patiño
di Lorenzo Sartor
NC-301
14.05.2025
Noite Sem Distância (2015)
“Ci sono tracce di anime nei paesaggi”
Così inizia uno dei corti più celebrati del regista di origini spagnole Lois Patiño, Noite Sem Distância (2015), girato interamente in visione notturna, in cui possiamo assistere a tutti i temi principali affrontati fino ad ora dal cineasta: il mito, l’annullarsi del singolo nel paesaggio, nonché i sogni dell’uomo e i rapporti con la sue ombre più intime. Il corto è in realtà il culmine di un discorso sui paesaggi e sull’irrilevanza dell’essere umano che il regista inizia non al cinema, bensì nella dimensione dell’installazione artistica e della videoarte. Tutti i corti della prima fase della carriera di Patiño più che film sono infatti veri e propri studi sulla percezione umana, su come si lascia influenzare dal contesto in cui vive, in una ricerca vicina ai lavori etnologici di Miguel Gomes e di una parte della videoarte portoghese e argentina con cui il l'autore ha dialogato lungo tutta la propria carriera.
Tutta questa prima fase di sperimentazione trova concreta applicazione nel suo lungometraggio d’esordio, Costa da Morte (2013), composto quasi esclusivamente da campi lunghi in cui la presenza umana diventa insignificante rispetto ai paesaggi, come piccole formiche spiate dall’esterno, in un continuo rapporto di sguardo con uno spettatore che è osservatore onnisciente e dotato di una visione superiore rispetto a quella dei singoli personaggi. Una didascalia interna al film parla infatti di “uomini che entrano nei paesaggi e paesaggi che entrano negli uomini”, come se l’unico modo di accedere a una visione totalizzante della realtà fosse proprio l’annullamento dell’elemento umano nella vastità dell’ambiente esterno.
Gli uomini diventano così residui del passato, figure stilizzate e piccole come pitture rupestri, parti integrante di un mito che si disinteressa delle loro particolarità. Ma è nell’elemento sonoro che l’uomo riesce a non venire schiacciato dal mito, perché per quanto l’occhio dello spettatore sia lontano dai personaggi, noi riusciamo comunque a sentire le loro voci e i loro racconti. Degli esseri umani non rimangono così i corpi, ma solo le storie.
La presenza umana che si annulla nel paesaggio in Lúa Vermella (2019)
Dovranno passare diversi anni prima che nel cinema di Patiño la prospettiva mitica prenda piede rispetto a quella etnologica. Il successivo lungometraggio del cineasta, Lua Vermella (2020) parte infatti con un’invocazione di stampo mitologico alla madre terra e, fin da subito, diviene chiaro come i personaggi siano rappresentati come ombre fissate su un paesaggio, residuati di un’umanità passata che rimane solo come parte integrante del mito. Gli attori per buona parte del film rimangono immobili all’interno dei loro quadri, la capacità del cinema di scolpire il tempo in movimento viene portata al suo estremo di massima rappresentazione plastica, come in una moderna reinterpretazione di L'Année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, 1962) in cui è inutile cercare di fissare un logico scorrere del tempo.
Tutto ciò che i personaggi raccontano, ascoltano o percepiscono rimane perlopiù lasciato a un fuoricampo inarrivabile all’occhio dello spettatore e il campo del visibile rimane ancorato a due simboli che ritorneranno nelle successive opere dell’autore: la luna, icona dell’immobilità che divora il tempo, e il mare, il moto che il cinema ambisce a ricreare, ma che nel film si realizza solo attraverso i movimenti di macchina, i quali velano e disvelano tutto ciò che appare allo spettatore. Ma il rapporto di Lua Vermella con il mito non si limita alle mitologie più distanti nel tempo del teatro greco, ma arriva fino a quello elisabettiano. Le streghe che nella piece teatrale profetizzano il fato di Macbeth annunciano qui il destino tragico dell’ultimo reliquato dell’umanità, rappresentati come fantasmi, gli stessi che opprimevano Amleto o Bruto nel Giulio Cesare nei testi shakespeariani.
“Non ho fatto altro che sognare” diceva Riccardo III alla fine della sua visione nell’opera omonima. E come nel lavoro di Shakespeare, anche in quello di Patiño è importante il modo in cui si entra e si esce dal sogno. Infatti nel film Samsara (2023), partendo anche in questo caso dall’osservazione contemplativa di una comunità di giovani monaci buddisti di Laos, il cineasta arriva a raccontare del trapasso e della reincarnazione delle anime in quello che è praticamente un sogno ad occhi chiusi. Dopo una prima parte che ritorna a trattare della percezione umana e dell’annullamento del singolo nel contesto in cui vive, nel secondo atto il regista stesso invita lo spettatore a chiudere gli occhi e a lasciarsi trascinare in un’esperienza puramente sensoriale, lasciando a chi (non) guarda il piacere di decidere quando riaprirli.
Farlo vuol dire svelare il trucco, togliere il velo di maya che sta dietro all’artificio con cui il cinema ricostruisce la dimensione del sogno. In questa ideale trasposizione di un processo di morte e reincarnazione di una donna anziana che ritrova poi vita nel corpo di una capretta, il regista punta a negare la forma classica del cinema per mostrare i limiti del visibile, per indicare la via verso una non-forma, verso un oggetto filmico che non può essere realmente visualizzato. In un cinema come questo, attraversato da fantasmi e assenze, lo spettatore stesso diventa una presenza spettrale nel viaggio verso il non-visibile. Nel rapportarsi all’ideale buddista il lungometraggio ribadisce l’annullamento individuale che avviene nella visione in sala, in cui non ci sono più i singoli spettatori con le loro percezioni personali, ma esclusivamente un unico corpus-spettatoriale, un solo occhio totalizzante che assiste all’esperienza cinematografica.
Samsara (2023)
La ritualità culturale e mitica della poetica di Patiño assume così le forme di un rituale spettatoriale, visione collettiva di uno stato di esistenza che nemmeno il cinema può esprimere concretamente. In un anno in cui Victor Erice, con il suo Cerrar Los Ojos (2023), testimonia la morte del classicismo (e come non rimanga altro allo spettatore se non chiudere gli occhi) e Jonathan Glazer, con The Zone Of Interest (2023), lascia l’orrore dell’olocausto al fuoricampo posto oltre le mura di Auschwitz e al controcampo irreale del gerarca Hoss (Christian Friedel), anche questo film dimostra il non-rappresentabile e ciò a cui non può essere dato forma come una possibile via per il futuro del cinema.
Laddove in Samsara è il regista a rifiutarsi di mostrare, nella sua opera successiva saranno i personaggi stessi a negare la propria rappresentazione. L’influenza shakespeariana, già presente nella filmografia fin qui analizzata, diventa ancora più esplicita nel recente Ariel (2025), presentato in anteprima internazionale a Rotterdam e proiettato in Italia all’appena conclusosi Bellaria Film Festival. Originariamente concepito assieme al regista argentino Matías Piñeiro, con cui aveva già realizzato un corto basato sulle opere di Shakespeare (Sycorax, 2021), il film ruota attorno all’arrivo di un’attrice (Agustina Muñoz nel ruolo di se stessa) su un’isola abitata solo dai personaggi delle piece del drammaturgo elisabettiano.
Condannati a un ciclico ripetersi di monologhi e tragedie, gli abitanti del luogo cominciano a rifiutare il fato della propria rappresentazione, in una sorta di parabola anti-pirandelliana di personaggi che vorrebbero fuggire dal loro stesso autore. La protagonista, chiamata per sostituire un’altra attrice che doveva interpretare Ariel nella rappresentazione de La Tempesta, incontrerà il vero personaggio del testo shakespeariano (Irene Ascolar) e inizierà un giro a vuoto lungo le varie zone dell’isola per assistere al farsi di ogni rappresentazione, in un viaggio ludico che presenta l’umorismo del teatro dell’assurdo beckettiano e richiama ai giochi rivettiani di Le Pont du Nord (1981) o Céline et Julie vont en bateau: Phantom Ladies Over Paris (Celine e Julie vanno in barca, 1974), nonché alle decostruzioni divertite del nuovo cinema argentino di El Pampero Cine. Non è infatti un caso che Agustina Muñoz fosse una delle protagoniste de La Flor (2018) di Mariano Llinás, e che lo stesso Patiño, in quanto studente di Llinás, sia stato molto influenzato nella sua carriera dai compatrioti del Pampero.
Una sequenza di Céline et Julie vont en bateau: Phantom Ladies Over Paris (Céline e Julie vanno in barca, 1974) di Jacques Rivette
Pur avendo dichiarato in un’intervista il dialogo delle sue opere con quelle del gruppo di cineasti argentini, il motivo principale che connette La Tempesta di Shakespeare con il cinema di Patiño risiede, su sua stessa ammissione, “nella spiritualità degli elementi naturali”. Il suo interesse per la contemplazione dei paesaggi e per l’uso delle onde come manifestazione di un movimento emotivo trova un nuovo sviluppo nell’adattamento del testo teatrale, i cui motivi simbolici e psicologici vengono messi in scena attraverso una serie di dissolvenze incrociate, sovrapposizioni e scelte stilistiche di stampo impressionista che rendono per immagini lo stato esistenziale dei protagonisti. Queste soluzioni linguistiche riescono così a mostrare la dissociazione degli abitanti dell’isola rispetto al perseguimento del loro ruolo, in un meta-gioco tra finzione e realtà in cui i personaggi si interrogano sul loro stato di figure intrappolate in storie rigide e destinate a ripetersi.
Dopo aver rappresentato per un’intera carriera esseri umani calati nella loro rappresentazione e fissati all’interno del mito, il cineasta concede ai personaggi una presa di consapevolezza rispetto al personale libero arbitrio, che costituisce in realtà la più rispettosa e coerente rielaborazione del testo originale. Nel teatro elisabettiano non esistono infatti Dei-osservatori o motivazioni extratestuali alle azioni dei personaggi, e ridare ad essi la possibilità di rifiutare un ruolo e l’ideale eterna ripetizione delle immagini è la maggiore testimonianza dell’eredità del Bardo.
Ma allo stesso tempo, ciò rappresenta pure un nuovo sviluppo per la poetica del regista spagnolo, che con questo suo ultimo film ha smesso di mettere in scena persone insignificanti rispetto al mondo che le circonda e ha cominciato a parlare di esseri umani, che per la prima volta trovano nelle sue opere anche una dignità psicologica e un’evoluzione interiore.
Ariel (2025), l'ultimo lavoro di Patiño