La carriera di John Carpenter
attraverso otto opere chiave,
di Luca Romani
TR-121
16.01.2025
Il rapporto tra l'essere umano e le arti è per definizione enigmatico e paradossale. L’uomo si erge al divino mediante l’arte per necessità espressiva o semplice deterrente egoistico? Ambo le fazioni dipingono scenari che, seppur concettualmente opposti, si prestano in favore della produzione artistica, rendendo il movente privo di importanza. Innegabilmente la contaminazione contestuale tra periodo storico e vissuto personale influenza vigorosamente la creazione di opere d'arte. La storia cristallizza autori che hanno utilizzato l’arte come unico mezzo contro la violenza dilaniante di una società sempre meno umana, vorticosamente eretta su fragili colonne di vetro, composte da soprusi e assenza di principi altruistici per la collettività.
Lo scrittore Cormac McCarthy dedicò la sua vita a raccontare l’assenza di umanità in una società corrotta, sviscerando il male in ogni sua forma...pessimistica visione circolare innevata di depravazione e macabro. McCarthy credeva che il mondo fosse ormai irrimediabilmente alla deriva, una cagionevole imbarcazione che procede goffamente verso un oceano man mano più profondo. L’autore premio Pulitzer era assolutamente certo di un solo aspetto: il male non possiede né forma né accento, né corpo né anima, è un invisibile sentore che si nutre delle parti più ombrose dell’inconscio umano. Una copiosa quantità di autori votati cinema si è interrogata sull’irrefrenabile malvagità dell’uomo. Tra tutti si erge, senza presunzione e con il fare dei giganti, un uomo che attraverso il suo operato ha messo in dubbio la fallace e illusoria semantica del sogno americano, un regista che, mediante la Settima Arte, ha contestato ogni forma di sopruso, abuso e sopraffazione da parte del regime capitalistico degli Stati Uniti d’America. Oggi, nel giorno della sua nascita, celebriamo l'operato di John Howard Carpenter.
John Carpenter
John nasce il 16 gennaio 1948 a Carthage, e fin dall’infanzia dimostra una sensibilità artistica non comune per la musica e il cinema. Suo padre, Howard Ralph Carpenter, ricopriva il ruolo di capo dipartimento musicale della Western Kentucky University, il regista, non a caso, dichiarerà: “Ringrazio mia madre per avermi regalato la creatività e mio padre per avermi donato la musica, due regali non da poco”. È quindi in un clima di "virtuosità artistica" che il giovane John inizia a muovere i primi passi nell'universo musicale, rivestendo la figura di front man nella band “Caleidoscope”. Le musiche, quasi sempre autoprodotte, ricopriranno un tassello fondamentale nella sua successiva "filosofia cinematografica", pronte prima a terrorizzare e poi a glorificare i personaggi mostrati sullo schermo, rappresentando così, nell’opera Carpenteriana, una sorta di narratore onnisciente.
Le leggende cinematografiche di Carpenter sono da ricercare nel cinema degli anni ’50, soprattutto nelle opere di John Wayne, poiché, fin da giovanissimo, il regista desidererà realizzare una pellicola Western-Fantascientifica per rendere omaggio ai suoi "miti giovanili". Nel ’68 si iscrive alla prestigiosa University of Southern California (intraprendendo ufficialmente il percorso che lo porterà a scalare i vertiginosi gradini della Storia del Cinema) dove frequenta corsi di montaggio, letteratura cinematografica, fotografia e regia. Ed è proprio in questo contesto che si diletta in ben undici cortometraggi di natura grottesco- fantascientifica, proponendo situazioni e personaggi del tutto fuori dall’ordinario - è sufficiente visionare Captain Voyeur (1969) per comprendere al meglio i primi anni del suo operato.
Terminato il percorso universitario, Carpenter scrive e produce il suo primo lungometraggio (che in origine era stato pensato come un cortometraggio chiamato Alien) con un gramo budget di appena 60.000 dollari di nome Dark star (1974), esempio principe per quella che sarà la poetica passivo-pessimistica del cineasta in ogni sua opera successiva.
John Carpenter e il compositore Alan Howarth a lavoro sulle musiche di Escape from New York (1997: Fuga da New York, 1981)
Il contesto culturale e politico americano dei primi anni ’70
Come la Storia ci insegna, gli Stati Uniti, dalla metà degli anni ’50 fino agli anni ’70, sono stati un Paese fortemente scosso da contrasti sociali e ingiustificate guerre esterne. L'American Dream pubblicizzato tramite il piano Marshall, per un’americanizzazione dell’Europa, iniziava a mostrare le prime fragilità.
Gli eventi più rilevanti fossilizzati in quel preciso ventennio sono diversi, ma quattro su tutti hanno impattato la memoria collettiva: lo scoppio della campagna militare americana in Vietnam (iniziato nel 1955 e terminato nel 1975), l’assassinio del presidente John Kennedy (1963), l’omicidio dell’attivista politico Martin Luther King (1968) e lo Scandalo Watergate (1972) - per concludere questo sconvolgente elenco di atrocità non dobbiamo obliare che le condizioni generali di allerta erano ai massimi storici. Se si prende come riferimento il '55, la Seconda Guerra Mondiale era terminata da appena dieci anni e i devastanti residui della distruzione di massa erano ben lontani dall'essere superati, ma, nonostante questo, il nostro pianeta si preparava già a un altro conflitto di enorme portata, successivamente battezzato dagli storici come Guerra Fredda - lo scontro tra America e URSS (attuale Russia).
Risulta di facile intuizione comprendere quanto la sfiducia nei sistemi governativi (lo scandalo Watergate) e la guerra in Vietnam (criticata dalla maggior parte dei cittadini americani e definita una barbarie imperialista) compromisero definitivamente l’immagine degli Stati Uniti, creando dissapori intestini tra la popolazione. È proprio in questo lugubre contesto che Carpenter matura un sentito pessimismo verso la società americana, aspramente criticata già in Dark Star.
Le proteste degli anni '70 contro la Guerra del Vietnam
Dark Star (1974)
La pellicola si presenta come una parodizzazione delle manie di espansione e grandiosità statunitensi. Dark Star (che si può definire come una commedia fantascientifica) narra la semplicissima vicenda di degli astronauti erranti (Brian Narelle, Dan O’Bannon, Dre Pahich e Chal Kuniholm) alla ricerca di pianeti da poter distruggere in modo da permettere ai terrestri di colonizzare l’intero universo. I personaggi non manifestano mai alcun tipo di rimorso durante il loro impiego, affrontando la distruzione planetaria con una sufficienza che scade, molto spesso, in noia. Lo sviluppo narrativo pone però i protagonisti in uno stato di forte precarietà: la nave spaziale (Dark Star appunto) rischia di essere ridotta in cenere a causa di un razzo sferrato da lei stessa. Già da questi esili spunti narrativi, risultano cristallini i sentori politici della poetica carpenteriana attraverso una palese analogia tra gli astronauti e la politica USA, spesso di forte stampo colonialista.
Carpenter decostruisce il mito americano mostrando una visione totalmente ottusa e scriteriata dell’eroe statunitense. I personaggi (simbolo di una mitizzazione che pone come icona apicale l’America) sono buffi e privi di consapevolezza, assolutamente non in grado di ricoprire la carica loro conferita. La critica di Carpenter è diretta, consapevole e manifesta un dissenso totale per tutto ciò che riguarda l’auto-affermazione di terzi tramite morte e distruzione. L’anarchia primigenia sarà un filo conduttore innervato nella retorica, mai ridondante, del cineasta, utopistico immaginare il suo operato senza la necessità di esprimere una forte presa di posizione, denunciando le potenze che si occupano di amministrare un paese. Dark Star (benché si noti l'acerbità artistica e il budget esiguo) adagia John Carpenter sotto una lente di ingrandimento, ponendolo nella cerchia dei giovani e talentosi registi del cinema indipendente dei primi anni '70 e riuscendo a guadagnare una rispettosa cifra al botteghino.
Il poster originale di Dark Star (1974)
Nonostante l’opera presa in causa sia solamente l’esordio di una florida carriera, già sono presenti tutte le cifre stilistiche che l’autore sublimerà con le pellicole successive.
RITMO: incessante e frenetico, Carpenter si affermerà come maestro della suspense grazie a questo elemento. Il ritmo risulta mai calante di intensità, suscitando nello spettatore il bisogno di avvinghiarsi a un istante di pace.
SCENEGGIATURA: brillante e coinvolgente, ricca di spunti di riflessione mai banali. Il regista vivifica il suo cinema tramite una sceneggiatura capace di risultare credibile nonostante sia chiaramente di matrice fantastica, contestualizzando perfettamente ogni micro-cosmo della macro-trama.
MESSA IN SCENA: punto cruciale della filmografia Carpenteriana, affascinante e appassionata, plausibile in ogni dettaglio tramite una cura certosina della scenografia.
MUSICHE: inizialmente accennate come imprescindibili nella creatività dell’autore, risultano essere perennemente centrate con la narrazione, non perdendo mai il focus principale. Carpenter riesce con maestria a provocare nello spettatore un enorme ventaglio di emozioni grazie all’utilizzo della musica, suscitando prima gioco poi ansia, terrore e riso, affermandosi anche come grande musicista.
Carpenter a lavoro sul set
Assault on Precinct 13 (Distretto 13 - Le brigate della morte, 1976)
A seguito del modesto successo di Dark Star, il cineasta newyorkese impiegherà un paio d’anni per scrivere e girare il suo primo, vero, capolavoro: Assault on Precinct 13. Un film che rispecchia pienamente tutto quello che Carpenter ha sempre cercato di rappresentare attraverso il suo cinema, un grandioso connubio tra estetica e poetica. L’autore si presenta al grande pubblico con una messa in scena spiazzante, tanto brutale ed efferata quanto misericordiosa e angelica. Fin dal principio Carpenter tiene a precisare che l’opera non sarà per un pubblico suscettibile e mainstream, poiché essa si serve di una violenza concettuale, che mira dritta al cuore.
La trama è comprensibile e lineare: all'interno del "tredicesimo distretto" di una Los Angeles violenta e allucinata, due gruppi di uomini si ritrovano a dover sopravvivere ad assalti criminali. I personaggi sono divisi da una linea che traccia una labile divisione tra inattaccabile moralità e criminalità, distinzione che li illumina sotto diverse (e mutabili) luci. Le fonti di ispirazione sono rappresentate da opere cardine nel vissuto di John Carpenter: Rio Bravo (Un dollaro d’onore, 1959) di Howard Hawks e Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero. L’autore scocca un dardo avvelenato nei confronti delle forze della pubblica sicurezza, rappresentandole come una banda di bruti privi di integrità morale. Fondamentale nella poetica del regista è l’auto-imposizione di non scadere in generalizzazioni di bassa lega, criticando ferocemente il sistema con onestà intellettuale.
Assault on Precinct 13 (Distretto 13 - Le brigate della morte, 1976)
Attraverso un ricercato studio sulla natura umana, Assault on Precinct 13 cerca di analizzare il problema alla base dell’abuso di potere. Carpenter non crea eroi, si limita semplicemente ad indagare su come la psiche reagisca in condizioni di estremo pericolo. Si potrebbe parlare di velata ipocrisia di fondo, un’alleanza tra male e bene che elimina ogni diversità tra le due parti in favore della sopravvivenza. Esemplificativo è il rapporto tra Napoleone Wilson e Ethan Bishop, due personaggi, guidati da principi opposti, che mettono da parte i ruoli sociali di autorità e criminale divenendo, semplicemente, esseri umani in preda alla disperazione. La poetica carpenteriana risiede in questo intreccio interpersonale, la differenza tra male e bene non è così marcata come si crede, presenta sfaccettature e sfumature in grado di mettere in discussione una qualunque azione venga considerata moralmente errata.
Sfiducia nel sistema, isolamento delle periferie e critica alla pubblica sicurezza compongono il piatto principale del lungometraggio, una perfetta combinazione anti-capitalistica in stile Carpenter. Il regista si serve di un paradosso concettuale per affossare le istituzioni, utilizza un distretto di polizia e ne ribalta totalmente il concetto: da luogo di protezione e autorità esso si trasforma in un edificio come un altro, impotente dinanzi alla sommossa popolare. Assault on Precinct 13 presenta interrogativi di natura filosofica, un’autentica ricerca di umanità in un contesto di abbandono e degrado. Quanta responsabilità può rivendicare lo Stato riguardo all’intensificazione di attività criminali nelle periferie cittadine? Soprattutto, esiste il dovere di tutelare aree meno abbienti per combattere la criminalità o persiste la volontà di emarginare determinate classi sociali creando, in questo modo, realtà totalmente opposte?
Assault on Precinct 13 (Distretto 13 - Le brigate della morte, 1976)
Halloween (1978)
In seguito a Assault on Precinct 13, Carpenter realizza una delle opere più iconiche di tutto il cinema horror, dando vita al mito del personaggio di Michael Myers, la pellicola in questione è chiaramente Halloween (1978), caposaldo dello slasher e colonna portante della cinematografia dell’autore. La trama, immediata e geniale allo stesso tempo, si apre su un Myers bambino che trucida parte della sua famiglia nella notte di Halloween, successivamente verrà arrestato e condannato al manicomio. La narrazione continua circa vent’anni dopo il massacro, evento che ha suscitato un macabro interesse negli studiosi, specialmente nel Dottor Loomis (Donald Pleasence), deciso a incontrare Michael. Una serie di calamità concederà allo psicopatico di fuggire dal manicomio, ed egli sarà determinato a uccidere sua sorella minore (Jamie Lee-Curtis) per completare la scia di omicidi iniziata anni prima.
Halloween rappresenta al massimo della sua espressività l’estetica dell'autore, una regia che onora maestri del cinema europeo (come Dario Argento e Mario Bava) attraverso una rivisitazione claustrofobica, che priva lo spettatore del respiro. La pellicola inizia con un grandioso piano sequenza in soggettiva chiusa di Michael mascherato intento a uccidere sua sorella e il suo amante. Terminato il massacro, seguiamo ancora una volta il killer fino all’esterno della sua abitazione dove Carpenter, con un sapiente movimento di macchina da presa e carrello, ribalta la situazione proposta passando da una soggettiva a un oggettiva e rivelando il volto di Myers. Il film vive di inquietanti silenzi fusi ad alternanza tra tenebra e luce, scenografie monumentali che nella loro semplicità non devono mai ricorrere ad una sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore. Ancora una volta Carpenter si conferma un grandissimo musicista, componendo l’iconica colonna sonora Halloween Theme liberamente ispirata a Profondo Rosso (1975) di Argento.
Carpenter sdogana la figura dell’uomo-demone, ideando un villain con cui ogni singolo spettatore può identificarsi il più possibile, non a caso la maschera denota una disorientante inespressività. L'opera propone, per la prima volta nella filmografia carpenteriana, un elemento chiave della sua poetica: l’incontro tra logicità e superstizione, scienza e divino - argomento sviscerato in Prince of Darkness (Il signore del male, 1987) e In the Mouth of Madness (Il seme della follia, 1994). Il personaggio del dottor. Loomis è perennemente posto in contrasto con Myers, due facce di una stessa società, l’una contrapposta all’altra. L’intreccio tra i due viene fortemente esplicitato nel finale magistralmente girato, un duello fisico e concettuale tra malvagità demoniaca e concretezza terrena.
Halloween (1978)
The Fog (1980)
Erroneamente considerata come un’opera minore, The Fog sublima tutti i principali elementi del cinema di John Carpenter, un puro horror movie realizzato con un budget esiguo. La trama ruota attorno ad una cittadina costiera americana, Antonio Bay, che si prepara a festeggiare il centenario dalla sua fondazione; tuttavia, una strana nebbia sembra inghiottirne gli abitanti, facendoli dissolvere nel nulla senza lasciare tracce. Dopo pochi minuti dall’avvio della pellicola si rivelano gli scheletri nell’armadio del piccolo centro abitato, costruito grazie al denaro ricevuto dall’omicidio di un ricco mercante, William Blake, e tutto l’equipaggio del suo galeone. Trascorsi cento anni dalla barbarie, gli spiriti dei marinai rimasti uccisi esigono sei vite degli abitanti di Antonio Bay poiché ritenuti tutti complici dell’efferatezza subita.
La poetica dell’autore si arricchisce di una nuova sfumatura critica nei confronti della Chiesa, istituzione incriminata di aver edificato la sua egemonia (in The Fog ha costruito una città) sul sangue. Padre Malone, nipote di uno degli assassini di Blake, rappresenta quella parte di clero dai puri principi vittima delle nefandezze commesse dall'istituzione a cui si è votato, un concetto quanto mai attuale nonostante i quarantasei anni passati dall’uscita del film. Il regista critica aspramente il potere costituito utilizzando la sineddoche di Antonio Bay per raccontare l’America, fondata (secondo la sua visione) su soprusi e atrocità, la visione politica che ne consegue risulta assolutamente anarchica e rinnega totalmente ogni sorta di autorità. Carpenter continua imperterrito il suo attacco al potere, condannando brutalmente ogni tipo di violenza.
Indiscutibilmente la pellicola possiede un carattere carpenteriano come poche altre, ed esalta il lato tecnico in ogni momento. Gli omicidi non ricorrono mai all’eccessivo bisogno di urtare la sensibilità di stomaco e il cineasta preferisce lasciare che sia il connubio tra montaggio, musica e regia a far crescere il terrore. Il geniale espediente del non far scorgere mai chiaramente i corpi dei fantasmi genera un palpabile senso di panico, Carpenter risulta estremamente abile nel mostrare pochi elementi chiave, lasciando che l’immaginazione dello spettatore crei il proprio (personale) mostro.
Gli spiriti in cerca di vendetta di The Fog (1980)
Escape from New York (1997: Fuga da New York, 1981)
In seguito a The Fog, Carpenter si cimenta nella prima produzione ad altissimo budget della sua carriera. Escape from New York è un'opera meritevole di infiniti approfondimenti, innanzitutto compare per la prima volta l’icona machista tipica del cinema di Carpenter, qui personificata dal grande Kurt Russel. L’intreccio, sviluppato sulla struttura di una storia corale, viene ambientato in un futuro (per l’epoca) distopico, in una New York decaduta e tramutatasi in una prigione a cielo aperto, popolata da reietti e criminali di ogni genere, membri di una nuova società nata dal degrado e amministrata dal “Duca di New York” Isaac Hayes. Il presidente degli Stati Uniti (Donald Pleasence), per via di un attacco terroristico al suo aereo privato, è costretto a deragliare su New York rimanendone imprigionato. Sarà proprio l’antieroe protagonista del lungometraggio Snake Pliskin (Kurt Russel) a portare in salvo il capo di Stato.
Escape from New York abbraccia un’enorme quantità di generi (action adventure, horror, dramma, commedia) e compie un brillante uso della scenografia (impattante e suggestiva) per inscenare una Grande Mela sull'orlo della catastrofe, convincente a tal punto da rappresentare lei stessa un personaggio. Densamente popolata da gang e personalità pittoresche, la megalopoli suggestiona lo spettatore catturandone l’attenzione e tenendolo incollato allo schermo per tutta la durata della pellicola. La poetica dell’autore si ripresenta in maniera oltremodo marcata, rielaborando in chiave ancor più pessimistica il concetto di abbandono sociale che dominava Assault on Precinct 13, dove l’isolamento delle periferie veniva inscenato in una maniera maggiormente realistica.
Escape from New York, inoltre, richiama fortemente un immaginario fumettistico/grottesco per narrare una vicenda più che mai attuale, il regista si schiera fortemente dalla parte dei delinquenti, resi tali da un’America divisa in caste e mai focalizzata sul preservare la civilizzazione nel disagio. Carpenter capovolge gli stereotipi sociali, dipingendo autorità e ceti elevati come orribili manipolatori privi di scrupoli, sempre in prima linea per raccogliere consensi sulle fatiche di terzi. Così, nella visione del regista, gli Stati Uniti si trasformano in una Nazione terrorista, pronta a sacrificare chiunque (lo stesso presidente viene visto solamente come un misero giocattolo nelle mani di qualcosa di ancor più grande) in un increscioso gioco al massacro. Giunti al finale la genialità artistica di Carpenter raggiunge il suo apice di splendore, rovesciando il ruolo dell’eroe statunitense mediante Snake Pliskin. Il personaggio interpretato da Kurt Russel incarna la filosofia pessimistica di un mondo alla deriva, un’icona di nichilismo nata dal rinnegamento dei principi imposti da un sistema capitalistico. L’opera si conclude con un grandioso dialogo tra Pliskin e il presidente, inequivocabilmente inquisitorio verso le istituzioni, marchio indelebile della filmografia carpenteriana.
Snake Pliskin (Kurt Russel), iconico antieroe di Escape from New York (1997: Fuga da New York, 1981)
The Thing (La cosa, 1982)
È nei primi anni ’80 che Carpenter rivendica il ruolo di mecenate del cinema attraverso un capolavoro impresso nella memoria dei cinefili di tutto il mondo: The Thing. Remake dell’omonimo film del ’51, il film rappresenta un tassello fondamentale per l’evoluzione cinematografica del body horror, divenendo una tappa obbligata per ogni appassionato del genere. Nonostante i quasi cinquant’anni dalla sua uscita in sala, l’opera si avvale di una messa in scena talmente avanguardistica per il tempo da risultare, ancora oggi, estremamente attuale. Nella storia una forma aliena in grado di assumere l’aspetto di tutti gli esseri viventi con cui entra in contatto prova a decimare un equipaggio di ricercatori scientifici che risiede in un'isolata base dell'Antartide. Nessuno (in primis lo spettatore) sa chi tra i personaggi sia una perfetta imitazione aliena o chi un uomo, la diffidenza verso il prossimo rappresenta l’unica possibilità di provare a fermare “la cosa”. Tra tutte le opere di Carpenter, la pellicola in questione manifesta una perfezione assoluta nei riguardi della scrittura, l’autore riesce tramite pochissimi dialoghi interpersonali a caratterizzare perfettamente i personaggi. Protagonista assoluto è ancora una volta Kurt Russel (MacReady) che qui interpreta un personaggio di sfrontata superbia.
Emblematica è in questo senso una sequenza ripresa attraverso un piano sequenza tra Kurt Russel e il suo computer: il nostro protagonista viene sconfitto a scacchi da un’intelligenza artificiale e, accecato dall’ira, rompe il dispositivo versandoci sopra del liquido. L’unica parola che pronuncia è “Baro”, in questa semplicissima battuta risiede tutta la grandezza di Carpenter. Con una apparentemente banale imprecazione, il cineasta mostra allo spettatore il temerario carattere di MacReady, indisposto alla sconfitta tanto quanto lo è alla resa. La potenza della cinematografia carpenteriana è tutta qui, nell'esplicitare concetti complessi in modi accessibili a chiunque. La maestosità tecnica di The Thing sconvolge ancora oggi e tramite l’utilizzo di carrelli la regia assume una geometria perfetta, dove ogni singolo aspetto compone un impeccabile quadro di puro cinema. Colonna sonora co-scritta da Carpenter e Ennio Morricone, un perenne battito in sottofondo che rende impensabile la sospensione dell’ansia, adrenalina pura sotto forma musicale, narratore incessante e mai fuori posto.
La parabola di quest’opera è parte centrale della sua grandezza, un attacco alla natura egoistica della società contemporanea riflessa inevitabilmente sull’indole dell’uomo, incapace di convivere armoniosamente nella collettività. Ancora una volta l’alienazione autoindotta in risposta alle intemperie viene proposta nella trama, un bisogno antropologico di abbandonare il più debole in favore della sopravvivenza. L’autore critica un regime che promuove la noncuranza del prossimo in favore di un’effimera sensazione di controllo sui pericoli che permeano il quotidiano. Secondo Carpenter l’unica arma per provare a sconfiggere l’egoismo dilagante di un mondo capitalistico sono i rapporti umani e il non perdere di vista le precarietà del prossimo. The Thing rispecchia un cinema cristallino, politico, emozionante e riflessivo.
The Thing (La cosa, 1982)
Prince of Darkness (Il signore del male, 1987)
Prince of Darkness rappresenta l'opera più spirituale dell’autore ed esprime radicalmente il suo pensiero nei riguardi della contaminazione tra razionalità e superstizione. Una pellicola dove terreno e soprannaturale si mescolano in un connubio inquietantemente affascinante, quasi un richiamo alla poetica dello scrittore statunitense H.P. Lovecraft. La relazione tra il lungometraggio e un romanzo lovecraftiano appare chiara, entrambi gli autori provano, tramite il loro operato, ad analizzare il fenomeno paranormale, creando immagini indelebili nel pensiero collettivo. Prince of Darkness non è null’altro che un tentativo del regista di mostrare quanto il raziocinio possa essere fortemente debole dinanzi alla maestosità dell’ignoto, un macabro vincolo tra reale e superstizioso.
L’intreccio narrativo si sviluppa quasi nella sua interezza all’interno di una chiesa, tornando concettualmente al discorso portato avanti da The Fog, singolare infatti che la casa della fede cristiana sia la culla di una forma di vita demoniaca, l’essenza della malvagità. La lente d’ingrandimento saggiamente manovrata da Carpenter si focalizza su un nuovo concetto di inganno religioso, una menzogna portata avanti dalla stessa chiesa per colpire gli ingranaggi sostituibili di una dottrina deteriorata. Centrale è la figura di Padre Loomis (interpretato da Donald Pleasence), prete in piena crisi esistenziale poiché tradito dai principi di una fede eretta sulla menzogna. L’attacco di Carpenter non è solamente diretto agli esponenti ecclesiastici, bensì alla totalità delle figure di chiesa, che nel tempo hanno contributo alla distorsione dei concetti cardine del cristianesimo, alimentando il maligno sino a snaturare il significato di bene a tal punto da non poterlo più descrivere con esattezza.
La condizione di Loomis delinea un trauma che, inevitabilmente, si presenta almeno una volta nella vita di ogni uomo: lo smarrimento totale del crollo di una certezza assoluta. Carpenter analizza il dramma dello smarrimento sociale in maniera naturalistica, evitando di inciampare in moralismi superficiali. Fotografia, regia e messa in scena manifestano pienamente la sua estetica, rendendo la pellicola un anello fondamentale nella catena cinematografica dell’autore.
Donald Pleasence, fedele collaboratore di Carpenter, nei panni di Padre Loomis in Prince of Darkness (Il signore del male, 1987)
They Live (Essi vivono, 1988)
Nel processo evolutivo di critica verso la società insito nella filmografia del regista, They Live è sicuramente la pellicola che meno si preoccupa di celare la poetica di John Carpenter, veicolando un vero e proprio messaggio di propaganda rivoluzionaria verso il governo statunitense. L'autore decide di abbandonare un messaggio politico implicito alla narrazione, esplicitando apertamente il suo spirito anti-istituzionale. La trama narra l’avventura di John Nada, (Roddy Piper), operaio in cerca di fortuna che, dopo diversi rifiuti, riesce a trovare impiego presso un cantiere, iniziando l’effimera scalata al successo che ogni cittadino americano sogna. Sul luogo di lavoro conosce Frank (Keith David) che lo ospita nella sua comunità, luogo di ritrovo per bisognosi situato nei pressi di una chiesa di quartiere. Trascorsi pochi giorni la comune viene assalita e incendiata dalle forze dell’ordine, la sequenza della barbarie viene girata quasi in chiave documentarista, inscenando crudeli pestaggi con la pungente estetica propria di Carpenter. Successivamente alla nefandezza commessa dalla forza pubblica, John reperisce degli occhiali che mostrano il mondo per ciò che è davvero, un luogo miseramente grigio governato da orribili creature con le fattezze di non morti.
Carpenter rappresenta un'umanità sull’orlo dell’estinzione, un sacrificio di comuni in favore di vertici politici, emblematiche le scritte degli infissi pubblicitari: non svegliatevi, proliferate, consumate, non fate domande alle autorità, guardate la TV. L’autore attacca ferocemente caste abbienti e forme di governo, considerando i loro componenti come esseri mostruosi incapaci di provare compassione per la condizione umana, tanto da elevarsi a un ceto superiore. They Live, oltre a rappresentare un’opera di forte stampo politico, indaga sulla natura dell’essere umano sottomesso, il personaggio di Drifter (interpretato da George Buck Flower) ne è emblema. Drifter si presenta come un uomo distinto, elegante, apparentemente agiato e accettato dalle forme di vita aliene padrone del nostro mondo. Carpenter se ne serve per raffigurare l’uomo debole e arrendevole, facilmente ammaliabile dalle classi superiori tramite l'illusione di poter raggiungere un rango elevato. La condizione di Drifter è incastrata in un limbo da cui è impossibile uscire. Nel monumentale roster dell'operato carpenteriano They Live riveste la funzione di pellicola esplicitamente battagliera riguardo i sistemi governativi americani, un'opera maestra tutt’ora estremamente attuale.
Le pellicole successive all’88 (eccezion fatta per In the Mouth of Madness) non raggiungeranno più gli standard qualitativi dei capolavori passati e la carriera dell’autore (nei panni di regista) tramonterà definitivamente con The Ward (2010), godibile lungometraggio horror. Ma l'eredità regalata da Carpenter alla Storia del Cinema fa scuola ancora oggi, rendendolo uno dei registi più influenti della sua generazione. Cinema di protesta, anarchico e mai scialbo, il tentativo di un lungimirante anticonformista che ha cercato, tramite ogni mezzo inerente alla Settima Arte, di svegliare la coscienza di massa. Il mondo necessita di autori pronti a denunciare realtà oscure in favore delle minoranze, artisti incapaci di ignorare il disagio che li circonda, in altre parole, c’è, ancora (e sopratutto) oggi un concreto bisogno di John Carpenter.
They Live (Essi vivono, 1988)
La carriera di John Carpenter
attraverso otto opere chiave,
di Luca Romani
TR-121
16.01.2025
Il rapporto tra l'essere umano e le arti è per definizione enigmatico e paradossale. L’uomo si erge al divino mediante l’arte per necessità espressiva o semplice deterrente egoistico? Ambo le fazioni dipingono scenari che, seppur concettualmente opposti, si prestano in favore della produzione artistica, rendendo il movente privo di importanza. Innegabilmente la contaminazione contestuale tra periodo storico e vissuto personale influenza vigorosamente la creazione di opere d'arte. La storia cristallizza autori che hanno utilizzato l’arte come unico mezzo contro la violenza dilaniante di una società sempre meno umana, vorticosamente eretta su fragili colonne di vetro, composte da soprusi e assenza di principi altruistici per la collettività.
Lo scrittore Cormac McCarthy dedicò la sua vita a raccontare l’assenza di umanità in una società corrotta, sviscerando il male in ogni sua forma...pessimistica visione circolare innevata di depravazione e macabro. McCarthy credeva che il mondo fosse ormai irrimediabilmente alla deriva, una cagionevole imbarcazione che procede goffamente verso un oceano man mano più profondo. L’autore premio Pulitzer era assolutamente certo di un solo aspetto: il male non possiede né forma né accento, né corpo né anima, è un invisibile sentore che si nutre delle parti più ombrose dell’inconscio umano. Una copiosa quantità di autori votati cinema si è interrogata sull’irrefrenabile malvagità dell’uomo. Tra tutti si erge, senza presunzione e con il fare dei giganti, un uomo che attraverso il suo operato ha messo in dubbio la fallace e illusoria semantica del sogno americano, un regista che, mediante la Settima Arte, ha contestato ogni forma di sopruso, abuso e sopraffazione da parte del regime capitalistico degli Stati Uniti d’America. Oggi, nel giorno della sua nascita, celebriamo l'operato di John Howard Carpenter.
John Carpenter
John nasce il 16 gennaio 1948 a Carthage, e fin dall’infanzia dimostra una sensibilità artistica non comune per la musica e il cinema. Suo padre, Howard Ralph Carpenter, ricopriva il ruolo di capo dipartimento musicale della Western Kentucky University, il regista, non a caso, dichiarerà: “Ringrazio mia madre per avermi regalato la creatività e mio padre per avermi donato la musica, due regali non da poco”. È quindi in un clima di "virtuosità artistica" che il giovane John inizia a muovere i primi passi nell'universo musicale, rivestendo la figura di front man nella band “Caleidoscope”. Le musiche, quasi sempre autoprodotte, ricopriranno un tassello fondamentale nella sua successiva "filosofia cinematografica", pronte prima a terrorizzare e poi a glorificare i personaggi mostrati sullo schermo, rappresentando così, nell’opera Carpenteriana, una sorta di narratore onnisciente.
Le leggende cinematografiche di Carpenter sono da ricercare nel cinema degli anni ’50, soprattutto nelle opere di John Wayne, poiché, fin da giovanissimo, il regista desidererà realizzare una pellicola Western-Fantascientifica per rendere omaggio ai suoi "miti giovanili". Nel ’68 si iscrive alla prestigiosa University of Southern California (intraprendendo ufficialmente il percorso che lo porterà a scalare i vertiginosi gradini della Storia del Cinema) dove frequenta corsi di montaggio, letteratura cinematografica, fotografia e regia. Ed è proprio in questo contesto che si diletta in ben undici cortometraggi di natura grottesco- fantascientifica, proponendo situazioni e personaggi del tutto fuori dall’ordinario - è sufficiente visionare Captain Voyeur (1969) per comprendere al meglio i primi anni del suo operato.
Terminato il percorso universitario, Carpenter scrive e produce il suo primo lungometraggio (che in origine era stato pensato come un cortometraggio chiamato Alien) con un gramo budget di appena 60.000 dollari di nome Dark star (1974), esempio principe per quella che sarà la poetica passivo-pessimistica del cineasta in ogni sua opera successiva.
John Carpenter e il compositore Alan Howarth a lavoro sulle musiche di Escape from New York (1997: Fuga da New York, 1981)
Il contesto culturale e politico americano dei primi anni ’70
Come la Storia ci insegna, gli Stati Uniti, dalla metà degli anni ’50 fino agli anni ’70, sono stati un Paese fortemente scosso da contrasti sociali e ingiustificate guerre esterne. L'American Dream pubblicizzato tramite il piano Marshall, per un’americanizzazione dell’Europa, iniziava a mostrare le prime fragilità.
Gli eventi più rilevanti fossilizzati in quel preciso ventennio sono diversi, ma quattro su tutti hanno impattato la memoria collettiva: lo scoppio della campagna militare americana in Vietnam (iniziato nel 1955 e terminato nel 1975), l’assassinio del presidente John Kennedy (1963), l’omicidio dell’attivista politico Martin Luther King (1968) e lo Scandalo Watergate (1972) - per concludere questo sconvolgente elenco di atrocità non dobbiamo obliare che le condizioni generali di allerta erano ai massimi storici. Se si prende come riferimento il '55, la Seconda Guerra Mondiale era terminata da appena dieci anni e i devastanti residui della distruzione di massa erano ben lontani dall'essere superati, ma, nonostante questo, il nostro pianeta si preparava già a un altro conflitto di enorme portata, successivamente battezzato dagli storici come Guerra Fredda - lo scontro tra America e URSS (attuale Russia).
Risulta di facile intuizione comprendere quanto la sfiducia nei sistemi governativi (lo scandalo Watergate) e la guerra in Vietnam (criticata dalla maggior parte dei cittadini americani e definita una barbarie imperialista) compromisero definitivamente l’immagine degli Stati Uniti, creando dissapori intestini tra la popolazione. È proprio in questo lugubre contesto che Carpenter matura un sentito pessimismo verso la società americana, aspramente criticata già in Dark Star.
Le proteste degli anni '70 contro la Guerra del Vietnam
Dark Star (1974)
La pellicola si presenta come una parodizzazione delle manie di espansione e grandiosità statunitensi. Dark Star (che si può definire come una commedia fantascientifica) narra la semplicissima vicenda di degli astronauti erranti (Brian Narelle, Dan O’Bannon, Dre Pahich e Chal Kuniholm) alla ricerca di pianeti da poter distruggere in modo da permettere ai terrestri di colonizzare l’intero universo. I personaggi non manifestano mai alcun tipo di rimorso durante il loro impiego, affrontando la distruzione planetaria con una sufficienza che scade, molto spesso, in noia. Lo sviluppo narrativo pone però i protagonisti in uno stato di forte precarietà: la nave spaziale (Dark Star appunto) rischia di essere ridotta in cenere a causa di un razzo sferrato da lei stessa. Già da questi esili spunti narrativi, risultano cristallini i sentori politici della poetica carpenteriana attraverso una palese analogia tra gli astronauti e la politica USA, spesso di forte stampo colonialista.
Carpenter decostruisce il mito americano mostrando una visione totalmente ottusa e scriteriata dell’eroe statunitense. I personaggi (simbolo di una mitizzazione che pone come icona apicale l’America) sono buffi e privi di consapevolezza, assolutamente non in grado di ricoprire la carica loro conferita. La critica di Carpenter è diretta, consapevole e manifesta un dissenso totale per tutto ciò che riguarda l’auto-affermazione di terzi tramite morte e distruzione. L’anarchia primigenia sarà un filo conduttore innervato nella retorica, mai ridondante, del cineasta, utopistico immaginare il suo operato senza la necessità di esprimere una forte presa di posizione, denunciando le potenze che si occupano di amministrare un paese. Dark Star (benché si noti l'acerbità artistica e il budget esiguo) adagia John Carpenter sotto una lente di ingrandimento, ponendolo nella cerchia dei giovani e talentosi registi del cinema indipendente dei primi anni '70 e riuscendo a guadagnare una rispettosa cifra al botteghino.
Il poster originale di Dark Star (1974)
Nonostante l’opera presa in causa sia solamente l’esordio di una florida carriera, già sono presenti tutte le cifre stilistiche che l’autore sublimerà con le pellicole successive.
RITMO: incessante e frenetico, Carpenter si affermerà come maestro della suspense grazie a questo elemento. Il ritmo risulta mai calante di intensità, suscitando nello spettatore il bisogno di avvinghiarsi a un istante di pace.
SCENEGGIATURA: brillante e coinvolgente, ricca di spunti di riflessione mai banali. Il regista vivifica il suo cinema tramite una sceneggiatura capace di risultare credibile nonostante sia chiaramente di matrice fantastica, contestualizzando perfettamente ogni micro-cosmo della macro-trama.
MESSA IN SCENA: punto cruciale della filmografia Carpenteriana, affascinante e appassionata, plausibile in ogni dettaglio tramite una cura certosina della scenografia.
MUSICHE: inizialmente accennate come imprescindibili nella creatività dell’autore, risultano essere perennemente centrate con la narrazione, non perdendo mai il focus principale. Carpenter riesce con maestria a provocare nello spettatore un enorme ventaglio di emozioni grazie all’utilizzo della musica, suscitando prima gioco poi ansia, terrore e riso, affermandosi anche come grande musicista.
Carpenter a lavoro sul set
Assault on Precinct 13 (Distretto 13 - Le brigate della morte, 1976)
A seguito del modesto successo di Dark Star, il cineasta newyorkese impiegherà un paio d’anni per scrivere e girare il suo primo, vero, capolavoro: Assault on Precinct 13. Un film che rispecchia pienamente tutto quello che Carpenter ha sempre cercato di rappresentare attraverso il suo cinema, un grandioso connubio tra estetica e poetica. L’autore si presenta al grande pubblico con una messa in scena spiazzante, tanto brutale ed efferata quanto misericordiosa e angelica. Fin dal principio Carpenter tiene a precisare che l’opera non sarà per un pubblico suscettibile e mainstream, poiché essa si serve di una violenza concettuale, che mira dritta al cuore.
La trama è comprensibile e lineare: all'interno del "tredicesimo distretto" di una Los Angeles violenta e allucinata, due gruppi di uomini si ritrovano a dover sopravvivere ad assalti criminali. I personaggi sono divisi da una linea che traccia una labile divisione tra inattaccabile moralità e criminalità, distinzione che li illumina sotto diverse (e mutabili) luci. Le fonti di ispirazione sono rappresentate da opere cardine nel vissuto di John Carpenter: Rio Bravo (Un dollaro d’onore, 1959) di Howard Hawks e Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero. L’autore scocca un dardo avvelenato nei confronti delle forze della pubblica sicurezza, rappresentandole come una banda di bruti privi di integrità morale. Fondamentale nella poetica del regista è l’auto-imposizione di non scadere in generalizzazioni di bassa lega, criticando ferocemente il sistema con onestà intellettuale.
Assault on Precinct 13 (Distretto 13 - Le brigate della morte, 1976)
Attraverso un ricercato studio sulla natura umana, Assault on Precinct 13 cerca di analizzare il problema alla base dell’abuso di potere. Carpenter non crea eroi, si limita semplicemente ad indagare su come la psiche reagisca in condizioni di estremo pericolo. Si potrebbe parlare di velata ipocrisia di fondo, un’alleanza tra male e bene che elimina ogni diversità tra le due parti in favore della sopravvivenza. Esemplificativo è il rapporto tra Napoleone Wilson e Ethan Bishop, due personaggi, guidati da principi opposti, che mettono da parte i ruoli sociali di autorità e criminale divenendo, semplicemente, esseri umani in preda alla disperazione. La poetica carpenteriana risiede in questo intreccio interpersonale, la differenza tra male e bene non è così marcata come si crede, presenta sfaccettature e sfumature in grado di mettere in discussione una qualunque azione venga considerata moralmente errata.
Sfiducia nel sistema, isolamento delle periferie e critica alla pubblica sicurezza compongono il piatto principale del lungometraggio, una perfetta combinazione anti-capitalistica in stile Carpenter. Il regista si serve di un paradosso concettuale per affossare le istituzioni, utilizza un distretto di polizia e ne ribalta totalmente il concetto: da luogo di protezione e autorità esso si trasforma in un edificio come un altro, impotente dinanzi alla sommossa popolare. Assault on Precinct 13 presenta interrogativi di natura filosofica, un’autentica ricerca di umanità in un contesto di abbandono e degrado. Quanta responsabilità può rivendicare lo Stato riguardo all’intensificazione di attività criminali nelle periferie cittadine? Soprattutto, esiste il dovere di tutelare aree meno abbienti per combattere la criminalità o persiste la volontà di emarginare determinate classi sociali creando, in questo modo, realtà totalmente opposte?
Assault on Precinct 13 (Distretto 13 - Le brigate della morte, 1976)
Halloween (1978)
In seguito a Assault on Precinct 13, Carpenter realizza una delle opere più iconiche di tutto il cinema horror, dando vita al mito del personaggio di Michael Myers, la pellicola in questione è chiaramente Halloween (1978), caposaldo dello slasher e colonna portante della cinematografia dell’autore. La trama, immediata e geniale allo stesso tempo, si apre su un Myers bambino che trucida parte della sua famiglia nella notte di Halloween, successivamente verrà arrestato e condannato al manicomio. La narrazione continua circa vent’anni dopo il massacro, evento che ha suscitato un macabro interesse negli studiosi, specialmente nel Dottor Loomis (Donald Pleasence), deciso a incontrare Michael. Una serie di calamità concederà allo psicopatico di fuggire dal manicomio, ed egli sarà determinato a uccidere sua sorella minore (Jamie Lee-Curtis) per completare la scia di omicidi iniziata anni prima.
Halloween rappresenta al massimo della sua espressività l’estetica dell'autore, una regia che onora maestri del cinema europeo (come Dario Argento e Mario Bava) attraverso una rivisitazione claustrofobica, che priva lo spettatore del respiro. La pellicola inizia con un grandioso piano sequenza in soggettiva chiusa di Michael mascherato intento a uccidere sua sorella e il suo amante. Terminato il massacro, seguiamo ancora una volta il killer fino all’esterno della sua abitazione dove Carpenter, con un sapiente movimento di macchina da presa e carrello, ribalta la situazione proposta passando da una soggettiva a un oggettiva e rivelando il volto di Myers. Il film vive di inquietanti silenzi fusi ad alternanza tra tenebra e luce, scenografie monumentali che nella loro semplicità non devono mai ricorrere ad una sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore. Ancora una volta Carpenter si conferma un grandissimo musicista, componendo l’iconica colonna sonora Halloween Theme liberamente ispirata a Profondo Rosso (1975) di Argento.
Carpenter sdogana la figura dell’uomo-demone, ideando un villain con cui ogni singolo spettatore può identificarsi il più possibile, non a caso la maschera denota una disorientante inespressività. L'opera propone, per la prima volta nella filmografia carpenteriana, un elemento chiave della sua poetica: l’incontro tra logicità e superstizione, scienza e divino - argomento sviscerato in Prince of Darkness (Il signore del male, 1987) e In the Mouth of Madness (Il seme della follia, 1994). Il personaggio del dottor. Loomis è perennemente posto in contrasto con Myers, due facce di una stessa società, l’una contrapposta all’altra. L’intreccio tra i due viene fortemente esplicitato nel finale magistralmente girato, un duello fisico e concettuale tra malvagità demoniaca e concretezza terrena.
Halloween (1978)
The Fog (1980)
Erroneamente considerata come un’opera minore, The Fog sublima tutti i principali elementi del cinema di John Carpenter, un puro horror movie realizzato con un budget esiguo. La trama ruota attorno ad una cittadina costiera americana, Antonio Bay, che si prepara a festeggiare il centenario dalla sua fondazione; tuttavia, una strana nebbia sembra inghiottirne gli abitanti, facendoli dissolvere nel nulla senza lasciare tracce. Dopo pochi minuti dall’avvio della pellicola si rivelano gli scheletri nell’armadio del piccolo centro abitato, costruito grazie al denaro ricevuto dall’omicidio di un ricco mercante, William Blake, e tutto l’equipaggio del suo galeone. Trascorsi cento anni dalla barbarie, gli spiriti dei marinai rimasti uccisi esigono sei vite degli abitanti di Antonio Bay poiché ritenuti tutti complici dell’efferatezza subita.
La poetica dell’autore si arricchisce di una nuova sfumatura critica nei confronti della Chiesa, istituzione incriminata di aver edificato la sua egemonia (in The Fog ha costruito una città) sul sangue. Padre Malone, nipote di uno degli assassini di Blake, rappresenta quella parte di clero dai puri principi vittima delle nefandezze commesse dall'istituzione a cui si è votato, un concetto quanto mai attuale nonostante i quarantasei anni passati dall’uscita del film. Il regista critica aspramente il potere costituito utilizzando la sineddoche di Antonio Bay per raccontare l’America, fondata (secondo la sua visione) su soprusi e atrocità, la visione politica che ne consegue risulta assolutamente anarchica e rinnega totalmente ogni sorta di autorità. Carpenter continua imperterrito il suo attacco al potere, condannando brutalmente ogni tipo di violenza.
Indiscutibilmente la pellicola possiede un carattere carpenteriano come poche altre, ed esalta il lato tecnico in ogni momento. Gli omicidi non ricorrono mai all’eccessivo bisogno di urtare la sensibilità di stomaco e il cineasta preferisce lasciare che sia il connubio tra montaggio, musica e regia a far crescere il terrore. Il geniale espediente del non far scorgere mai chiaramente i corpi dei fantasmi genera un palpabile senso di panico, Carpenter risulta estremamente abile nel mostrare pochi elementi chiave, lasciando che l’immaginazione dello spettatore crei il proprio (personale) mostro.
Gli spiriti in cerca di vendetta di The Fog (1980)
Escape from New York (1997: Fuga da New York, 1981)
In seguito a The Fog, Carpenter si cimenta nella prima produzione ad altissimo budget della sua carriera. Escape from New York è un'opera meritevole di infiniti approfondimenti, innanzitutto compare per la prima volta l’icona machista tipica del cinema di Carpenter, qui personificata dal grande Kurt Russel. L’intreccio, sviluppato sulla struttura di una storia corale, viene ambientato in un futuro (per l’epoca) distopico, in una New York decaduta e tramutatasi in una prigione a cielo aperto, popolata da reietti e criminali di ogni genere, membri di una nuova società nata dal degrado e amministrata dal “Duca di New York” Isaac Hayes. Il presidente degli Stati Uniti (Donald Pleasence), per via di un attacco terroristico al suo aereo privato, è costretto a deragliare su New York rimanendone imprigionato. Sarà proprio l’antieroe protagonista del lungometraggio Snake Pliskin (Kurt Russel) a portare in salvo il capo di Stato.
Escape from New York abbraccia un’enorme quantità di generi (action adventure, horror, dramma, commedia) e compie un brillante uso della scenografia (impattante e suggestiva) per inscenare una Grande Mela sull'orlo della catastrofe, convincente a tal punto da rappresentare lei stessa un personaggio. Densamente popolata da gang e personalità pittoresche, la megalopoli suggestiona lo spettatore catturandone l’attenzione e tenendolo incollato allo schermo per tutta la durata della pellicola. La poetica dell’autore si ripresenta in maniera oltremodo marcata, rielaborando in chiave ancor più pessimistica il concetto di abbandono sociale che dominava Assault on Precinct 13, dove l’isolamento delle periferie veniva inscenato in una maniera maggiormente realistica.
Escape from New York, inoltre, richiama fortemente un immaginario fumettistico/grottesco per narrare una vicenda più che mai attuale, il regista si schiera fortemente dalla parte dei delinquenti, resi tali da un’America divisa in caste e mai focalizzata sul preservare la civilizzazione nel disagio. Carpenter capovolge gli stereotipi sociali, dipingendo autorità e ceti elevati come orribili manipolatori privi di scrupoli, sempre in prima linea per raccogliere consensi sulle fatiche di terzi. Così, nella visione del regista, gli Stati Uniti si trasformano in una Nazione terrorista, pronta a sacrificare chiunque (lo stesso presidente viene visto solamente come un misero giocattolo nelle mani di qualcosa di ancor più grande) in un increscioso gioco al massacro. Giunti al finale la genialità artistica di Carpenter raggiunge il suo apice di splendore, rovesciando il ruolo dell’eroe statunitense mediante Snake Pliskin. Il personaggio interpretato da Kurt Russel incarna la filosofia pessimistica di un mondo alla deriva, un’icona di nichilismo nata dal rinnegamento dei principi imposti da un sistema capitalistico. L’opera si conclude con un grandioso dialogo tra Pliskin e il presidente, inequivocabilmente inquisitorio verso le istituzioni, marchio indelebile della filmografia carpenteriana.
Snake Pliskin (Kurt Russel), iconico antieroe di Escape from New York (1997: Fuga da New York, 1981)
The Thing (La cosa, 1982)
È nei primi anni ’80 che Carpenter rivendica il ruolo di mecenate del cinema attraverso un capolavoro impresso nella memoria dei cinefili di tutto il mondo: The Thing. Remake dell’omonimo film del ’51, il film rappresenta un tassello fondamentale per l’evoluzione cinematografica del body horror, divenendo una tappa obbligata per ogni appassionato del genere. Nonostante i quasi cinquant’anni dalla sua uscita in sala, l’opera si avvale di una messa in scena talmente avanguardistica per il tempo da risultare, ancora oggi, estremamente attuale. Nella storia una forma aliena in grado di assumere l’aspetto di tutti gli esseri viventi con cui entra in contatto prova a decimare un equipaggio di ricercatori scientifici che risiede in un'isolata base dell'Antartide. Nessuno (in primis lo spettatore) sa chi tra i personaggi sia una perfetta imitazione aliena o chi un uomo, la diffidenza verso il prossimo rappresenta l’unica possibilità di provare a fermare “la cosa”. Tra tutte le opere di Carpenter, la pellicola in questione manifesta una perfezione assoluta nei riguardi della scrittura, l’autore riesce tramite pochissimi dialoghi interpersonali a caratterizzare perfettamente i personaggi. Protagonista assoluto è ancora una volta Kurt Russel (MacReady) che qui interpreta un personaggio di sfrontata superbia.
Emblematica è in questo senso una sequenza ripresa attraverso un piano sequenza tra Kurt Russel e il suo computer: il nostro protagonista viene sconfitto a scacchi da un’intelligenza artificiale e, accecato dall’ira, rompe il dispositivo versandoci sopra del liquido. L’unica parola che pronuncia è “Baro”, in questa semplicissima battuta risiede tutta la grandezza di Carpenter. Con una apparentemente banale imprecazione, il cineasta mostra allo spettatore il temerario carattere di MacReady, indisposto alla sconfitta tanto quanto lo è alla resa. La potenza della cinematografia carpenteriana è tutta qui, nell'esplicitare concetti complessi in modi accessibili a chiunque. La maestosità tecnica di The Thing sconvolge ancora oggi e tramite l’utilizzo di carrelli la regia assume una geometria perfetta, dove ogni singolo aspetto compone un impeccabile quadro di puro cinema. Colonna sonora co-scritta da Carpenter e Ennio Morricone, un perenne battito in sottofondo che rende impensabile la sospensione dell’ansia, adrenalina pura sotto forma musicale, narratore incessante e mai fuori posto.
La parabola di quest’opera è parte centrale della sua grandezza, un attacco alla natura egoistica della società contemporanea riflessa inevitabilmente sull’indole dell’uomo, incapace di convivere armoniosamente nella collettività. Ancora una volta l’alienazione autoindotta in risposta alle intemperie viene proposta nella trama, un bisogno antropologico di abbandonare il più debole in favore della sopravvivenza. L’autore critica un regime che promuove la noncuranza del prossimo in favore di un’effimera sensazione di controllo sui pericoli che permeano il quotidiano. Secondo Carpenter l’unica arma per provare a sconfiggere l’egoismo dilagante di un mondo capitalistico sono i rapporti umani e il non perdere di vista le precarietà del prossimo. The Thing rispecchia un cinema cristallino, politico, emozionante e riflessivo.
The Thing (La cosa, 1982)
Prince of Darkness (Il signore del male, 1987)
Prince of Darkness rappresenta l'opera più spirituale dell’autore ed esprime radicalmente il suo pensiero nei riguardi della contaminazione tra razionalità e superstizione. Una pellicola dove terreno e soprannaturale si mescolano in un connubio inquietantemente affascinante, quasi un richiamo alla poetica dello scrittore statunitense H.P. Lovecraft. La relazione tra il lungometraggio e un romanzo lovecraftiano appare chiara, entrambi gli autori provano, tramite il loro operato, ad analizzare il fenomeno paranormale, creando immagini indelebili nel pensiero collettivo. Prince of Darkness non è null’altro che un tentativo del regista di mostrare quanto il raziocinio possa essere fortemente debole dinanzi alla maestosità dell’ignoto, un macabro vincolo tra reale e superstizioso.
L’intreccio narrativo si sviluppa quasi nella sua interezza all’interno di una chiesa, tornando concettualmente al discorso portato avanti da The Fog, singolare infatti che la casa della fede cristiana sia la culla di una forma di vita demoniaca, l’essenza della malvagità. La lente d’ingrandimento saggiamente manovrata da Carpenter si focalizza su un nuovo concetto di inganno religioso, una menzogna portata avanti dalla stessa chiesa per colpire gli ingranaggi sostituibili di una dottrina deteriorata. Centrale è la figura di Padre Loomis (interpretato da Donald Pleasence), prete in piena crisi esistenziale poiché tradito dai principi di una fede eretta sulla menzogna. L’attacco di Carpenter non è solamente diretto agli esponenti ecclesiastici, bensì alla totalità delle figure di chiesa, che nel tempo hanno contributo alla distorsione dei concetti cardine del cristianesimo, alimentando il maligno sino a snaturare il significato di bene a tal punto da non poterlo più descrivere con esattezza.
La condizione di Loomis delinea un trauma che, inevitabilmente, si presenta almeno una volta nella vita di ogni uomo: lo smarrimento totale del crollo di una certezza assoluta. Carpenter analizza il dramma dello smarrimento sociale in maniera naturalistica, evitando di inciampare in moralismi superficiali. Fotografia, regia e messa in scena manifestano pienamente la sua estetica, rendendo la pellicola un anello fondamentale nella catena cinematografica dell’autore.
Donald Pleasence, fedele collaboratore di Carpenter, nei panni di Padre Loomis in Prince of Darkness (Il signore del male, 1987)
They Live (Essi vivono, 1988)
Nel processo evolutivo di critica verso la società insito nella filmografia del regista, They Live è sicuramente la pellicola che meno si preoccupa di celare la poetica di John Carpenter, veicolando un vero e proprio messaggio di propaganda rivoluzionaria verso il governo statunitense. L'autore decide di abbandonare un messaggio politico implicito alla narrazione, esplicitando apertamente il suo spirito anti-istituzionale. La trama narra l’avventura di John Nada, (Roddy Piper), operaio in cerca di fortuna che, dopo diversi rifiuti, riesce a trovare impiego presso un cantiere, iniziando l’effimera scalata al successo che ogni cittadino americano sogna. Sul luogo di lavoro conosce Frank (Keith David) che lo ospita nella sua comunità, luogo di ritrovo per bisognosi situato nei pressi di una chiesa di quartiere. Trascorsi pochi giorni la comune viene assalita e incendiata dalle forze dell’ordine, la sequenza della barbarie viene girata quasi in chiave documentarista, inscenando crudeli pestaggi con la pungente estetica propria di Carpenter. Successivamente alla nefandezza commessa dalla forza pubblica, John reperisce degli occhiali che mostrano il mondo per ciò che è davvero, un luogo miseramente grigio governato da orribili creature con le fattezze di non morti.
Carpenter rappresenta un'umanità sull’orlo dell’estinzione, un sacrificio di comuni in favore di vertici politici, emblematiche le scritte degli infissi pubblicitari: non svegliatevi, proliferate, consumate, non fate domande alle autorità, guardate la TV. L’autore attacca ferocemente caste abbienti e forme di governo, considerando i loro componenti come esseri mostruosi incapaci di provare compassione per la condizione umana, tanto da elevarsi a un ceto superiore. They Live, oltre a rappresentare un’opera di forte stampo politico, indaga sulla natura dell’essere umano sottomesso, il personaggio di Drifter (interpretato da George Buck Flower) ne è emblema. Drifter si presenta come un uomo distinto, elegante, apparentemente agiato e accettato dalle forme di vita aliene padrone del nostro mondo. Carpenter se ne serve per raffigurare l’uomo debole e arrendevole, facilmente ammaliabile dalle classi superiori tramite l'illusione di poter raggiungere un rango elevato. La condizione di Drifter è incastrata in un limbo da cui è impossibile uscire. Nel monumentale roster dell'operato carpenteriano They Live riveste la funzione di pellicola esplicitamente battagliera riguardo i sistemi governativi americani, un'opera maestra tutt’ora estremamente attuale.
Le pellicole successive all’88 (eccezion fatta per In the Mouth of Madness) non raggiungeranno più gli standard qualitativi dei capolavori passati e la carriera dell’autore (nei panni di regista) tramonterà definitivamente con The Ward (2010), godibile lungometraggio horror. Ma l'eredità regalata da Carpenter alla Storia del Cinema fa scuola ancora oggi, rendendolo uno dei registi più influenti della sua generazione. Cinema di protesta, anarchico e mai scialbo, il tentativo di un lungimirante anticonformista che ha cercato, tramite ogni mezzo inerente alla Settima Arte, di svegliare la coscienza di massa. Il mondo necessita di autori pronti a denunciare realtà oscure in favore delle minoranze, artisti incapaci di ignorare il disagio che li circonda, in altre parole, c’è, ancora (e sopratutto) oggi un concreto bisogno di John Carpenter.
They Live (Essi vivono, 1988)