INT-21
26.02.2023
Al festival di Berlino abbiamo avuto l’occasione di fare quattro chiacchiere con Soi Cheang, cineasta che si colloca nel fulcro del cinema d’azione di Hong Kong. Nella sua pluridecennale carriera il regista ha affrontato svariati generi con una predilezione per il crime d’azione, di cui sono esempi perfetti Dog bite dog (2006), Accident, presentato in concorso a Venezia 2009, e Motorway (2012). Più recentemente ha firmato la saga blockbuster/fantasy The Monkey King (2014-2018 ), mentre, nel 2021, ha presentato alla Berlinale Limbo, una detective story girata in bianco e nero.
Quest’anno è tornato al festival di Berlino con Mad fate (Ming on), film che si allontana da un vero e proprio genere per inserirsi tra la commedia nera, il thriller e l'horror. La storia racconta di un veggente che prevede un futuro infausto per un ragazzo tormentato. L'uomo cercherà in ogni modo di aiutare il giovane ad evitare il proprio destino, combattendo contro forze che sembrano continuamente remare contro di lui.
Considerando che è l’argomento centrale del film, secondo lei il destino è qualcosa di inevitabile o può essere cambiato?
Io credo nel destino, certo, ma credo che quando le persone ne parlano lo fanno in termini pessimisti. Per me, le cose che ci sembrano sbagliate avvengono al momento giusto. Il problema è che se ci si focalizza esclusivamente sui fatti negativi non si possono vedere le cose positive che avverranno successivamente. Il destino è fuori dal nostro controllo ma possiamo scegliere quale attitudine assumere nei confronti di esso.
Ha affermato di aver avuto avuto difficoltà in fase di lavorazione, come mai?
In questo film sono racchiusi moltissimi generi, ogni scena sembra avere un suo stile distinto. È molto diverso dalle mie opere precedenti, per esempio in Limbo c’era una coesistenza di fondo, ma in Mad fate è stato difficile fare lo stesso. All’inizio ho provato a fare il film seguendo un unico stile, ma poi mi sono reso conto che ogni scena doveva avere una sua identità. Questo mi ha esaurito, era come tirare pugni a vuoto, non c’era nulla che potevo fare. Era molto doloroso. Ne ho discusso con lo sceneggiatore e mi sono reso conto che stavo creando un film non convenzionale, qualcosa di sperimentale. Ho deciso di lasciarmi andare e fare del mio meglio senza preoccuparmi del genere, non aveva più importanza, come non ne aveva il finale. Ci siamo incamminati lungo il percorso passo dopo passo insieme al cast.
Quindi, ha dovuto rigirare parte del film per abbandonare lo stile originale?
Si. Era l’unico modo per farlo.
Nel compartimento sonoro ci sono due leitmotiv: l’incipit della quinta di Beethoven e la marcia che si sente ne Il ponte sul fiume Kwai di David Lean. Come mai queste scelte?
Ho usato quel brano di Beethoven perché nella sinfonia è incluso un altro movimento che riguarda il destino. L’ho trovato adatto per le scene, ha un tocco molto drammatico, poteva costruire bene l’atmosfera delle sequenze in cui lo udiamo. La marcia invece è frutto di una coincidenza, è entrata nel film quasi per magia. Non era originalmente prevista, ma quando abbiamo girato la scena nel quale il maestro veggente trasporta il ragazzo in ospedale, ho chiesto all'attore Ka Tung di canticchiare qualcosa, e lui ha improvvisato questa melodia. Funzionava perfettamente e lo abbiamo usato nel film, penso che dia una forte energia perché è una marcia da soldati, ricorda molto l’idea del combattimento, proprio come il personaggio combatte contro il destino, come se fosse la sua missione. Abbiamo messo il brano anche verso la fine, per rappresentare lo scontro che il ragazzo avrà poi con la propria vita.
Sia in Limbo che in questo film troviamo delle figure di serial killer. Come mai le interessano questi tipi di personaggi?
Sono sempre interessato a comprendere in che modo la mente di queste persone differisce dalla normalità, cosa li porta ad avere questi istinti omicidi. Il killer è un topos del cinema commerciale di Hong Kong, ma io personalmente sono semplicemente curioso della diversità di questi personaggi.
Nella sua carriera si è giostrato spesso tra generi molto diversi, dal crime al fantasy, come la saga di The Monkey King.
É un mio trauma! La saga di The Monkey King, sinceramente, non mi ha permesso di allargare i miei orizzonti, ma mi ha aiutato nella mia carriera come regista, perché erano dei blockbuster. Fa parte della mia personalità. Per essere un regista, a volte, bisogna essere in grado di fare qualcosa che non ti piace molto, ma che comunque ti serve. Un regista deve provare a rendere un film funzionante a prescindere.
Ha spesso parlato di Johnnie To (importante regista e produttore) come suo mentore. Come descriverebbe il vostro rapporto?
È una persona molto importante per la mia carriera. L’ho conosciuto in un periodo in cui mi sentivo perso. All’epoca, Johnny mi ha proposto di produrre un film per me. Per questo mi sono unito alla Milky Way Image (casa di produzione che alla fine degli anni Novanta rivoluzionò il cinema di Hong Kong, n.d.r). I miei migliori anni sono stati da loro. To non si è mai imposto sulla mia visione e sulla creazione delle mie storie, piuttosto ha condiviso molto con me riguardo i suoi orizzonti e i suoi punti di vista sul fare cinema, su Kurosawa e Coppola. Ho beneficiato molto di Johnnie. Non molte case di produzione concedono così tanto rispetto ad un’artista come fa la Milky Way Image, o addirittura permettono, a volte, di rifare il film o di prendere decisioni all’ultimo momento per riconcepirlo. Mad fate, per esempio, era già nella fase del missaggio finale quando abbiamo deciso di abbandonare il genere, perché l’azienda ce l’ha concesso, ed io apprezzo molto Johnnie e la Milky Way per questo.
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26.02.2023
Al festival di Berlino abbiamo avuto l’occasione di fare quattro chiacchiere con Soi Cheang, cineasta che si colloca nel fulcro del cinema d’azione di Hong Kong. Nella sua pluridecennale carriera il regista ha affrontato svariati generi con una predilezione per il crime d’azione, di cui sono esempi perfetti Dog bite dog (2006), Accident, presentato in concorso a Venezia 2009, e Motorway (2012). Più recentemente ha firmato la saga blockbuster/fantasy The Monkey King (2014-2018 ), mentre, nel 2021, ha presentato alla Berlinale Limbo, una detective story girata in bianco e nero.
Quest’anno è tornato al festival di Berlino con Mad fate (Ming on), film che si allontana da un vero e proprio genere per inserirsi tra la commedia nera, il thriller e l'horror. La storia racconta di un veggente che prevede un futuro infausto per un ragazzo tormentato. L'uomo cercherà in ogni modo di aiutare il giovane ad evitare il proprio destino, combattendo contro forze che sembrano continuamente remare contro di lui.
Considerando che è l’argomento centrale del film, secondo lei il destino è qualcosa di inevitabile o può essere cambiato?
Io credo nel destino, certo, ma credo che quando le persone ne parlano lo fanno in termini pessimisti. Per me, le cose che ci sembrano sbagliate avvengono al momento giusto. Il problema è che se ci si focalizza esclusivamente sui fatti negativi non si possono vedere le cose positive che avverranno successivamente. Il destino è fuori dal nostro controllo ma possiamo scegliere quale attitudine assumere nei confronti di esso.
Ha affermato di aver avuto avuto difficoltà in fase di lavorazione, come mai?
In questo film sono racchiusi moltissimi generi, ogni scena sembra avere un suo stile distinto. È molto diverso dalle mie opere precedenti, per esempio in Limbo c’era una coesistenza di fondo, ma in Mad fate è stato difficile fare lo stesso. All’inizio ho provato a fare il film seguendo un unico stile, ma poi mi sono reso conto che ogni scena doveva avere una sua identità. Questo mi ha esaurito, era come tirare pugni a vuoto, non c’era nulla che potevo fare. Era molto doloroso. Ne ho discusso con lo sceneggiatore e mi sono reso conto che stavo creando un film non convenzionale, qualcosa di sperimentale. Ho deciso di lasciarmi andare e fare del mio meglio senza preoccuparmi del genere, non aveva più importanza, come non ne aveva il finale. Ci siamo incamminati lungo il percorso passo dopo passo insieme al cast.
Quindi, ha dovuto rigirare parte del film per abbandonare lo stile originale?
Si. Era l’unico modo per farlo.
Nel compartimento sonoro ci sono due leitmotiv: l’incipit della quinta di Beethoven e la marcia che si sente ne Il ponte sul fiume Kwai di David Lean. Come mai queste scelte?
Ho usato quel brano di Beethoven perché nella sinfonia è incluso un altro movimento che riguarda il destino. L’ho trovato adatto per le scene, ha un tocco molto drammatico, poteva costruire bene l’atmosfera delle sequenze in cui lo udiamo. La marcia invece è frutto di una coincidenza, è entrata nel film quasi per magia. Non era originalmente prevista, ma quando abbiamo girato la scena nel quale il maestro veggente trasporta il ragazzo in ospedale, ho chiesto all'attore Ka Tung di canticchiare qualcosa, e lui ha improvvisato questa melodia. Funzionava perfettamente e lo abbiamo usato nel film, penso che dia una forte energia perché è una marcia da soldati, ricorda molto l’idea del combattimento, proprio come il personaggio combatte contro il destino, come se fosse la sua missione. Abbiamo messo il brano anche verso la fine, per rappresentare lo scontro che il ragazzo avrà poi con la propria vita.
Sia in Limbo che in questo film troviamo delle figure di serial killer. Come mai le interessano questi tipi di personaggi?
Sono sempre interessato a comprendere in che modo la mente di queste persone differisce dalla normalità, cosa li porta ad avere questi istinti omicidi. Il killer è un topos del cinema commerciale di Hong Kong, ma io personalmente sono semplicemente curioso della diversità di questi personaggi.
Nella sua carriera si è giostrato spesso tra generi molto diversi, dal crime al fantasy, come la saga di The Monkey King.
É un mio trauma! La saga di The Monkey King, sinceramente, non mi ha permesso di allargare i miei orizzonti, ma mi ha aiutato nella mia carriera come regista, perché erano dei blockbuster. Fa parte della mia personalità. Per essere un regista, a volte, bisogna essere in grado di fare qualcosa che non ti piace molto, ma che comunque ti serve. Un regista deve provare a rendere un film funzionante a prescindere.
Ha spesso parlato di Johnnie To (importante regista e produttore) come suo mentore. Come descriverebbe il vostro rapporto?
È una persona molto importante per la mia carriera. L’ho conosciuto in un periodo in cui mi sentivo perso. All’epoca, Johnny mi ha proposto di produrre un film per me. Per questo mi sono unito alla Milky Way Image (casa di produzione che alla fine degli anni Novanta rivoluzionò il cinema di Hong Kong, n.d.r). I miei migliori anni sono stati da loro. To non si è mai imposto sulla mia visione e sulla creazione delle mie storie, piuttosto ha condiviso molto con me riguardo i suoi orizzonti e i suoi punti di vista sul fare cinema, su Kurosawa e Coppola. Ho beneficiato molto di Johnnie. Non molte case di produzione concedono così tanto rispetto ad un’artista come fa la Milky Way Image, o addirittura permettono, a volte, di rifare il film o di prendere decisioni all’ultimo momento per riconcepirlo. Mad fate, per esempio, era già nella fase del missaggio finale quando abbiamo deciso di abbandonare il genere, perché l’azienda ce l’ha concesso, ed io apprezzo molto Johnnie e la Milky Way per questo.