di Bianca Susi
NC-39
01.12.2020
È possibile riassumere un anno di cinema in poche righe? In questo secondo appuntamento vi raccontiamo il 1962.
È sempre difficile accorgersi dell’importanza che alcuni film avranno nel momento in cui escono, è difficile capire cosa segnerà una generazione intera e cosa scomparirà dopo un picco di fama iniziale. Probabilmente un cinefilo qualsiasi nel 1962 non si rendeva conto di star vivendo il periodo d’oro che tutti noi, nuovi cinefili, avremmo voluto vivere: sono passati due anni dal 1960, anno che spacca la storia del cinema a metà, in cui escono film come La dolce vita, Psycho e Fino all’ultimo respiro che avrebbero cambiato per sempre la figura del regista, che diventa autore, e quella dello spettatore, non più guidato per mano dal montaggio classico ma chiamato a partecipare in modo più critico alla visione.
Senza dover andare troppo lontano, durante il nostro viaggio nel 1962, passeggiando per il Lido di Venezia, durante la 23° edizione della Mostra del cinema, avremmo potuto tranquillamente incontrare Jean-Luc Godard che chiacchiera con Pasolini, Kubrick e Welles che bevono uno spritz all’Hotel Excelsior e un appena diplomato Andrej Tarkovskij. La giuria di questa edizione, guidata da Luigi Chiarini, dovette scegliere un film vincitore tra una serie di capolavori indiscussi. Stanley Kubrick presentava Lolita, film estremamente controverso che racconta la storia d’amore tra un insegnante di mezza età e una dodicenne, tratto da un romanzo di Nabokov, che fu anche lo sceneggiatore del film. Kubrick dovette rimettere mano alla sceneggiatura per avere meno problemi possibili con il codice Hays, optando per una regia furba che racconta la tensione erotica senza effettivamente mostrarla sullo schermo. Due sono gli esordi importanti di questa edizione: Roman Polanski con Il coltello nell’acqua, con cui il regista polacco si aggiudicherà la sua prima nomination agli oscar come miglior film straniero due anni dopo, e il già citato Andrej Tarkovskij, che presentava il suo primo lungometraggio L’infanzia di Ivan vincendo il Leone d’oro ex aequo con l’italiano Cronaca Familiare di Valerio Zurlini. Andò via dal Lido a mani vuote Mamma Roma di Pasolini, film che continua il viaggio dell’autore per le borgate romane iniziato con Accattone, ma studiandone stavolta l’umanità sofferente da un punto di vista femminile. Anna Magnani, unica attrice professionista, è una prostituta che cerca in tutti i modi di cambiare vita per garantire un futuro migliore al figlio Ettore: seguendo i racconti falsati ed esuberanti di Mamma Roma ci spostiamo da una Roma bene notturna ad una Roma periferica assolata e casa del proletariato. Welles partecipava con Il processo, forse l’unico film insieme a Quarto potere che incarna la volontà del regista, basato sul romanzo di Kafka. Anche questo film come molti dei precedenti ebbe dei problemi a livello produttivo che portarono il regista a girarlo in Europa, completamente al di fuori degli schemi hollywoodiani. Ultimo, ma non per importanza, è necessario citare Vivre sa vie di Jean-Luc Godard, premiato con il leone d’argento. Il film racconta in 12 quadri la vita di Nanà che per vivere è costretta a entrare nel giro della prostituzione parigina nonostante il suo sogno sia quello di fare l’attrice. Godard ci regala un piccolo capolavoro della appena nata Nouvelle Vague, e ragiona sulle possibilità del linguaggio cinematografico creandone uno rapido e immediato che cita il passato esplorando nuove forme non lineari di narrazione.
Circa tre mesi prima della Mostra internazionale del cinema di Venezia, anche il Festival di Cannes, alla sua 15° edizione, aveva avuto una programmazione entusiasmante. Importante fu sicuramente la partecipazione italiana sulla croisette. In concorso nel 1962 infatti avremmo trovato L’eclisse, capitolo finale, dopo L’avventura (1960) e La notte (1961), della trilogia dell’incomunicabilità di Antonioni: l’autore esplora, anche in questo capitolo, la crisi esistenziale della protagonista (sempre Monica Vitti) passando da momenti di frenesia e di estremo materialismo, come le scene alla borsa di Roma, ai silenzi tipici della “noia” antonioniana che riflettono la solitudine e la malinconia dei personaggi. Il film vinse, ex aequo con il Processo a Giovanna d’Arco di Bresson, il premio speciale della giuria. Fu presente a Cannes anche Pietro Germi con Divorzio all’italiana, un film che canonicamente si considera del 1961, premiato come miglior commedia. Da un’idea di Cesare Zavattini nacque Boccaccio ’70, presentato fuori concorso, un film composto da quattro episodi diretti da quattro grandi nomi del cinema italiano: Monicelli, Fellini, Visconti e De Sica. Ispirandosi alle novelle di Boccaccio, i quattro autori mostrano il loro punto di vista sulla liberalizzazione dei costumi, il boom economico e i cambiamenti degli anni ‘60. Passarono inosservati, in questa edizione, due film decisamente meritevoli di attenzione: L’angelo sterminatore di Buñuel e Cleo dalle 5 alle 7 di Agnès Varda. Buñuel, fresco della vittoria dell’anno precedente con Viridiana, portava un film che non potrebbe sembrarci più attuale in una pandemia: un gruppo di eleganti borghesi, dopo una serata a teatro, non riescono più ad uscire dalla casa dove si sono riuniti. Al centro di questo film c’è sicuramente l’esplorazione della realtà borghese e la sua rappresentazione satirica che qui arriva all’esasperazione: le buone maniere vengono totalmente stravolte dalla prigionia e gli invitati perdono giorno dopo giorno il loro tanto amato bon ton trasformandosi completamente; il film è inoltre pieno di riferimenti biblici già a partire dal titolo e mantiene un forte collegamento con il surrealismo. Cleo dalle 5 alle 7 è, a mio avviso, una piccola perla della cinematografia francese; il film, che si ritiene appartenga alla rive gauche della Nouvelle Vague, anche se la regista non amava le etichette, ci mostra, con una profonda sensibilità, il rapporto tra lo scorrere del tempo oggettivo e il tempo soggettivo che sembra non passare mai, quando si aspetta una notizia che ti cambia la vita come la conferma o la smentita di una malattia. Avviene quindi una sospensione temporale senza una dilatazione del tempo: per due ore seguiamo la protagonista Cleo in tutto quello che fa, senza tagli, riprendendo l’idea della ripresa dei tempi morti di stampo antonioniano, il tutto illuminato da una costante dialettica tra bianco e nero dove la bellezza è il nero e la luce accecante del bianco è la morte. L’ultimo film che vale la pena citare è un film brasiliano: La parola data di Anselmo Duarte, vincitore della Palma d’oro.
Negli Stati Uniti nel 1962 spiccò il kolossal diretto da David Lean Lawrence d’Arabia, vincitore di 7 Oscar tra cui quello di miglior film. È un cult a tutti gli effetti che riesce a combinare perfettamente le caratteristiche spettacolari del kolossal storico-politico ad una rappresentazione psicologica veritiera del personaggio: l’eroe mantiene delle ambiguità, non è perfetto. Vincitore di tre premi Oscar fu Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan tratto dal romanzo omonimo di Harper Lee: qui Mulligan, riprendendo le atmosfere classiche degli anni ‘30, crea un film sempre attuale sul tema della lotta al razzismo. John Ford nel 1962 realizzò L’uomo che uccise Liberty Valance, ad oggi considerato uno dei migliori film western e uno dei capolavori di Ford; il film, in bianco e nero, è un western crepuscolare che affronta la fine del vecchio West in un epoca in cui il periodo d’oro del western sembrava ormai finito. Infine è importante citare Che fine ha fatto Baby Jane? di Robert Aldrich, un thriller dal gusto gotico che riceve 5 nomination ma una sola statuetta per il miglior costume, ma si ricorda per le grandissime interpretazioni di Bette Davis, ad oggi considerata una delle migliori interpreti della storia del cinema, e di Joan Crawford, due attrici passate alla storia per la rivalità e l’astio che le separavano nella storia così come sul set.
Al di fuori della realtà dei festival è necessario soffermarsi su altri tre titoli che non possono essere trascurati: Jules et Jim, Il gusto del sakè e Il sorpasso.
Jules e Jim, tratto dal romanzo di Henri-Pierre Roché, è uno dei film più importanti di Truffaut e una delle pellicole più significative del movimento della Nouvelle Vague. Il film porta sulla scena il triangolo per eccellenza, due uomini e una donna, che sarà ripreso in molti film successivi (ad esempio The Dreamers di Bertolucci). Truffaut lo definisce “un inno alla vita e alla morte” che guarda al futuro ma allo stesso tempo omaggia il passato con l’ambientazione negli anni ‘10. Il gusto del sakè è l’ultimo film del grande maestro giapponese Yasujirō Ozu che morì un anno dopo l’uscita del film. La pellicola tratta dei temi cari all’autore e già precedentemente esplorati: la disgregazione della famiglia giapponese e l’allontanamento della società dalle sue tradizioni. Ozu mantenne fino all’ultimo la sua firma registica: la macchina da presa statica, il tatami shot e l’obiettivo con una focale di 50mm che mantiene una visione il più possibile simile alla visione dell’occhio umano sulla storia, stavolta a colori. Quasi a chiudere l’anno, il 5 dicembre del 1962 uscì nelle sale italiane Il sorpasso di Dino Risi, considerato il capolavoro del regista e uno dei massimi esempi della commedia all’italiana. L’accoglienza non fu subito ottima, ma crebbe grazie al passaparola degli spettatori fino a diventare un fenomeno di culto in America dove Dennis Hopper lo prese come ispirazione per il suo Easy Rider considerandolo il capostipite dei road movie. La frenesia del viaggio, scandita dal rumore del clacson suonato dal personaggio di Gassman, nasconde sotto comicità una forte componente di critica sociale e una perfetta rappresentazione della realtà italiana del benessere e del miracolo economico.
di Bianca Susi
NC-39
01.12.2020
È possibile riassumere un anno di cinema in poche righe? In questo secondo appuntamento vi raccontiamo il 1962.
È sempre difficile accorgersi dell’importanza che alcuni film avranno nel momento in cui escono, è difficile capire cosa segnerà una generazione intera e cosa scomparirà dopo un picco di fama iniziale. Probabilmente un cinefilo qualsiasi nel 1962 non si rendeva conto di star vivendo il periodo d’oro che tutti noi, nuovi cinefili, avremmo voluto vivere: sono passati due anni dal 1960, anno che spacca la storia del cinema a metà, in cui escono film come La dolce vita, Psycho e Fino all’ultimo respiro che avrebbero cambiato per sempre la figura del regista, che diventa autore, e quella dello spettatore, non più guidato per mano dal montaggio classico ma chiamato a partecipare in modo più critico alla visione.
Senza dover andare troppo lontano, durante il nostro viaggio nel 1962, passeggiando per il Lido di Venezia, durante la 23° edizione della Mostra del cinema, avremmo potuto tranquillamente incontrare Jean-Luc Godard che chiacchiera con Pasolini, Kubrick e Welles che bevono uno spritz all’Hotel Excelsior e un appena diplomato Andrej Tarkovskij. La giuria di questa edizione, guidata da Luigi Chiarini, dovette scegliere un film vincitore tra una serie di capolavori indiscussi. Stanley Kubrick presentava Lolita, film estremamente controverso che racconta la storia d’amore tra un insegnante di mezza età e una dodicenne, tratto da un romanzo di Nabokov, che fu anche lo sceneggiatore del film. Kubrick dovette rimettere mano alla sceneggiatura per avere meno problemi possibili con il codice Hays, optando per una regia furba che racconta la tensione erotica senza effettivamente mostrarla sullo schermo. Due sono gli esordi importanti di questa edizione: Roman Polanski con Il coltello nell’acqua, con cui il regista polacco si aggiudicherà la sua prima nomination agli oscar come miglior film straniero due anni dopo, e il già citato Andrej Tarkovskij, che presentava il suo primo lungometraggio L’infanzia di Ivan vincendo il Leone d’oro ex aequo con l’italiano Cronaca Familiare di Valerio Zurlini. Andò via dal Lido a mani vuote Mamma Roma di Pasolini, film che continua il viaggio dell’autore per le borgate romane iniziato con Accattone, ma studiandone stavolta l’umanità sofferente da un punto di vista femminile. Anna Magnani, unica attrice professionista, è una prostituta che cerca in tutti i modi di cambiare vita per garantire un futuro migliore al figlio Ettore: seguendo i racconti falsati ed esuberanti di Mamma Roma ci spostiamo da una Roma bene notturna ad una Roma periferica assolata e casa del proletariato. Welles partecipava con Il processo, forse l’unico film insieme a Quarto potere che incarna la volontà del regista, basato sul romanzo di Kafka. Anche questo film come molti dei precedenti ebbe dei problemi a livello produttivo che portarono il regista a girarlo in Europa, completamente al di fuori degli schemi hollywoodiani. Ultimo, ma non per importanza, è necessario citare Vivre sa vie di Jean-Luc Godard, premiato con il leone d’argento. Il film racconta in 12 quadri la vita di Nanà che per vivere è costretta a entrare nel giro della prostituzione parigina nonostante il suo sogno sia quello di fare l’attrice. Godard ci regala un piccolo capolavoro della appena nata Nouvelle Vague, e ragiona sulle possibilità del linguaggio cinematografico creandone uno rapido e immediato che cita il passato esplorando nuove forme non lineari di narrazione.
Circa tre mesi prima della Mostra internazionale del cinema di Venezia, anche il Festival di Cannes, alla sua 15° edizione, aveva avuto una programmazione entusiasmante. Importante fu sicuramente la partecipazione italiana sulla croisette. In concorso nel 1962 infatti avremmo trovato L’eclisse, capitolo finale, dopo L’avventura (1960) e La notte (1961), della trilogia dell’incomunicabilità di Antonioni: l’autore esplora, anche in questo capitolo, la crisi esistenziale della protagonista (sempre Monica Vitti) passando da momenti di frenesia e di estremo materialismo, come le scene alla borsa di Roma, ai silenzi tipici della “noia” antonioniana che riflettono la solitudine e la malinconia dei personaggi. Il film vinse, ex aequo con il Processo a Giovanna d’Arco di Bresson, il premio speciale della giuria. Fu presente a Cannes anche Pietro Germi con Divorzio all’italiana, un film che canonicamente si considera del 1961, premiato come miglior commedia. Da un’idea di Cesare Zavattini nacque Boccaccio ’70, presentato fuori concorso, un film composto da quattro episodi diretti da quattro grandi nomi del cinema italiano: Monicelli, Fellini, Visconti e De Sica. Ispirandosi alle novelle di Boccaccio, i quattro autori mostrano il loro punto di vista sulla liberalizzazione dei costumi, il boom economico e i cambiamenti degli anni ‘60. Passarono inosservati, in questa edizione, due film decisamente meritevoli di attenzione: L’angelo sterminatore di Buñuel e Cleo dalle 5 alle 7 di Agnès Varda. Buñuel, fresco della vittoria dell’anno precedente con Viridiana, portava un film che non potrebbe sembrarci più attuale in una pandemia: un gruppo di eleganti borghesi, dopo una serata a teatro, non riescono più ad uscire dalla casa dove si sono riuniti. Al centro di questo film c’è sicuramente l’esplorazione della realtà borghese e la sua rappresentazione satirica che qui arriva all’esasperazione: le buone maniere vengono totalmente stravolte dalla prigionia e gli invitati perdono giorno dopo giorno il loro tanto amato bon ton trasformandosi completamente; il film è inoltre pieno di riferimenti biblici già a partire dal titolo e mantiene un forte collegamento con il surrealismo. Cleo dalle 5 alle 7 è, a mio avviso, una piccola perla della cinematografia francese; il film, che si ritiene appartenga alla rive gauche della Nouvelle Vague, anche se la regista non amava le etichette, ci mostra, con una profonda sensibilità, il rapporto tra lo scorrere del tempo oggettivo e il tempo soggettivo che sembra non passare mai, quando si aspetta una notizia che ti cambia la vita come la conferma o la smentita di una malattia. Avviene quindi una sospensione temporale senza una dilatazione del tempo: per due ore seguiamo la protagonista Cleo in tutto quello che fa, senza tagli, riprendendo l’idea della ripresa dei tempi morti di stampo antonioniano, il tutto illuminato da una costante dialettica tra bianco e nero dove la bellezza è il nero e la luce accecante del bianco è la morte. L’ultimo film che vale la pena citare è un film brasiliano: La parola data di Anselmo Duarte, vincitore della Palma d’oro.
Negli Stati Uniti nel 1962 spiccò il kolossal diretto da David Lean Lawrence d’Arabia, vincitore di 7 Oscar tra cui quello di miglior film. È un cult a tutti gli effetti che riesce a combinare perfettamente le caratteristiche spettacolari del kolossal storico-politico ad una rappresentazione psicologica veritiera del personaggio: l’eroe mantiene delle ambiguità, non è perfetto. Vincitore di tre premi Oscar fu Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan tratto dal romanzo omonimo di Harper Lee: qui Mulligan, riprendendo le atmosfere classiche degli anni ‘30, crea un film sempre attuale sul tema della lotta al razzismo. John Ford nel 1962 realizzò L’uomo che uccise Liberty Valance, ad oggi considerato uno dei migliori film western e uno dei capolavori di Ford; il film, in bianco e nero, è un western crepuscolare che affronta la fine del vecchio West in un epoca in cui il periodo d’oro del western sembrava ormai finito. Infine è importante citare Che fine ha fatto Baby Jane? di Robert Aldrich, un thriller dal gusto gotico che riceve 5 nomination ma una sola statuetta per il miglior costume, ma si ricorda per le grandissime interpretazioni di Bette Davis, ad oggi considerata una delle migliori interpreti della storia del cinema, e di Joan Crawford, due attrici passate alla storia per la rivalità e l’astio che le separavano nella storia così come sul set.
Al di fuori della realtà dei festival è necessario soffermarsi su altri tre titoli che non possono essere trascurati: Jules et Jim, Il gusto del sakè e Il sorpasso.
Jules e Jim, tratto dal romanzo di Henri-Pierre Roché, è uno dei film più importanti di Truffaut e una delle pellicole più significative del movimento della Nouvelle Vague. Il film porta sulla scena il triangolo per eccellenza, due uomini e una donna, che sarà ripreso in molti film successivi (ad esempio The Dreamers di Bertolucci). Truffaut lo definisce “un inno alla vita e alla morte” che guarda al futuro ma allo stesso tempo omaggia il passato con l’ambientazione negli anni ‘10. Il gusto del sakè è l’ultimo film del grande maestro giapponese Yasujirō Ozu che morì un anno dopo l’uscita del film. La pellicola tratta dei temi cari all’autore e già precedentemente esplorati: la disgregazione della famiglia giapponese e l’allontanamento della società dalle sue tradizioni. Ozu mantenne fino all’ultimo la sua firma registica: la macchina da presa statica, il tatami shot e l’obiettivo con una focale di 50mm che mantiene una visione il più possibile simile alla visione dell’occhio umano sulla storia, stavolta a colori. Quasi a chiudere l’anno, il 5 dicembre del 1962 uscì nelle sale italiane Il sorpasso di Dino Risi, considerato il capolavoro del regista e uno dei massimi esempi della commedia all’italiana. L’accoglienza non fu subito ottima, ma crebbe grazie al passaparola degli spettatori fino a diventare un fenomeno di culto in America dove Dennis Hopper lo prese come ispirazione per il suo Easy Rider considerandolo il capostipite dei road movie. La frenesia del viaggio, scandita dal rumore del clacson suonato dal personaggio di Gassman, nasconde sotto comicità una forte componente di critica sociale e una perfetta rappresentazione della realtà italiana del benessere e del miracolo economico.