NC-125
06.09.2022
Un gruppetto di anziani abbandona la Sala Grande in una mattina di Settembre 2022. Non sono da incolpare l’aria condizionata alla giusta temperatura, le poltrone piuttosto comode, neanche il pubblico silente e rispettoso. Un dito improvvisamente maciullato e masticato, sullo schermo, questa la causa, in apertura di Bones e All, il titolo più atteso di questa attesissima Settantanovesima Mostra del Cinema di Venezia.
“Ma non doveva essere una storia di amore?”. Si, lo è: un amore emarginato e sofferto, formativo e un po’ pulp! In fondo, l’ultimo film di Luca Guadagnino ci insegna che ci si può commuovere anche davanti ad un film di cannibali. Penso riassuma al meglio il punctum della mostra che, giunta al giro di boa, inizia a rivelare vagamente la sua prospettiva d’insieme.
Gli antieroi veneziani quest’anno sono scissi tra pulsione e morale, rapiti da amori indissolubilmente intrecciati alla morte, in bilico tra il sudiciume nichilista e il sublime bucolico, tra il tragico e lo scanzonato, la monumentalità storica e la delicatezza intimista. Insomma, la rosa dei film visti fino ad ora amano giocare con quello che la Lydia Tàr straordinariamente portata in scena da Cate Blanchett, definirebbe “contrappunto”. Ovvero, il gusto del conflitto stilistico, o almeno della messa in discussione dello conosciuto e del prevedibile.
Ad esempio, nessuno si aspettava da un film come Tàr di Todd Field questa stoica a-musicalità adottata in favore di una proliferazione di dialoghi fluida e colta, che unisce lo spazio-tempo della scena, e neanche il machismo tossico che aggalla narrativamente da un film il cui cast principale è quasi totalmente femminile.
Blanchett regala una performance mimetica, appassionata, solidissima ma non è l’unica interprete a svettare sul film che porta al Lido. Non possiamo non parlare di Brendan Fraser, iconico volto blockbuster di inizio anni duemila, dimenticato dal tritacarne Hollywoodiano che in The Whale risorge artisticamente con una performance delicatamente sofferta, a cui seguono sei meritati minuti di applausi scroscianti in Sala Grande.
Ad oggi, è lui a contendersi la Coppa Volpi con il misurato Ricardo Darìn, asse portante dell’acclamato Argentina, 1985. Anche il film di Santiago Mitre profana il genere e sorprende per il suo alternare, con misura, solennità storica e demistificazione da comedy familiare.
Se l’anno scorso titoli come Dune, Last Night in Soho, The Last Duel raccontavano di una Mostra che pareva voler tornare ad ammiccare ai vecchi generi, quest’anno, pur ritrovando la qualità dell’edizione passata, pare che la linea espressiva sia più da associare all’approccio pseudo-sperimentale di Spencer: dramma intimista, biopic e infine horror citazionista.
Come in Larrain, si discutono i comodi archetipi di categoria, ci si divincola da una chiara collocazione e, a volte, dalle abitudini consolidate di carriere già mature. È il caso, ad esempio, del maestro del documentario Frederick Wiseman che, a novantadue anni, porta al Lido il suo primo film di finzione, Un Couple: un film poetico dai toni umbratili che ha deluso molti, girato in pandemia con mezzi ridotti e una sola attrice davanti alla sua esperta macchina da presa. Come nel suo caso, sembra che questa edizione si ponga come occasione per un cambio di prospettiva per diverse carriere autoriali. Su tutte, la svolta lirico-felliniana - forse eccessivamente auto-referenziale - del Bardo di Alejandro González Iñárritu, ma anche la nuova e contrita misura compositiva di Darren Aronofsky, la postmoderna deviazione euforico-allucinata del dato visivo in White Noise di Baumabach, che qui adatta DeLillo.
In qualche modo, ci si allontana dalla confort zone; e vale anche per il pubblico che, tra una prenotazione isterica sul cellulare, causata del servizio Vivaticket, uno sguardo predatorio al red carpet e un sorso di Spritz, ripete frequentemente “Non me l’aspettavo così”. Ma, come è noto, la critica non si fa coi se e coi ma, ed è importante che uno splendido novantenne come il Festival del Cinema di Venezia, scomodi entrambi regista e spettatore, pungolandoli verso la possibilità di un cinema nuovo, che si evolve e mette in discussione ogni anno le sue abitudini più consolidate.
Detto ciò, non si può negare che ci siano state rassicuranti riconferme, rincuoranti come una tazza di latte caldo nella notte. In attesa dell’esordiente Diop, del domestico Zeller, del ciclone Blonde, del duello Hogg-Swinton, del corale Virzì, dell’ultimo Kim Ki-Duk e del decano Walter Hill, una delle grandi certezze è stato Paul Schrader (quest’anno Leone D’oro alla carriera come l’attrice Catherine Deneuve) che, con il suo Master Gardener chiude la sua trilogia con classe ed estrema coerenza narrativo-tematica.
Inutile nascondere, tuttavia, che il fresco colpo di fulmine di questa edizione è l’assurdità delle vicende tragico-bambinesche dell’insulare The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh, - arrivato al Lido insieme alla compagna Phoebe Waller-Bridge - una sorprendente dramedy psicologica, scritta in modo vibrante, girata con eleganza, di cui è saggio anticipare poco. Oltre che per il film con Colin Farrel e Brendan Gleeson, scroscianti apprezzamenti anche per Athena di Romain Gavras: film di guerriglia urbana girato in modo sontuoso e scritto combinando tenerezza e muscolarità. Altre ottime riconferme sono Laura Poitras e il suo cinema politico che torna al Lido con una nuova battaglia, quella della fotografa statunitense Nan Goldin. All the Beauty and the Bloodshed, unico documentario in concorso, è una delle opere più avvincenti di questa edizione. Inorgoglisce la crescita espressiva del veneto Andrea Pallaoro che con Monica, nonostante le bocche storte di buona parte della critica italiana, delinea un modo essenziale e raffinato di raccontare il dramma familiare, senza colpi di teatrale stucchevolezza, portando alla ribalta il talento cristallino di Trace Lysette, già apprezzata nella serie Transparent. Ha il sapore di occasione sprecata, invece, l’atteso ritorno al Lido di un altro italiano di adozione oltre-oceanica, che tanto ci aveva viziato e ben abituato con le sue opere precedenti: Emanuele Crialese che con l’autobiografico L’immensità, consegna le chiavi del film a una Penelope Cruz che troneggia in adorabili re-enactment televisivi che promettono di diventare iconici. Come l’impeccabile presidente Julianne Moore, Cate Blanchett e l’adorato Timothée Chalamet, Cruz è stata una delle più attese in laguna e ha ipnotizzato la folla accalcata attorno al red carpet, ora che l’austero muro anti-covid della passata edizione è stato definitivamente rimosso.
Per i puristi della materia potrebbe sembrare un discorso profano, disinteressato alla sostanza artistica, ma la mondanità del Festival, il suo chiassoso, picaresco e acrobatico alternarsi di strascichi, borsette gialle, selfie stick, teleobiettivi, doppi-petti, schiamazzi e pranzi al sacco, danno il sapore a ciò che sta tra una visione e un’altra.
Perché a Venezia la magia del cinema deborda dalla sala e copre tutto il Lido. È quella passione che ci fa solidarizzare con sconosciuti e infuriare con vecchi amici con gusti radicalmente diversi. Gli occhi sognanti di ragazzi disposti a collassi pomeridiani pur di un autografo, una foto, un contatto fugace con i propri idoli, consentono a questo linguaggio di sopravvivere e di estendere il suo valore immaginifico oltre queste quattro vie fiorite. E non è un caso, se la remota Sala Stampa, da dove prende vita questo pezzo, viene raggiunta da un grido collettivo assordante, simile a quelli che si sentono sui roller-coaster dei parchi a tema. Probabile sia appena arrivato Harry Styles.
NC-125
06.09.2022
Un gruppetto di anziani abbandona la Sala Grande in una mattina di Settembre 2022. Non sono da incolpare l’aria condizionata alla giusta temperatura, le poltrone piuttosto comode, neanche il pubblico silente e rispettoso. Un dito improvvisamente maciullato e masticato, sullo schermo, questa la causa, in apertura di Bones e All, il titolo più atteso di questa attesissima Settantanovesima Mostra del Cinema di Venezia.
“Ma non doveva essere una storia di amore?”. Si, lo è: un amore emarginato e sofferto, formativo e un po’ pulp! In fondo, l’ultimo film di Luca Guadagnino ci insegna che ci si può commuovere anche davanti ad un film di cannibali. Penso riassuma al meglio il punctum della mostra che, giunta al giro di boa, inizia a rivelare vagamente la sua prospettiva d’insieme.
Gli antieroi veneziani quest’anno sono scissi tra pulsione e morale, rapiti da amori indissolubilmente intrecciati alla morte, in bilico tra il sudiciume nichilista e il sublime bucolico, tra il tragico e lo scanzonato, la monumentalità storica e la delicatezza intimista. Insomma, la rosa dei film visti fino ad ora amano giocare con quello che la Lydia Tàr straordinariamente portata in scena da Cate Blanchett, definirebbe “contrappunto”. Ovvero, il gusto del conflitto stilistico, o almeno della messa in discussione dello conosciuto e del prevedibile.
Ad esempio, nessuno si aspettava da un film come Tàr di Todd Field questa stoica a-musicalità adottata in favore di una proliferazione di dialoghi fluida e colta, che unisce lo spazio-tempo della scena, e neanche il machismo tossico che aggalla narrativamente da un film il cui cast principale è quasi totalmente femminile.
Blanchett regala una performance mimetica, appassionata, solidissima ma non è l’unica interprete a svettare sul film che porta al Lido. Non possiamo non parlare di Brendan Fraser, iconico volto blockbuster di inizio anni duemila, dimenticato dal tritacarne Hollywoodiano che in The Whale risorge artisticamente con una performance delicatamente sofferta, a cui seguono sei meritati minuti di applausi scroscianti in Sala Grande.
Ad oggi, è lui a contendersi la Coppa Volpi con il misurato Ricardo Darìn, asse portante dell’acclamato Argentina, 1985. Anche il film di Santiago Mitre profana il genere e sorprende per il suo alternare, con misura, solennità storica e demistificazione da comedy familiare.
Se l’anno scorso titoli come Dune, Last Night in Soho, The Last Duel raccontavano di una Mostra che pareva voler tornare ad ammiccare ai vecchi generi, quest’anno, pur ritrovando la qualità dell’edizione passata, pare che la linea espressiva sia più da associare all’approccio pseudo-sperimentale di Spencer: dramma intimista, biopic e infine horror citazionista.
Come in Larrain, si discutono i comodi archetipi di categoria, ci si divincola da una chiara collocazione e, a volte, dalle abitudini consolidate di carriere già mature. È il caso, ad esempio, del maestro del documentario Frederick Wiseman che, a novantadue anni, porta al Lido il suo primo film di finzione, Un Couple: un film poetico dai toni umbratili che ha deluso molti, girato in pandemia con mezzi ridotti e una sola attrice davanti alla sua esperta macchina da presa. Come nel suo caso, sembra che questa edizione si ponga come occasione per un cambio di prospettiva per diverse carriere autoriali. Su tutte, la svolta lirico-felliniana - forse eccessivamente auto-referenziale - del Bardo di Alejandro González Iñárritu, ma anche la nuova e contrita misura compositiva di Darren Aronofsky, la postmoderna deviazione euforico-allucinata del dato visivo in White Noise di Baumabach, che qui adatta DeLillo.
In qualche modo, ci si allontana dalla confort zone; e vale anche per il pubblico che, tra una prenotazione isterica sul cellulare, causata del servizio Vivaticket, uno sguardo predatorio al red carpet e un sorso di Spritz, ripete frequentemente “Non me l’aspettavo così”. Ma, come è noto, la critica non si fa coi se e coi ma, ed è importante che uno splendido novantenne come il Festival del Cinema di Venezia, scomodi entrambi regista e spettatore, pungolandoli verso la possibilità di un cinema nuovo, che si evolve e mette in discussione ogni anno le sue abitudini più consolidate.
Detto ciò, non si può negare che ci siano state rassicuranti riconferme, rincuoranti come una tazza di latte caldo nella notte. In attesa dell’esordiente Diop, del domestico Zeller, del ciclone Blonde, del duello Hogg-Swinton, del corale Virzì, dell’ultimo Kim Ki-Duk e del decano Walter Hill, una delle grandi certezze è stato Paul Schrader (quest’anno Leone D’oro alla carriera come l’attrice Catherine Deneuve) che, con il suo Master Gardener chiude la sua trilogia con classe ed estrema coerenza narrativo-tematica.
Inutile nascondere, tuttavia, che il fresco colpo di fulmine di questa edizione è l’assurdità delle vicende tragico-bambinesche dell’insulare The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh, - arrivato al Lido insieme alla compagna Phoebe Waller-Bridge - una sorprendente dramedy psicologica, scritta in modo vibrante, girata con eleganza, di cui è saggio anticipare poco. Oltre che per il film con Colin Farrel e Brendan Gleeson, scroscianti apprezzamenti anche per Athena di Romain Gavras: film di guerriglia urbana girato in modo sontuoso e scritto combinando tenerezza e muscolarità. Altre ottime riconferme sono Laura Poitras e il suo cinema politico che torna al Lido con una nuova battaglia, quella della fotografa statunitense Nan Goldin. All the Beauty and the Bloodshed, unico documentario in concorso, è una delle opere più avvincenti di questa edizione. Inorgoglisce la crescita espressiva del veneto Andrea Pallaoro che con Monica, nonostante le bocche storte di buona parte della critica italiana, delinea un modo essenziale e raffinato di raccontare il dramma familiare, senza colpi di teatrale stucchevolezza, portando alla ribalta il talento cristallino di Trace Lysette, già apprezzata nella serie Transparent. Ha il sapore di occasione sprecata, invece, l’atteso ritorno al Lido di un altro italiano di adozione oltre-oceanica, che tanto ci aveva viziato e ben abituato con le sue opere precedenti: Emanuele Crialese che con l’autobiografico L’immensità, consegna le chiavi del film a una Penelope Cruz che troneggia in adorabili re-enactment televisivi che promettono di diventare iconici. Come l’impeccabile presidente Julianne Moore, Cate Blanchett e l’adorato Timothée Chalamet, Cruz è stata una delle più attese in laguna e ha ipnotizzato la folla accalcata attorno al red carpet, ora che l’austero muro anti-covid della passata edizione è stato definitivamente rimosso.
Per i puristi della materia potrebbe sembrare un discorso profano, disinteressato alla sostanza artistica, ma la mondanità del Festival, il suo chiassoso, picaresco e acrobatico alternarsi di strascichi, borsette gialle, selfie stick, teleobiettivi, doppi-petti, schiamazzi e pranzi al sacco, danno il sapore a ciò che sta tra una visione e un’altra.
Perché a Venezia la magia del cinema deborda dalla sala e copre tutto il Lido. È quella passione che ci fa solidarizzare con sconosciuti e infuriare con vecchi amici con gusti radicalmente diversi. Gli occhi sognanti di ragazzi disposti a collassi pomeridiani pur di un autografo, una foto, un contatto fugace con i propri idoli, consentono a questo linguaggio di sopravvivere e di estendere il suo valore immaginifico oltre queste quattro vie fiorite. E non è un caso, se la remota Sala Stampa, da dove prende vita questo pezzo, viene raggiunta da un grido collettivo assordante, simile a quelli che si sentono sui roller-coaster dei parchi a tema. Probabile sia appena arrivato Harry Styles.