NC-268
25.01.2025
A proposito di A Complete Unknown, Paul Schrader ha scritto sul suo profilo Facebook - di cui consigliamo la lettura per ritrovare fiducia nell'umanità - che non esiste un periodo della vita di Bob Dylan che non sia affascinante. Il film di James Mangold si sta rivelando un successo, debuttando in vetta alle classifiche del Box Office italiano grazie ad un'azzeccata strategia di marketing pubblicitario e all’interpretazione di Timothée Chalamet (nominato agli Oscar 2025). Della pellicola si può innanzitutto riconoscere la giustezza del titolo, Un completo sconosciuto è un verso di uno degli inni più celebri di Dylan, certo, ma anche ciò che egli è, con ostinazione, voluto rimanere per i media e per gli umani, nonostante il successo che ha accompagnato la sua carriera.
Il cinema è sempre stato attratto dal magnetismo di cui parla Schrader, narrando Dylan come un enigma e un’icona, un alieno venuto da lontano per cantare parole criptiche, dolci e forsennate, d'amore e protesta. Prima dei documentari di Martin Scorsese, prima di I'm Not There (Io non sono qui, 2007) di Haynes - altro titolo che rimanda all’impossibilità di afferrare l’identità del cantante premio Nobel, fissarne un solo centro e un'unica direzione - c’è stato un film che con maggiore radicalità ha testimoniato il mistero di cui stiamo scrivendo. Si chiama Don’t Look Back (1967), e segue Dylan nel suo tour londinese di sessant’anni fa, e come il soggetto che immortala ha inventato diverse cose, tra cui il documentario musicale, le risse in albergo e uno sguardo sulla realtà che prima non c'era e dopo sarebbe stato ovunque.
Bob Dylan con la sua sigaretta e gli inconfondibili occhiali neri
Il poster del film
Nel 1960 D. A. Pennebaker aveva girato il Wisconsin insieme a Robert Drew e altri giovani cineasti per filmare le elezioni primarie del partito democratico tra John Fitzgerald Kennedy e Hubert Humphrey. Influenzati dalla nascente categoria di cinéma vérité e dalla ricerca di un’autenticità che restituisse sullo schermo la vita nel suo accadere, questi autori usarono cineprese mai così maneggiabili e progredite tecnologicamente per muoversi tra la folla durante i comizi dei candidati, filmando i loro spostamenti, nonché gli attimi più intimi dietro le quinte della competizione politica. Il risultato, Primary (1960), è un film seminale per il giornalismo e il cinema documentario americano, capace di unire cronaca e romanzo in un modo fino ad allora impensabile. Il mondo non era mai stato così piccolo, i limiti erano diventati possibilità e i fatti, dal più banale al più clamoroso, erano tutti alla portata del nuovo sguardo.
Cinque anni dopo quell'esperienza, Pennebaker aveva ormai messo a punto una cinepresa in grado di sincronizzare in presa diretta sonoro e immagine. L'occasione perfetta per testare le potenzialità del mezzo fu il tour britannico di un ventitreenne americano di cui tutti parlavano da tempo. Un cantautore dai capelli arruffati, una chitarra sempre in spalla, la lingua sciolta e una voce che non ricordava nulla di familiare, eppure incantava i giovani come fino a quel momento era riuscito solo ai Beatles. Don't Look Back è il mitico ritratto di un genio strafottente, il racconto di un’epoca in fermento, ribelle e rivoluzionaria, in cui i tempi stavano davvero cambiando. Il primo documentario a inscenare la musica dal vivo, rendendo irresistibile la figura della rockstar, ineditamente persona oltre che personaggio, non solo ammirata sul palco ma osservata da vicino nella sfera privata. La cinepresa in questo senso diventa un altro componente dell’entourage di Dylan, uno specchio in cui si riflettono le sue eccezionalità e le sue spacconerie, dispositivo che allarga la vita mentre ne registra lo scorrere. Il suo occhio è dove nessuno ha mai visto: nei camerini prima del gran debutto, tra i sedili di un’automobile in corsa, oltre la porta di una camera da letto, nella mente di un poeta.
Durante le riprese
In ordine sparso e non completo segue elenco di cose memorabili che accadono in questo film: sulle note di Subterranean Homesick Blues Dylan sfoglia le parole della canzone scritte su alcuni pezzi di carta mentre alle sue spalle il poeta Allen Ginsberg parla con Ringo Starr, in quello che molti considereranno il primo videoclip della storia. Joan Baez canta Percy's Song mentre Dylan scrive a macchina nella sua stanza d'albergo. Albert Grossman, il leggendario agente di Dylan, manda a quel paese il concierge dell'hotel dove alloggiano per poi trattare con serafica maestria i prezzi dei concerti del suo assistito. Dylan canta It's All Over Now, Baby Blue davanti a Donovan, che estasiato si rende forse conto dei suoi limiti e della grandezza del collega. Dylan disserta sul senso della vita insieme a un troppo loquace studente di scienze. Dylan ubriaco litiga con tutti per sapere chi ha lanciato quel maledetto bicchiere dal balcone della sua stanza. Sempre Dylan commenta la bellezza di una chitarra in vetrina, prefigurando la scioccante svolta elettrica che da lì a poco avrebbe spiazzato il suo pubblico. Dylan si esibisce alla Royal Albert Hall. Dylan fuma, fuma e fuma. Dylan che insomma è e si atteggia a Dylan, ventiquattro fotogrammi al secondo.
Non canta, profetizza. Così, da una cabina telefonica, un giornalista inizia a dettare alla redazione all'altro capo della linea il suo articolo su quel fenomeno di cantante non ancora decifrato, in una scena che sembra provenire dalla preistoria delle comunicazioni ma coglie il motivo ricorrente del film. Nessuno sembra davvero capire Bob Dylan. Non i giovani, che impazziscono per il suo look e le sue melodie ma non recepiscono la portata politica dei suoi versi. Non i proprietari dei locali in cui dovrebbe esibirsi, restii a pagare i soldi che chiede il suo agente. Di certo non la stampa, oggetto privilegiato dell'ironia del giovane intellettuale. In un esilarante scambio polemico con un reporter del Time, che è anche l’apice iconoclasta del film, Dylan accusa i giornali di non poter dire la verità e di non essere liberi a sufficienza per capire la sua musica. Già avverso a ogni autorità o istituzione, Dylan risponde solo a quello che vuole e spesso confonde invece di chiarire. Che sia l’innocente domanda sulla sua famiglia da parte di una fan o quella di un giornalista riguardante il messaggio delle sue canzoni, Dylan elude e sfugge, protetto dagli occhiali scuri e da fulminanti provocazioni dialettiche.
Don't Look Back indaga questa selvatica estraneità senza la pretesa di addomesticarla, come chi avanza di un passo e inclina la testa di fronte a un’opera d’arte, non per meglio distinguerne le forme ma per venirne più a fondo sopraffatto. Da quei giorni gloriosi a oggi Bob Dylan non ha smesso di essere inseguito, amato, incompreso, smarrito. Il film di Pennebaker fu l’origine e la scintilla. I suoi primi piani spalancarono strade ancora da esplorare, fissando insieme un canone e un’irrangiungibile eccezione. Per chi cerca qualcosa che assomigli alla vita o qualcosa che ricordi il mito, tra tutte le risposte che il cinema continua a dare alle incognite sollevate da quel ragazzo ormai anziano, Don’t Look Back rimane la domanda più inebriante.
Dylan commenta le chitarre esposte in una vetrina
NC-268
25.01.2025
Bob Dylan con la sua sigaretta e gli inconfondibili occhiali neri
A proposito di A Complete Unknown, Paul Schrader ha scritto sul suo profilo Facebook - di cui consigliamo la lettura per ritrovare fiducia nell'umanità - che non esiste un periodo della vita di Bob Dylan che non sia affascinante. Il film di James Mangold si sta rivelando un successo, debuttando in vetta alle classifiche del Box Office italiano grazie ad un'azzeccata strategia di marketing pubblicitario e all’interpretazione di Timothée Chalamet (nominato agli Oscar 2025). Della pellicola si può innanzitutto riconoscere la giustezza del titolo, Un completo sconosciuto è un verso di uno degli inni più celebri di Dylan, certo, ma anche ciò che egli è, con ostinazione, voluto rimanere per i media e per gli umani, nonostante il successo che ha accompagnato la sua carriera.
Il cinema è sempre stato attratto dal magnetismo di cui parla Schrader, narrando Dylan come un enigma e un’icona, un alieno venuto da lontano per cantare parole criptiche, dolci e forsennate, d'amore e protesta. Prima dei documentari di Martin Scorsese, prima di I'm Not There (Io non sono qui, 2007) di Haynes - altro titolo che rimanda all’impossibilità di afferrare l’identità del cantante premio Nobel, fissarne un solo centro e un'unica direzione - c’è stato un film che con maggiore radicalità ha testimoniato il mistero di cui stiamo scrivendo. Si chiama Don’t Look Back (1967), e segue Dylan nel suo tour londinese di sessant’anni fa, e come il soggetto che immortala ha inventato diverse cose, tra cui il documentario musicale, le risse in albergo e uno sguardo sulla realtà che prima non c'era e dopo sarebbe stato ovunque.
Il poster del film
Nel 1960 D. A. Pennebaker aveva girato il Wisconsin insieme a Robert Drew e altri giovani cineasti per filmare le elezioni primarie del partito democratico tra John Fitzgerald Kennedy e Hubert Humphrey. Influenzati dalla nascente categoria di cinéma vérité e dalla ricerca di un’autenticità che restituisse sullo schermo la vita nel suo accadere, questi autori usarono cineprese mai così maneggiabili e progredite tecnologicamente per muoversi tra la folla durante i comizi dei candidati, filmando i loro spostamenti, nonché gli attimi più intimi dietro le quinte della competizione politica. Il risultato, Primary (1960), è un film seminale per il giornalismo e il cinema documentario americano, capace di unire cronaca e romanzo in un modo fino ad allora impensabile. Il mondo non era mai stato così piccolo, i limiti erano diventati possibilità e i fatti, dal più banale al più clamoroso, erano tutti alla portata del nuovo sguardo.
Cinque anni dopo quell'esperienza, Pennebaker aveva ormai messo a punto una cinepresa in grado di sincronizzare in presa diretta sonoro e immagine. L'occasione perfetta per testare le potenzialità del mezzo fu il tour britannico di un ventitreenne americano di cui tutti parlavano da tempo. Un cantautore dai capelli arruffati, una chitarra sempre in spalla, la lingua sciolta e una voce che non ricordava nulla di familiare, eppure incantava i giovani come fino a quel momento era riuscito solo ai Beatles. Don't Look Back è il mitico ritratto di un genio strafottente, il racconto di un’epoca in fermento, ribelle e rivoluzionaria, in cui i tempi stavano davvero cambiando. Il primo documentario a inscenare la musica dal vivo, rendendo irresistibile la figura della rockstar, ineditamente persona oltre che personaggio, non solo ammirata sul palco ma osservata da vicino nella sfera privata. La cinepresa in questo senso diventa un altro componente dell’entourage di Dylan, uno specchio in cui si riflettono le sue eccezionalità e le sue spacconerie, dispositivo che allarga la vita mentre ne registra lo scorrere. Il suo occhio è dove nessuno ha mai visto: nei camerini prima del gran debutto, tra i sedili di un’automobile in corsa, oltre la porta di una camera da letto, nella mente di un poeta.
Durante le riprese
In ordine sparso e non completo segue elenco di cose memorabili che accadono in questo film: sulle note di Subterranean Homesick Blues Dylan sfoglia le parole della canzone scritte su alcuni pezzi di carta mentre alle sue spalle il poeta Allen Ginsberg parla con Ringo Starr, in quello che molti considereranno il primo videoclip della storia. Joan Baez canta Percy's Song mentre Dylan scrive a macchina nella sua stanza d'albergo. Albert Grossman, il leggendario agente di Dylan, manda a quel paese il concierge dell'hotel dove alloggiano per poi trattare con serafica maestria i prezzi dei concerti del suo assistito. Dylan canta It's All Over Now, Baby Blue davanti a Donovan, che estasiato si rende forse conto dei suoi limiti e della grandezza del collega. Dylan disserta sul senso della vita insieme a un troppo loquace studente di scienze. Dylan ubriaco litiga con tutti per sapere chi ha lanciato quel maledetto bicchiere dal balcone della sua stanza. Sempre Dylan commenta la bellezza di una chitarra in vetrina, prefigurando la scioccante svolta elettrica che da lì a poco avrebbe spiazzato il suo pubblico. Dylan si esibisce alla Royal Albert Hall. Dylan fuma, fuma e fuma. Dylan che insomma è e si atteggia a Dylan, ventiquattro fotogrammi al secondo.
Non canta, profetizza. Così, da una cabina telefonica, un giornalista inizia a dettare alla redazione all'altro capo della linea il suo articolo su quel fenomeno di cantante non ancora decifrato, in una scena che sembra provenire dalla preistoria delle comunicazioni ma coglie il motivo ricorrente del film. Nessuno sembra davvero capire Bob Dylan. Non i giovani, che impazziscono per il suo look e le sue melodie ma non recepiscono la portata politica dei suoi versi. Non i proprietari dei locali in cui dovrebbe esibirsi, restii a pagare i soldi che chiede il suo agente. Di certo non la stampa, oggetto privilegiato dell'ironia del giovane intellettuale. In un esilarante scambio polemico con un reporter del Time, che è anche l’apice iconoclasta del film, Dylan accusa i giornali di non poter dire la verità e di non essere liberi a sufficienza per capire la sua musica. Già avverso a ogni autorità o istituzione, Dylan risponde solo a quello che vuole e spesso confonde invece di chiarire. Che sia l’innocente domanda sulla sua famiglia da parte di una fan o quella di un giornalista riguardante il messaggio delle sue canzoni, Dylan elude e sfugge, protetto dagli occhiali scuri e da fulminanti provocazioni dialettiche.
Don't Look Back indaga questa selvatica estraneità senza la pretesa di addomesticarla, come chi avanza di un passo e inclina la testa di fronte a un’opera d’arte, non per meglio distinguerne le forme ma per venirne più a fondo sopraffatto. Da quei giorni gloriosi a oggi Bob Dylan non ha smesso di essere inseguito, amato, incompreso, smarrito. Il film di Pennebaker fu l’origine e la scintilla. I suoi primi piani spalancarono strade ancora da esplorare, fissando insieme un canone e un’irrangiungibile eccezione. Per chi cerca qualcosa che assomigli alla vita o qualcosa che ricordi il mito, tra tutte le risposte che il cinema continua a dare alle incognite sollevate da quel ragazzo ormai anziano, Don’t Look Back rimane la domanda più inebriante.
Dylan commenta le chitarre esposte in una vetrina