TR-84
26.07.2023
Non è un mistero che Hollywood stia raschiando il fondo del barile da un po’ di tempo a questa parte. Le produzioni statunitensi si stanno avviando, soprattutto durante questa fase cinematografica, sempre di più verso una standardizzazione che coinvolge un po’ tutti i franchise più famosi del cinema americano. Tra reboot, remake, sequel, spin-off e serie TV, la scena cinematografica è stata letteralmente invasa da prodotti collaterali, sbarcati sul mercato come tante “costole” di un corpo singolo. Una sovrapproduzione che ha naturalmente lo scopo di incrementare il guadagno delle singole case puntando su prodotti fidelizzati, su brand già riconosciuti universalmente. Minor sforzo, massima resa, in poche parole. Eppure, anche in un mondo così “affezionato” ai meta-prodotti, c’è chi riesce a mettere in difficoltà questo sistema, ovvero Gus Van Sant e Michael Haneke.
Questi due registi, nonostante siano diversissimi tra loro, hanno in comune un aspetto e un’attitudine non di poco conto: entrambi si sono sempre posti al di fuori del “sistema” commerciale, tentando più volte di scombussolarlo. Gus Van Sant, dopo un inizio di carriera in cui ha dato sostanzialmente i natali al cosiddetto “nuovo cinema queer” americano insieme a un altro autore come Gregg Araki, ha poi esplorato generi e, soprattutto, è approdato a un certo sperimentalismo che lo ha poi effettivamente consacrato come autore a tutto tondo, soprattutto con un film come Elephant, biopic ispirato al massacro della Columbine High School e vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2003. Michael Haneke, di contro, ha sempre concentrato i suoi sforzi su una poetica che infrange costantemente i limiti del “politically correct”, rivelando in quasi tutti i suoi prodotti la vera faccia della borghesia e, soprattutto, mostrando come l’indipendenza del cinema possa garantire una rappresentazione veritiera, senza filtri, di uno dei mali della nostra società, ovvero l’incomunicabilità dell’uomo moderno. Un punto che anche Van Sant ha toccato nella cosiddetta Trilogia (che si potrebbe anche definire Quadrilogia) della Morte e che pone una prima similitudine tra i due cineasti.
Alla luce di tutto ciò, dunque, è molto più semplice comprendere come l’intreccio tra questi due autori, apparentemente distanti a livelli siderali, avvenga in modo del tutto automatico a un certo punto della loro carriera. I loro sono due sguardi che si sovrappongono, soprattutto nel momento in cui entrambi decidono di effettuare, sebbene a distanza di nove anni l’uno dall’altro, due operazioni molto simili, che aprono la strada e nel contempo problematizzano la questione del rifare un’opera, di quali siano i limiti di un remake e fino a dove ci si possa spingere nell’atto cinematografico. Con Psycho e Funny Games, infatti, entrambi decidono di rimettere in discussione non solo capisaldi di genere consolidati, ma di porre in essere una questione a dir poco lungimirante se rapportata all’attualità: la fossilizzazione dell’industria cinematografica hollywoodiana, così tanto impegnata nella capitalizzazione da non interessarsi più del prodotto.
Sotto questo punto di vista, la composizione “hanekiana” si distacca da Van Sant e assume tutt’altra valenza. Quello che Funny Games intende fare, così come il suo corrispettivo originale, è tirare sì in ballo lo spettatore in prima persona rompendo sistematicamente la quarta parete, ma al contempo “informarlo” e attaccarlo, fargli prendere coscienza di essere partecipe attivo/passivo della spersonalizzazione del cinema che avviene tramite opere simili. Alla base vi è dunque una critica netta nei confronti di produttori e consumatori, nei confronti di un mercato che appare sempre più chiuso e diretto verso l’omologazione e la penuria di opere originali. Haneke preferisce scagliarsi, senza mezzi termini, contro il suo stesso “pubblico”, non solo rifacendo per filo e per segno sé stesso, ma ponendo la questione mediante i personaggi di Arno Frisch e Michael Pitt. I due diventano veri e propri alter ego del regista austriaco all’interno dell’universo dei due film, chiamando continuamente in causa lo spettatore e dando al film un sentore di interattività molto avanti con i tempi (soprattutto se rapportato, poi, alle operazioni recenti di Netflix come Black Mirror: Bandersnatch, laddove però l’intersezione tra medium diversi è operata tramite la sovrapposizione tra cinema e videogame).
Una critica che parte, dunque, dall’universo cinematografico, dipinto da Haneke come un apparato industriale incapace di schiodarsi dalle proprie posizioni, e dunque conservatore per indole, fino ad approdare, come solo un fine sociologo sa fare, all’uso della violenza e all’annosa questione della moralità dello spettatore nei confronti di essa. Fino a dove il nostro sguardo si può spingere senza che la nostra psiche possa restare intaccata emotivamente da ciò che vediamo sullo schermo? Qual è il limite di sopportazione della violenza all’interno dei prodotti mainstream da parte dello spettatore medio? Ma soprattutto: qual è la nostra posizione nei confronti di questi atti ripetuti?
È interessante comprendere come, dunque, da prettamente sociologica, la critica di Haneke diventi anche meta-cinematografica, capace di interrogare il medium cinematografico stesso, obbligandolo, per forza di cose, a riflettere sulla natura stessa della sua diegesi. Il cinema si riscopre in grado di trasformare e far effettuare un vero e proprio “salto di qualità” metaforico all’orrore perpetrato dalle immagini, laddove sono la tecnologia e le sue innovazioni ad aver favorito uno spostamento d’asse della realtà che si ripercuote poi su ciò che lo spettatore giudica e vede. Ciò che viene mostrato resta fonte di divertimento e distacco, e lo spettatore si rende conto di farne parte solamente se interpellato in modo diretto (come nella famosa scena in cui Brady Corbet dice a Naomi Watts di “sottovalutare l’importanza dello spettacolo”).
Si instaura dunque un gioco che, indirettamente, coinvolge anche il cinema a livelli più alti. L’allegoria della violenza da parte di Haneke può essere vista come un tentativo di “smuovere le coscienze”, di invitare chi fruisce di un’opera a riflettere sul tipo di opera di cui sta fruendo, se quest’ultima possa arricchire dal punto di vista culturale o sia una semplice messa in mostra di tutte le nefandezze della natura umana. Ulteriore significato acquista, dunque, anche la notevole intuizione, da parte del regista, di ambientare il proprio remake di una propria opera all’interno di un contesto a lui sconosciuto, ma reso celebre in tutto il mondo proprio dalla sua consuetudine con quella violenza tanto estetizzata, ovvero gli USA.
Quello che, dunque, appare come un semplice remake auto-celebrativo, è in realtà una fine operazione di smarcamento nei confronti della tirannia del cinema americano. Haneke, di fatto, ricicla un prodotto che l’industria cinematografica avrebbe potuto semplicemente sfruttare in modo ciclico e ne assume la paternità. Così facendo, sconfessa le major cinematografiche in favore dell’autorialità. Un gesto che, nell’era del post-modernismo, dove qualsiasi artefatto può essere riproducibile e riutilizzabile per altri scopi, assume una valenza fortissima, in quanto riporta al centro il ruolo dell’autore e ne stabilisce, di fatto, la supremazia. Lui è l’unico a poter plasmare un’opera, decidere se stravolgerla oppure, semplicemente, riproporla in modo identico, beffando sia le logiche produttive di massa che la serializzazione del cinema stesso.
Anche la scelta di attori come Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt e Brady Corbet non è affatto casuale. La prima comincia la carriera con un regista “anarchico” come Joe Dante (in Matinèe), mentre il secondo si presta al ruolo di protagonista in The Hit di Stephen Frears, altro regista nato sotto lo sguardo indipendente e poi consacratosi. Michael Pitt diventa ben presto l’alfiere proprio di Gus Van Sant (recitando in Finding Forrester), mentre Brady Corbet era, dopo la partecipazione in Mysterious Skin di Gregg Araki, il nuovo viso di punta del New Queer Cinema. Tutti attori che, in un modo o nell’altro, hanno cominciato il proprio percorso da indipendenti per poi finire sotto l’egida di produzioni commerciali. Un percorso che, in modo molto intelligente, Haneke non sottovaluta e che diventa la personificazione dell’intera operazione di remake e del proprio “sbeffeggio” nei confronti del cinema mainstream.
Il discorso, invece, diventa leggermente diverso quando si va ad affrontare l’opera di Van Sant, per molto tempo bistrattata perché vista come un vero e proprio affronto ad un’entità intoccabile della Settima Arte, quale Sir Alfred Hitchcock. Con Psycho, invece, Van Sant anticipa l’arte del “riciclo” cinematografico che tanto sta occupando questa porzione temporale di cinema che si è diffusa proprio con l’avvento degli anni 2000. L’operazione del regista americano è forse ancora più complessa rispetto a quella del corrispettivo austriaco, in quanto sceglie di confrontarsi direttamente con una delle opere “sacre” che nessuno sognerebbe mai di toccare e nemmeno di rimodernare o aggiornare. Ed ecco che, proprio in virtù di questo pensiero, lo Psycho di Van Sant, rifatto anch’esso shot-for-shot, diventa espressione di una Hollywood atta solamente a riprodurre,a fornire agli spettatori il prodotto che vogliono, come fosse un’effettiva “industria dei sogni”, scorporando completamente forma e contenuto.
L’obiettivo di Van Sant è quindi un altro, rispetto ad Haneke: rendere tutti partecipi della spersonalizzazione del cinema e della sua dissoluzione, sotto l’egida dell’industria. Non vi sono intenti socio-politici, quanto piuttosto riflessioni sullo stato del cinema tutto. Psycho si pone giusto a metà tra idolatria e cinefilia, restando sì ossequioso e rispettoso nei confronti di Hitchcock, riproducendone di fatto le inquadrature e le scene più iconiche, ma operando alcuni cambiamenti significativi in grado di solleticare le coscienze degli spettatori più attenti e di strutturare l’opera come un vero e proprio film avant-pop. Il film si presenta dunque come un collage di scene, molto più stratificato e decisamente più esplicito rispetto al suo corrispettivo originale, divertendosi anche ad immaginare come Sir Alfred avrebbe girato le sue stesse scene di culto (come la celebre scena della doccia) in epoca moderna e contemporanea.
La creatura di Van Sant verte completamente sui canoni cinematografici odierni, sulla copia al di sopra di tutto, perfino nelle metodologie di lavoro. Il regista americano decide di effettuare un vero e proprio porting anche del making of, riproducendo all’interno del film anche gli errori di montaggio o di scena (quale poteva essere anche una porta aperta senza l’ombra di una chiave) che lo stesso Hitchcock effettuò durante la lavorazione del suo capolavoro nel 1960. Si può quindi definire Psycho di Gus Van Sant come un’opera gustosamente feticistica, un oggetto da cui poter trarre una sorta di culto, che diventa un vero e proprio modellino in miniatura di una delle più grandi opere mai concepite.
Ciò per cui agisce il regista americano, però, non è solamente il gusto del tributo a uno dei più grandi di sempre, ma ha un ulteriore scopo, ben più “alto”. L’obiettivo è quello di far comprendere che il cinema, inteso come arte, non può limitarsi alla sola copia “spersonalizzata”, al remake senz’anima, e che anche quest’ultimo può diventare qualcosa di artistico. Ciò che occorre effettivamente è un’idea, alla base, che denoti coerenza e coraggio. Quindi Psycho diventa, indirettamente, anche un atto d’accusa nei confronti di quegli spettatori (come del resto anche Haneke, in modo più amaro, ha effettuato con Funny Games) alienati e presi dall’ossessione del volere opere riprodotte “in serie”, che si rifacciano ai culti pur risultando stantie e ripetitive, oltre che saturare ulteriormente l’industria cinematografica e addirittura profanare artefatti in teoria impossibili da destrutturare.
Inoltre, è interessante comprendere come proprio Psycho, inevitabilmente, influenzi in modo del tutto conscio anche la carriera successiva di Van Sant. Se con il remake di Hitchcock il regista ci parla della morte del cinema, tramite le sue opere successive (eccezion fatta per il favolistico e hollywoodiano Finding Forrester), ovvero Gerry, Elephant, Last Days e Paranoid Park, analizza la morte “cerebrale” della classe sociale americana più giovane. Tramite questa quadrilogia non ufficiale, Van Sant porta allo scoperto una classe destinata a ripercorrere lo stesso disagio interiore che percorre il Norman Bates di Vince Vaughn, anch’esso oppresso da una condizione familiare in cui le figure genitoriali sono più assenti che presenti, che non è nient’altro che l’espressione antesignana di quel nichilismo, dello squilibrio interiore e di quella rappresentazione della violenza sul suolo americano (con cui, naturalmente, anche Haneke ha avuto a che fare nelle sue opere sopra citate) che sfocerà poi nel massacro della Columbine di Elephant, nel Kurt Cobain “fittizio” di Last Days e negli skater di Paranoid Park, emblemi del degrado sociale di uno Stato sempre più in rovina.
Opere diverse, dunque, che danno l’idea di come anche dei prodotti apparentemente innocui come i remake possano trasformarsi in profonde meditazioni sul cinema di oggi e di come la loro fenomenologia vada al di là della semplice riflessione sulla copia.
TR-84
26.07.2023
Non è un mistero che Hollywood stia raschiando il fondo del barile da un po’ di tempo a questa parte. Le produzioni statunitensi si stanno avviando, soprattutto durante questa fase cinematografica, sempre di più verso una standardizzazione che coinvolge un po’ tutti i franchise più famosi del cinema americano. Tra reboot, remake, sequel, spin-off e serie TV, la scena cinematografica è stata letteralmente invasa da prodotti collaterali, sbarcati sul mercato come tante “costole” di un corpo singolo. Una sovrapproduzione che ha naturalmente lo scopo di incrementare il guadagno delle singole case puntando su prodotti fidelizzati, su brand già riconosciuti universalmente. Minor sforzo, massima resa, in poche parole. Eppure, anche in un mondo così “affezionato” ai meta-prodotti, c’è chi riesce a mettere in difficoltà questo sistema, ovvero Gus Van Sant e Michael Haneke.
Questi due registi, nonostante siano diversissimi tra loro, hanno in comune un aspetto e un’attitudine non di poco conto: entrambi si sono sempre posti al di fuori del “sistema” commerciale, tentando più volte di scombussolarlo. Gus Van Sant, dopo un inizio di carriera in cui ha dato sostanzialmente i natali al cosiddetto “nuovo cinema queer” americano insieme a un altro autore come Gregg Araki, ha poi esplorato generi e, soprattutto, è approdato a un certo sperimentalismo che lo ha poi effettivamente consacrato come autore a tutto tondo, soprattutto con un film come Elephant, biopic ispirato al massacro della Columbine High School e vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2003. Michael Haneke, di contro, ha sempre concentrato i suoi sforzi su una poetica che infrange costantemente i limiti del “politically correct”, rivelando in quasi tutti i suoi prodotti la vera faccia della borghesia e, soprattutto, mostrando come l’indipendenza del cinema possa garantire una rappresentazione veritiera, senza filtri, di uno dei mali della nostra società, ovvero l’incomunicabilità dell’uomo moderno. Un punto che anche Van Sant ha toccato nella cosiddetta Trilogia (che si potrebbe anche definire Quadrilogia) della Morte e che pone una prima similitudine tra i due cineasti.
Alla luce di tutto ciò, dunque, è molto più semplice comprendere come l’intreccio tra questi due autori, apparentemente distanti a livelli siderali, avvenga in modo del tutto automatico a un certo punto della loro carriera. I loro sono due sguardi che si sovrappongono, soprattutto nel momento in cui entrambi decidono di effettuare, sebbene a distanza di nove anni l’uno dall’altro, due operazioni molto simili, che aprono la strada e nel contempo problematizzano la questione del rifare un’opera, di quali siano i limiti di un remake e fino a dove ci si possa spingere nell’atto cinematografico. Con Psycho e Funny Games, infatti, entrambi decidono di rimettere in discussione non solo capisaldi di genere consolidati, ma di porre in essere una questione a dir poco lungimirante se rapportata all’attualità: la fossilizzazione dell’industria cinematografica hollywoodiana, così tanto impegnata nella capitalizzazione da non interessarsi più del prodotto.
Sotto questo punto di vista, la composizione “hanekiana” si distacca da Van Sant e assume tutt’altra valenza. Quello che Funny Games intende fare, così come il suo corrispettivo originale, è tirare sì in ballo lo spettatore in prima persona rompendo sistematicamente la quarta parete, ma al contempo “informarlo” e attaccarlo, fargli prendere coscienza di essere partecipe attivo/passivo della spersonalizzazione del cinema che avviene tramite opere simili. Alla base vi è dunque una critica netta nei confronti di produttori e consumatori, nei confronti di un mercato che appare sempre più chiuso e diretto verso l’omologazione e la penuria di opere originali. Haneke preferisce scagliarsi, senza mezzi termini, contro il suo stesso “pubblico”, non solo rifacendo per filo e per segno sé stesso, ma ponendo la questione mediante i personaggi di Arno Frisch e Michael Pitt. I due diventano veri e propri alter ego del regista austriaco all’interno dell’universo dei due film, chiamando continuamente in causa lo spettatore e dando al film un sentore di interattività molto avanti con i tempi (soprattutto se rapportato, poi, alle operazioni recenti di Netflix come Black Mirror: Bandersnatch, laddove però l’intersezione tra medium diversi è operata tramite la sovrapposizione tra cinema e videogame).
Una critica che parte, dunque, dall’universo cinematografico, dipinto da Haneke come un apparato industriale incapace di schiodarsi dalle proprie posizioni, e dunque conservatore per indole, fino ad approdare, come solo un fine sociologo sa fare, all’uso della violenza e all’annosa questione della moralità dello spettatore nei confronti di essa. Fino a dove il nostro sguardo si può spingere senza che la nostra psiche possa restare intaccata emotivamente da ciò che vediamo sullo schermo? Qual è il limite di sopportazione della violenza all’interno dei prodotti mainstream da parte dello spettatore medio? Ma soprattutto: qual è la nostra posizione nei confronti di questi atti ripetuti?
È interessante comprendere come, dunque, da prettamente sociologica, la critica di Haneke diventi anche meta-cinematografica, capace di interrogare il medium cinematografico stesso, obbligandolo, per forza di cose, a riflettere sulla natura stessa della sua diegesi. Il cinema si riscopre in grado di trasformare e far effettuare un vero e proprio “salto di qualità” metaforico all’orrore perpetrato dalle immagini, laddove sono la tecnologia e le sue innovazioni ad aver favorito uno spostamento d’asse della realtà che si ripercuote poi su ciò che lo spettatore giudica e vede. Ciò che viene mostrato resta fonte di divertimento e distacco, e lo spettatore si rende conto di farne parte solamente se interpellato in modo diretto (come nella famosa scena in cui Brady Corbet dice a Naomi Watts di “sottovalutare l’importanza dello spettacolo”).
Si instaura dunque un gioco che, indirettamente, coinvolge anche il cinema a livelli più alti. L’allegoria della violenza da parte di Haneke può essere vista come un tentativo di “smuovere le coscienze”, di invitare chi fruisce di un’opera a riflettere sul tipo di opera di cui sta fruendo, se quest’ultima possa arricchire dal punto di vista culturale o sia una semplice messa in mostra di tutte le nefandezze della natura umana. Ulteriore significato acquista, dunque, anche la notevole intuizione, da parte del regista, di ambientare il proprio remake di una propria opera all’interno di un contesto a lui sconosciuto, ma reso celebre in tutto il mondo proprio dalla sua consuetudine con quella violenza tanto estetizzata, ovvero gli USA.
Quello che, dunque, appare come un semplice remake auto-celebrativo, è in realtà una fine operazione di smarcamento nei confronti della tirannia del cinema americano. Haneke, di fatto, ricicla un prodotto che l’industria cinematografica avrebbe potuto semplicemente sfruttare in modo ciclico e ne assume la paternità. Così facendo, sconfessa le major cinematografiche in favore dell’autorialità. Un gesto che, nell’era del post-modernismo, dove qualsiasi artefatto può essere riproducibile e riutilizzabile per altri scopi, assume una valenza fortissima, in quanto riporta al centro il ruolo dell’autore e ne stabilisce, di fatto, la supremazia. Lui è l’unico a poter plasmare un’opera, decidere se stravolgerla oppure, semplicemente, riproporla in modo identico, beffando sia le logiche produttive di massa che la serializzazione del cinema stesso.
Anche la scelta di attori come Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt e Brady Corbet non è affatto casuale. La prima comincia la carriera con un regista “anarchico” come Joe Dante (in Matinèe), mentre il secondo si presta al ruolo di protagonista in The Hit di Stephen Frears, altro regista nato sotto lo sguardo indipendente e poi consacratosi. Michael Pitt diventa ben presto l’alfiere proprio di Gus Van Sant (recitando in Finding Forrester), mentre Brady Corbet era, dopo la partecipazione in Mysterious Skin di Gregg Araki, il nuovo viso di punta del New Queer Cinema. Tutti attori che, in un modo o nell’altro, hanno cominciato il proprio percorso da indipendenti per poi finire sotto l’egida di produzioni commerciali. Un percorso che, in modo molto intelligente, Haneke non sottovaluta e che diventa la personificazione dell’intera operazione di remake e del proprio “sbeffeggio” nei confronti del cinema mainstream.
Il discorso, invece, diventa leggermente diverso quando si va ad affrontare l’opera di Van Sant, per molto tempo bistrattata perché vista come un vero e proprio affronto ad un’entità intoccabile della Settima Arte, quale Sir Alfred Hitchcock. Con Psycho, invece, Van Sant anticipa l’arte del “riciclo” cinematografico che tanto sta occupando questa porzione temporale di cinema che si è diffusa proprio con l’avvento degli anni 2000. L’operazione del regista americano è forse ancora più complessa rispetto a quella del corrispettivo austriaco, in quanto sceglie di confrontarsi direttamente con una delle opere “sacre” che nessuno sognerebbe mai di toccare e nemmeno di rimodernare o aggiornare. Ed ecco che, proprio in virtù di questo pensiero, lo Psycho di Van Sant, rifatto anch’esso shot-for-shot, diventa espressione di una Hollywood atta solamente a riprodurre,a fornire agli spettatori il prodotto che vogliono, come fosse un’effettiva “industria dei sogni”, scorporando completamente forma e contenuto.
L’obiettivo di Van Sant è quindi un altro, rispetto ad Haneke: rendere tutti partecipi della spersonalizzazione del cinema e della sua dissoluzione, sotto l’egida dell’industria. Non vi sono intenti socio-politici, quanto piuttosto riflessioni sullo stato del cinema tutto. Psycho si pone giusto a metà tra idolatria e cinefilia, restando sì ossequioso e rispettoso nei confronti di Hitchcock, riproducendone di fatto le inquadrature e le scene più iconiche, ma operando alcuni cambiamenti significativi in grado di solleticare le coscienze degli spettatori più attenti e di strutturare l’opera come un vero e proprio film avant-pop. Il film si presenta dunque come un collage di scene, molto più stratificato e decisamente più esplicito rispetto al suo corrispettivo originale, divertendosi anche ad immaginare come Sir Alfred avrebbe girato le sue stesse scene di culto (come la celebre scena della doccia) in epoca moderna e contemporanea.
La creatura di Van Sant verte completamente sui canoni cinematografici odierni, sulla copia al di sopra di tutto, perfino nelle metodologie di lavoro. Il regista americano decide di effettuare un vero e proprio porting anche del making of, riproducendo all’interno del film anche gli errori di montaggio o di scena (quale poteva essere anche una porta aperta senza l’ombra di una chiave) che lo stesso Hitchcock effettuò durante la lavorazione del suo capolavoro nel 1960. Si può quindi definire Psycho di Gus Van Sant come un’opera gustosamente feticistica, un oggetto da cui poter trarre una sorta di culto, che diventa un vero e proprio modellino in miniatura di una delle più grandi opere mai concepite.
Ciò per cui agisce il regista americano, però, non è solamente il gusto del tributo a uno dei più grandi di sempre, ma ha un ulteriore scopo, ben più “alto”. L’obiettivo è quello di far comprendere che il cinema, inteso come arte, non può limitarsi alla sola copia “spersonalizzata”, al remake senz’anima, e che anche quest’ultimo può diventare qualcosa di artistico. Ciò che occorre effettivamente è un’idea, alla base, che denoti coerenza e coraggio. Quindi Psycho diventa, indirettamente, anche un atto d’accusa nei confronti di quegli spettatori (come del resto anche Haneke, in modo più amaro, ha effettuato con Funny Games) alienati e presi dall’ossessione del volere opere riprodotte “in serie”, che si rifacciano ai culti pur risultando stantie e ripetitive, oltre che saturare ulteriormente l’industria cinematografica e addirittura profanare artefatti in teoria impossibili da destrutturare.
Inoltre, è interessante comprendere come proprio Psycho, inevitabilmente, influenzi in modo del tutto conscio anche la carriera successiva di Van Sant. Se con il remake di Hitchcock il regista ci parla della morte del cinema, tramite le sue opere successive (eccezion fatta per il favolistico e hollywoodiano Finding Forrester), ovvero Gerry, Elephant, Last Days e Paranoid Park, analizza la morte “cerebrale” della classe sociale americana più giovane. Tramite questa quadrilogia non ufficiale, Van Sant porta allo scoperto una classe destinata a ripercorrere lo stesso disagio interiore che percorre il Norman Bates di Vince Vaughn, anch’esso oppresso da una condizione familiare in cui le figure genitoriali sono più assenti che presenti, che non è nient’altro che l’espressione antesignana di quel nichilismo, dello squilibrio interiore e di quella rappresentazione della violenza sul suolo americano (con cui, naturalmente, anche Haneke ha avuto a che fare nelle sue opere sopra citate) che sfocerà poi nel massacro della Columbine di Elephant, nel Kurt Cobain “fittizio” di Last Days e negli skater di Paranoid Park, emblemi del degrado sociale di uno Stato sempre più in rovina.
Opere diverse, dunque, che danno l’idea di come anche dei prodotti apparentemente innocui come i remake possano trasformarsi in profonde meditazioni sul cinema di oggi e di come la loro fenomenologia vada al di là della semplice riflessione sulla copia.