La nostra selezione dei migliori film
usciti nell'anno della ripartenza,
scritto da redazione ODG
TR-45
24.12.2021
Si conclude il 2021. Per il cinema è stato un anno di faticosa ripresa. Molti festival sono tornati in presenza, le sale hanno riaperto le proprie porte e, visto anche l’inevitabile effetto accumulo che si è creato per la pandemia, tante sono state le opere degne di nota. I premi di Cannes e Venezia faranno forse ricordare quest’anno come uno dei più imprevedibili e importanti degli ultimi tempi: un anno di rottura e rinascita, nel quale lavori di grandi autori e interessanti opere di registi emergenti hanno testimoniato la resistenza del cinema, la vitalità delle sue narrazioni e le diverse possibilità espressive offerte dal suo linguaggio.
Mai come quest’anno la presenza femminile, sia dietro che davanti la macchina da presa, ha contraddistinto la narrazione del cinema d’autore.
L’oscar al miglior film e alla migliore regia del 2021 è stato assegnato a una donna (Chloé Zhao). A Cannes e Venezia a vincere rispettivamente Palma D’oro e Leone D’oro sono state due donne (francesi). La maternità e i difficili rapporti con essa sono stati oggetto di indagine ed esplorazione per moltissime tra le migliori pellicole proposte quest’anno.
Ed ecco finalmente arrivati alla nostra selezione dei migliori film di quest'anno presentati ai festival, in streaming o usciti nelle sale italiane a partire da gennaio scorso. Dall’Asia al Sudamerica, passando per Hollywood e il Vecchio Continente, ecco i titoli che hanno segnato questo 2021.
La persona peggiore del mondo
di Joachim Trier
Una ragazza qualunque, ad Oslo, oggi. Joachim Trier sceglie di raccontarci la storia di Julie (Renate Reinsve, Miglior attrice a Cannes 2021), una giovane donna che, semplicemente, vive. Lo fa in modo onesto, talmente onesto da rivelarsi inaspettato.
Julie non sa bene cosa fare del suo presente, figurarsi del futuro. Si destreggia come può tra le relazioni, le professioni, il rapporto con il padre, ma sembra scontrarsi sempre con un’unica costante: l’incertezza. Ha 20 anni e una moltitudine di domande a cui rispondere: vuole avere dei figli? Quale sarà la sua professione? Le piace la vita stabile di commessa in libreria o vuole vivere diversamente, con più libertà e spensieratezza? Il tradimento è davvero così sbagliato? Julie non lo sa ma ci prova. È l’incertezza che la muove nel cercare risposte all’interno di sé. The Worst Person in the World è un viaggio in dodici capitoli, un invito a non scoraggiarsi, a riprovare, ad ascoltarsi, a non colpevolizzarsi, a scoprirsi pian piano.
Scritto da Maria Clara Taglienti
Dune
di Denis Villeneuve
“Ecco, qualcuno adesso ci è davvero riuscito.” Chissà se è stato questo il pensiero di Jodorowsky alla visione dell'adattamento di Villeneuve. Il leggendario romanzo di Herbert (tutt’ora il romanzo di fantascienza più venduto al mondo) ha oggi una trasposizione filmica degna della sua grandezza.
Dune è cinema allo stato puro, Hollywood nella sua accezione più virtuosa. Villeneuve riesce nel difficile intento di coniugare epica, intrattenimento e umanità, e di condensarlo in un film che per spessore drammaturgico appare come un testo di Shakespeare ambientato nello spazio. Ma Dune non è solo questo. Come detto alla conferenza stampa di Venezia ‘78, il film è anche una metafora di problemi collettivi come l’ambientalismo, l’imperialismo e persino la questione mediorientale.
Vedendo Dune si ha la sensazione che Villeneuve sia partito da un profondo rispetto nei confronti dell’opera di Herbert e che non lo abbia voluto tradire perché sentiva che il testo era già sufficiente per dire moltissime cose. A stupire è il fatto che Villeneuve sia riuscito a mettere d’accordo tutti: Herbert, le esigenze spettacolari di Hollywood, l’appagamento che il pubblico richiede da un film come questo e, infine, persino Jodorowsky che ne voleva fare un testamento spirituale. Ciò che cinquant’anni fa sembrava un’impresa utopica, oggi è realtà.
Sesso sfortunato o follie porno
di Radu Jude
La professoressa di un liceo di Bucarest registra un video erotico con il suo compagno. Il video finisce su PornHub e viene scoperto dai suoi allievi. La donna viene fatta confrontare con l’assemblea dei genitori che devono decidere se sospenderla o meno dal ruolo di insegnante.
Nell’era della bulimia del politicamente corretto avevamo bisogno di un film come Sesso sfortunato o follie porno. Orso d’oro alla Berlinale 2021, l’ottavo film di finzione di Radu Jude è un’opera che solleva importanti questioni morali che hanno contraddistinto numerosi scandali e dibattiti mediatici degli ultimi anni. Fino a che punto sposare una causa per partito preso ci fa essere miopi su ogni caso scandalistico che ci si pone davanti? Quali possono essere le conseguenze di un ingenuo video amatoriale che ci ritrae nella nostra intimità di coppia? Girato durante la pandemia, con personaggi che indossano mascherine chirurgiche per evidenziare i tratti iper-contemporanei degli argomenti trattati, questa perla del cinema autoriale rumeno è un film che non potete perdere.
Scritto da Eric Scabar
Drive My Car
di Ryusuke Hamaguchi
Sono tante le parole utilizzate da Hamaguchi per scavare nell'anima dei personaggi e riversare i loro turbamenti sullo schermo con una naturalezza e una spontaneità disarmanti. Eppure nessuna di queste parole appare superflua o ridondante nell'economia di un'opera che punta e riesce a essere globale partendo da un episodio intimo e comune come l'esperienza della morte.
Le parole dello Zio Vanja di Cechov diventano linguaggio universale, un linguaggio che arriva a travalicare la barriera linguistica e a farsi linguaggio dell'anima. Ed ecco che da un breve racconto di Murakami si arriva a un film di tre ore in cui ogni minuto parla di vita, parla di noi, parla di una natura umana votata da sempre al racconto, mezzo potentissimo per cercare empatia ed esorcizzare paure e dolori che, in fondo, condividiamo con tutti.
France
di Bruno Dumont
Uno sguardo in camera sull'attualità: con France Bruno Dumont porta a nuovi orizzonti la sua personale ricerca di un cinema che arrivi a trascendere il senso stesso dell'immagine. Ed ecco che dentro a una storia che parla prevalentemente di media e di artefazione dell'immagine il regista francese non dimentica i temi a lui più cari come la ricerca spasmodica di umanità in un mondo che sembra sempre più legato al virtuale e all'apparenza, il divario sociale tra le varie etnie e il paternalismo che la classe dominante prova nei confronti di chi si trova più in basso.
Con un registro che ondeggia in continuazione fra il grottesco e il drammatico, France è certamente uno dei film più interessanti dell'anno, ennesima testimonianza di un regista, che qui trova una star come Léa Seydoux in una delle sue più intense interpretazioni, che continua a stupire per la sua capacità di captare tutte le problematiche del suo paese e di metterle in discussione in una prospettiva esistenzialista sempre affascinante.
Scritto da Arturo Garavaglia
La nave sepolta
di Samuel Stone
Stone mette in scena la storia di una delle più importanti scoperte archeologiche d’Inghilterra. Distante dal “cinema archeologico”, The Dig non si incentra su un eroe machista alla Indiana Jones che riesuma creature leggendarie; non c’è nessun Santo Graal, né mummie trash che minacciano l’umanità. È il 1939 e Basil, escavatore autodidatta, viene ingaggiato da Edith per indagare l’origine di alcuni tumuli presenti nella sua tenuta.
Ciò che più affascina è il gioco spazio-temporale. Da un lato, lo scavo, metafora di un mondo passato, una fuga, un luogo incantato di attesa e di turbamenti emotivi; dall’altro, il presente, la malattia di Edith e l’ineluttabile inizio della guerra. I primissimi piani, gli echi lontani dei gabbiani, i cieli striati, i campi lunghi dei colli inglesi dove la figura umana è impercettibile, e ancora la sequenza in cui Basil vive un momento in cui passato e presente si toccano e il tempo perde ogni suo significato. “Dalla prima impronta umana su una parete di roccia, siamo parte di qualcosa di perpetuo. In un certo senso, non moriamo davvero”. The Dig è un film incisivo e velato che merita di rientrare in questa lista.
Malcolm & Marie
di Sam Levinson
Un film che ha spaccato in due la critica, osannato da molti come grandioso dramma sentimentale e demolito da altri per l’eccessivo citazionismo. Prodotto in California in poche settimane nel pieno della pandemia, Malcolm & Marie, girato in 35 mm, scoperchia il vaso di Pandora, liberando gli aspetti più torbidi e spinosi che si nascondono in ogni relazione sentimentale.
Malcolm, regista amato e odiato, torna a casa con Marie dopo l’anteprima del suo nuovo film. La villetta, con le sue mille stanze, è una gabbia che riflette l’incomunicabilità tra i due personaggi, uno spazio stretto per Marie, che vuole scappare, e troppo vasto per Malcolm che la perde di vista in un continuo oscillare tra urla violente e lunghi silenzi. La sceneggiatura è molto densa, così come i monologhi pieni di contenuti autoreferenziali e metanarrativi. La fotografia, in bianco e nero, è elegante e volutamente manieristica, ma la punta di diamante è la veridicità che permea il tessuto narrativo: lo spettatore sa di essere stato, almeno una volta, Malcolm o Marie.
Scritto da Sofia Nanu
Spencer
di Pablo Larrain
Spencer, il film del regista cileno Pablo Larraín sulla Principessa Diana, evita la tradizionale struttura del film biografico e decide di esplorare solo tre giorni delle vacanze di Natale del 1991.
Il film racconta l’isolamento e la paranoia di una donna in balìa delle forze politiche e degli interessi della famiglia reale, e si concentra sul tentativo di resistenza della protagonista, riprendendo il filo conduttore degli ultimi lavori del regista - Jackie nel 2016 ed Ema nel 2020 - in cui esamina proprio il modo in cui queste donne riescono a trovare una via di fuga da determinate dinamiche sociali. In Spencer la visione di Larraín si esprime in sequenze oniriche e dialoghi intrinsechi di metafore, ma è la sincerità con cui Kristen Stewart interpreta il personaggio a far risaltare in maniera così evidente la vacuità morale di ciò che la circonda. Le immagini e la fotografia di Claire Mathon - che fa largo utilizzo di macchina a mano e grandangoli - ci fanno attraversare quei tre giorni dal punto di vista di Diana, alternati e contrastati da inquadrature estremamente simmetriche di lunghi corridoi e scalinate, che ci imprigionano all’interno della tenuta reale insieme alla Principessa.
Mondocane
di Alessandro Celli
“Nella favela nata all’ombra dell’acciaieria, i figli dell’abbandono sopravvivono senza legge.” Si apre così Mondocane, l’opera prima distopica e post-apocalittica del regista Alessandro Celli, prodotto da Matteo Rovere e presentato al 78° Festival di Venezia.
Taranto, da qualche parte in un futuro prossimo. Un territorio semi-abbandonato e devastato dall’inquinamento delle acciaierie dove è la criminalità a comandare, invaso da bande tribali e anarchiche, che si legano ai rituali di famiglie senza padri né madri. I criminali qui sono minorenni a cui è stata strappata l’infanzia, a cui mancano prospettive e punti di riferimento, e che fanno capo ad un Alessandro Borghi nelle vesti di un antieroe destabilizzante e dal fascino ambiguo. Mondocane è il racconto disincantato di un sistema che ha fallito e che ha creato un luogo in cui non c’è più spazio per il domani, anche se si è giovani. Il titolo stesso vuole quasi essere un grido verso il correre del tempo, l’infanzia rubata e le regole crudeli della strada. L’estetica punk ci fa ripensare a Mad Max, anche se l’immaginario delle acciaierie si afferma in maniera tutta italiana sul piano politico e sociale, combinando insieme suggestioni provenienti da passato, presente e futuro.
Scritto da Vittoria Colangelo
Bo Burnham: Inside
di Bo Burnham
“Her favorite photo of her mom
The caption says, "I can′t believe it
It's been a decade since you′ve been gone
Mama, I miss you, I miss sitting with you in the front yard
Still figuring out how to keep living without ya
It's got a little better but it′s still hard
Mama, I got a job I love and my own apartment
Mama, I got a boyfriend and I'm crazy about him
Your little girl didn't do too bad
Mama, I love you, give a hug and kiss to dad"
White Woman’s Instagram (canzone estratta dal film)
Non si potrebbero trovare parole migliori di queste per racchiudere un intero anno e, specialmente, un’intera generazione legata indissolubilmente all'interazione social. Guardare oggi Inside è un po’ come essere un giovane del 1969 che vede Neil Armstrong mettere piede sulla Luna per la prima volta. È glorificare il coraggio umano davanti all’impossibile che, in questo caso, si traduce nel dare vita a un film folle e, oserei dire, necessario (per la sua forte critica sociale e per il momento in cui è stato girato), messo in piedi in solitaria in un’unica stanza, senza alcun aiuto fisico.
Artista, interprete e unico spettatore di se stesso, Bo Burnham crea un’opera contemporanea, un ibrido tra ogni forma possibile di audiovisivo (cinema, televisione, videoclip ecc.), invidia di qualsiasi aspirante dop o videomaker. Un intrattenimento costruito in primis per se stesso, per non scoraggiarsi nei mesi di lockdown, ma diventato ora l’intrattenimento condiviso da chiunque guardi il film e abbia vissuto quella sua stessa esperienza. Inside è in sostanza il film che tutti avremmo voluto girare in quel periodo nero che è stato il 2020.
Cow
di Andrea Arnold
Andrea Arnold è una delle poche registe al mondo che riesce a raccontare storie lontane dalla propria esperienza personale e, nonostante questo, a entrare di petto nella psicologia dei suoi personaggi, senza lasciare nulla al caso. Già dalla sua predilezione per la camera a mano, in qualche modo umanizzandola, se ne deduce lo spirito creativo, improntato quasi a conoscere la storia mentre le si dispiega davanti, senza avere a priori idea di come possa concludersi, lasciandosi guidare dal soggetto scelto.
E’ questo il caso di Cow, il suo ultimo documentario presentato a Cannes, che segue la monotona vita di una mucca di nome Luma. La Arnold ci porta dentro al mondo di Luma al punto tale da permetterci di percepirla come un’amica di lunga data. Cow, tuttavia, non si limita ad essere questo: è l’ineludibile presa di coscienza che siamo tutti destinati a un fato già scritto, seppure si tenti disperatamente di rendere la propria vita in qualche modo unica rispetto alle altre. Luma incarna così, pur non essendo umana, il fatale destino dell’umanità.
Scritto da Aurealiana Bontempo
À plein temps
di Eric Gravel
Julie è una giovane donna che vive fuori Parigi con due figli piccoli e lavora come capocameriera in un hotel di lusso in centro. Le sue giornate procedono all’insegna di una routine logorante, nello spasmodico tentativo di trovare il tempo da dedicare ai figli, alle spese da pagare, ai turni da coprire e alle occasioni per cercare un lavoro migliore.
À plein temps parla della moderna alienazione di una donna alle prese con il proprio tempo: tempo quasi privo di senso perché sempre devoluto a interminabili odissee nel trasporto pubblico, alle esigenze altrui e alle aspettative sociali. Come in ogni alienazione, Julie non riesce più a vedersi da fuori né a comprendere cosa sia davvero importante per lei e per i propri figli. A calarci nel respiro affannato di Julie è la meravigliosa regia di Eric Gravel, che fa di questa vicenda urbana, carica di un realismo sociale degno dei Dardenne, un racconto di tensione al pari di un film d’azione, come a dire che non servono intrighi di spie o sparatorie per indurre agitazione nello spettatore: il rischio di perdere un autobus, a volte, è molto più da brividi.
Scritto da Lorenzo Vitrone
Titane
di Julia Ducournau
Luglio 2021: Julia Ducournau è la seconda donna nella storia a vincere la Palma d’Oro del festival di Cannes. A trionfare infatti è Titane, secondo e folgorante lungometraggio della giovane regista francese. Olio di motore, carne viva e corpi martoriati, nulla è lasciato al caso in questo intenso dramma sul ritorno a casa. Titane è un corpo in continuo mutamento e progressivamente perde i suoi strati di pelle per avvicinarsi alla sua reale essenza. Un’essenza fatta di amore, inteso come sentimento declinato nella sua forma più pura e impossibile.
Alexia e Vincent sono divorati da una sofferenza atavica, generata dalla necessità di amare e sentirsi amati. Alexia rifiuta la sua famiglia d’origine e il suo padre biologico, e incontra Vincent che dal canto suo ha bisogno di amare ancora qualcuno nella maniera più pura e incondizionata che esista. Titane è un film contemporaneo che guarda al futuro, impossibile da racchiudere in una forma o in un genere, forte della sua identità fluida, aperta e mutante.
Petite Maman
di Céline Sciamma
Nelly ha otto anni quando, a seguito della perdita della sua amata nonna, torna con i genitori nella casa d’infanzia di sua madre. Dopo aver esplorato la casa decide di passeggiare per i boschi circostanti, gli stessi dei racconti di sua madre, Marion, che da bambina giocava lì intorno e aveva costruito una casetta tra gli alberi. Un giorno sua madre parte all’improvviso e Nelly incontra una bambina della sua età di nome, guarda caso, Marion.
Una storia in apparenza piccolissima quella di Petite Maman. Una bambina deve affrontare un lutto e incontra la propria madre a sua volta bambina. Eppure nella delicatezza e nella semplicità del racconto di Céline Sciamma è possibile leggere con chiarezza tutta la sua poetica espressiva. L’estrema purezza dello sguardo della regista racconta la dolorosa necessità di elaborare la perdita della vita, che viene poco a poco alleviata dalla possibilità di ri-viverla in un altro tempo. Petite Maman è un gioiello prezioso, piccolo ma solo apparentemente, perché in grado di illuminare con la sua potenza anche la più buia delle notti.
Scritto da Diana Incorvaia
Memoria
di Apichatpong Weerasethakul
Una donna viene svegliata da un boato nel cuore della notte. Ossessionata da questo suono, ne indagherà l’origine e la natura in un viaggio tra spazio e tempo nelle terre colombiane, fino alla straordinaria epifania finale.
Si è soliti pensare al privilegio della sala come puramente visivo, al cinema come unico luogo in cui la portata delle immagini può essere fruita e ammirata appieno. Ma l’esperienza cinematografica passa in egual misura anche dal sonoro, e l’ultimo film di Weerasethakul, che proprio per questo ha optato per una particolare strategia di distribuzione, sembra volercelo ricordare. Il boato primordiale che sconvolge la protagonista e che si ripresenta in modo del tutto imprevedibile nel corso del film fa letteralmente tremare le poltrone e sussultare l’uditorio: così ci uniamo a Tilda Swinton nella sua ricerca, tra personaggi che sembrano usciti da un racconto di Borges e discese nella memoria e nel tempo che possiamo solo sentire.
The French Dispatch
di Wes Anderson
In un’immaginaria cittadina francese, l’ultimo numero di una rivista statunitense, una sorta di necrologio collettivo per la morte del direttore, prende vita sotto forma di racconto cinematografico.
Sentirete parlare di manierismo per un regista che su di esso ha costruito il proprio cinema; di assenza di pathos ed empatia per un film che viaggia apertamente su altri binari, quelli del cinismo e dell’ironia sottile; di inconsistenza per un racconto che, dietro la struttura del film a episodi, rivela un impeccabile meccanismo narrativo fondato sul ritmo frenetico e sul susseguirsi di trovate registiche. Non sentirete invece criticare il suo comparto tecnico e scenografico, che inquadratura dopo inquadratura conferisce al film quell’inconfondibile estetica e quello stile che fanno di Wes Anderson un autore nel senso che la Nouvelle Vague dava al termine. Composizione, colori, simmetrie, inserti animati, omaggi a Jacques Tati e alla storia (dell’arte e non) del Novecento, tutto concorre al grande affresco del regista, alla sua poetica, alla sua idea di cinema.
Scritto da Luigi Muneratto
Il buco
di Michelangelo Frammartino
Il “buco” in questione è meglio conosciuto come l’Abisso del Bifurto, una grotta profonda 683 metri all’interno del parco nazionale del Pollino (Calabria) che venne scoperta da un gruppo di speleologi nel 1961. La spedizione viene ricreata nel film vincitore del Premio Speciale della Giuria a Venezia 78 in un insolito ibrido tra finzione e documentario.
Frammartino è sempre stato un cineasta estremo, sia per i soggetti dei suoi film che per il suo approccio registico, ma l’uso di questo aggettivo non è mai stato così opportuno come per descrivere la realizzazione della sua ultima impresa cinematografica. Le riprese sono state una vera e propria spedizione geologica, con la troupe che spesso iniziava a calarsi nella grotta all’alba per arrivare fino a una profondità di più di 400 metri. Come anche esplicitato nel film – che contrappone la discesa nel buio del Bifurto alla costruzione del grattacielo Pirelli a Milano– con Il buco Frammartino dà vita a un cinema fortemente in opposizione con il panorama attuale, capace di prendere una posizione sia artistica che politica.
The Green Knight
di David Lowery
Dopo aver diretto l’uscita di scena di Robert Redford con The Old Man & the Gun nel 2018, Lowery torna ad accasarsi con A24 per realizzare uno dei film più sorprendenti e ambiziosi dell’anno. The Green Knight è una rivisitazione del poema epico ‘Sir Galvano e il Cavaliere Verde’ risalente al tardo XIV secolo da autore ignoto, che riesce grazie al casting di Dev Patel nel ruolo del protagonista a rispolverare un genere cinematografico quasi del tutto scomparso. Il film di Lowery affianca alla narrativa medievale e tradizionale una visione cinematografica degna della sperimentazione autoriale più incallita, dando vita a un viaggio onirico capace di rivoluzionare la figura del cavaliere all’interno dell'immaginario collettivo.
Realizzato usando per lo più effetti speciali pratici e sfondi dipinti a mano per manipolare le prospettive, The Green Knight è un film più unico che raro che prende saldamente posto alla tavola rotonda dei film di Natale migliori di sempre.
Scritto da Rodrigo Mella
A Chiara
di Jonas Carpignano
Il film chiude la trilogia di Gioia Tauro e si caratterizza a tutti gli effetti come un film d’addio a quella terra che il regista ha vissuto da vicino per dieci anni. Bisogna avvicinarsi il più possibile per intravedere le sfumature del reale e, addentrandoci in questa regione così complessa, capiamo che questa non è un’altra storia sulla ‘ndrangheta ma la storia di una famiglia che vive, ride e litiga esattamente come tutte le altre e in cui la criminalità è solo una componente inevitabile.
A Chiara è un racconto di formazione, è il ritratto di un’umanità schiacciata da una visione stereotipata e una celebrazione del legame familiare e del senso di appartenenza che esso comporta. Al centro della storia c’è una famiglia vera, ma la premessa del cinema del reale viene smorzata dall’inserimento di immagini quasi oniriche e da musiche extradiegetiche che non sempre si sposano con la crudezza delle immagini, come a volerci far estraniare da una realtà sgradevole mettendoci le cuffiette della protagonista nelle orecchie. Carpignano, con la sua macchina a mano, ci dona un potente racconto di ribellione e di scelte destinate a cambiarci.
Scritto da Bianca Susi
Red Rocket
di Sean Baker
Sulle note di “Bye Bye Bye” degli NSYNC inizia Red Rocket, settimo lungometraggio di Sean Baker, che si apre con il ritorno dell’ex pornodivo Mickey Saber in un paesino del Texas che aveva abbandonato anni prima e che ora rappresenta l’unica opportunità per ricominciare una nuova vita. Sfruttando amici di vecchia data, la moglie da cui si è separato e una giovane diciassettenne che lavora in un donut shop, Mickey proverà a rientrare nell’industria a luci rosse di Los Angeles.
Sean Baker si dimostra ancora una volta una delle voci più interessanti del panorama indie con questa commedia dai toni satirici, dove il regista continua a mostrare i lati più emarginati degli Stati Uniti. Girato in 16mm e con un cast di attori non professionisti, Red Rocket mostra le avventure di questo personaggio alquanto sgradevole, che farebbe di tutto per raggiungere il proprio obiettivo, attraendo e danneggiando a sua volta ogni persona che incontra. Anche il pubblico si sentirà incantato e attratto nella rete di sotterfugi architettati da Mickey, grazie soprattutto alla sorprendente performance carismatica di Simon Rex.
A Hero
di Asghar Farhadi
Rahim è un giovane ragazzo iraniano finito in carcere a causa di un debito. Durante un permesso di due giorni, trova casualmente una borsa piena d’oro che lo aiuterebbe a ripagare i debiti e costruirsi un futuro.
Che cos’è un eroe? E quali sono le conseguenze e le motivazioni di certi gesti? Ashgar Farhadi utilizza questo incipit per dirigere l’ennesimo dramma familiare in grado di rispecchiare lo stato sociale di una nazione. Scritto magistralmente, con un continuo crescendo di tensione e barcollando sulla sottile linea che separa la verità dalla menzogna, il regista iraniano ci mostra le ripercussioni delle scelte di Rahim, non solo per sé stesso, ma anche per la propria famiglia. In una grande performance Amir Jadidi, interprete di Rahim, riesce a trasmettere lo stato angosciante e paranoico che il suo personaggio sta affrontando, cercando di mantenere sempre quel sorriso ottimista che lo contraddistingue.
Il gioco del destino e della fantasia
di Ryusuke Hamaguchi
Un triangolo amoroso inaspettato, una seduzione con secondi fini e un incontro casuale nato da un’incomprensione sono le basi dei tre racconti diretti da Ryūsuke Hamaguchi nel suo primo film del 2021, vincitore del Gran Premio della Giuria nell’edizione di quest’anno della Berlinale.
I tre racconti, non collegati tra loro, se non tematicamente, racchiudono gli incontri fortuiti che condizionano la vita di tutti i giorni e quei momenti di fantasia che ci permettono di evadere dalla realtà quotidiana. Tra Rohmer, Hong e Rivette (quest’ultimo soprattutto nel terzo racconto), Hamaguchi dirige un’opera dal tono giocoso e misterioso, in grado di esprimere il desiderio e la ricerca di una connessione con l’altro. Scritto in maniera raffinata e recitato egregiamente, Wheel of Fortune and Fantasy non solo è uno dei film più piacevoli usciti quest’anno, ma rappresenta anche il punto ideale per iniziare ad approfondire la filmografia dell’acclamato regista giapponese.
Scritto da Omar Franini
È stata la mano di Dio
di Paolo Sorrentino
Dopo anni di sonore rappresentazioni delle complessità dell’apparato umano, Sorrentino, per narrare la consistenza dei ricordi, sceglie il silenzio. E, seguendo i rumori dell’estate e degli anni ‘80, con autoironia e timidezza, torna a visitare un posto dove nel suo cuore tira sempre il vento: la Napoli della sua adolescenza.
Così, prendendendo per mano lo spettatore, il regista ripercorre il museale lungomare della propria memoria, dove gli sguardi si posano sui personaggi come le onde s'infrangono sugli scogli, e si tuffa in un mare di incontri, scherzi e inadeguatezze. Con i maestri alle spalle e i grandi amori negli occhi, il pubblico, insieme a Fabietto, abbandona le sacre sponde del passato e compra il biglietto di un treno che ferma nella città dolente. Tra le braccia del futuro e della baronessa, i segreti che pensavamo fossero perduti negli abissi sono stati prontamente conservati, per poi essere restituiti al momento opportuno.
Scritto da Alice De Luca
Freaks Out
di Gabriele Mainetti
Un impianto visivo tanto spettacolare da farci chiedere come siano stati realizzati molti degli aspetti tecnici del film: quante volte capita di domandarselo, con un titolo italiano? Quasi mai. Una strategia di marketing per il cinema come non se ne vedevano da anni, articolata sul diario di bordo del regista e sulla presentazione dei personaggi.
I fantastici quattro di Freaks Out (più un villain da far invidia ai nostri cugini oltreoceano) seguono gli archetipi del bene e del male, della lotta atavica degli oppressi che sfidano gli oppressori. Ma ricollocano anche la narrazione classica in una fiaba fantasy orchestrata da vfx e movimenti di macchina acrobatici. Con un planning di lavorazione avviato già nel 2018 e una folle operazione di pre e post produzione, Mainetti torna alla regia dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e costruisce un film a cui, se fossimo stati americani, avremmo concesso la fiducia cieca che si riserva ai colossal. E al grande cinema che fa sognare.
Scritto da Chiara Del Zanno
Annette
di Leos Carax
Dopo nove anni di silenzio, il regista francese Leos Carax torna e apre Cannes (vincendo come miglior regista) con il suo primo lungometraggio in lingua inglese: un musical. Annette è il titolo del film nonché il nome della figlia (rappresentata come un burattino senza fili) dei due protagonisti, Adam Driver e Marion Cotillard. Lui è uno stand-up comedian dai modi aggressivi, lei una soprano dai modi eleganti e pacati. Il pubblico li ama, l’amore tra i due è travolgente, ma ben presto finisce in tragedia. Invidia, vendetta e bassi istinti tipici del successo e della celebrità affiorano tutti, nessuno escluso.
“L’enfant terrible” del cinema francese è solito sovvertire e distruggere i generi che sperimenta, portandoli al loro estremo e svuotandoli dall’interno per farne emergere tutti i paradossi. Come in Holy Motors, è chiaro l’intento metacinematografico: non solo in parte parla della sua storia famigliare, ma è il regista stesso (insieme a sua figlia) ad apparire a inizio film e ammonire il pubblico di concentrarsi perché lo spettacolo sta per iniziare! E che spettacolo, suono e musica (degli Sparks) sono importanti tanto quanto le immagini. E sono tutti molto forti e incisivi. Annette è un viaggio totale e totalizzante che trasuda creatività allo stato puro tenendo chiunque lo guardi incollato allo schermo.
Re Granchio
di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis
Dopo essere stato applaudito alla Quinzaine des Réalisateurs dell’ultimo Festival di Cannes, a dicembre è arrivato in sala Re Granchio, un gioiellino cinematografico co-diretto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis che racchiude in sé realismo magico, mitologia, western e racconto popolare.
Tutto gira intorno alla figura di Luciano, l’ubriacone del villaggio. Luciano non è un attore, ma un artista che vive a Roma e si chiama Gabriele Silli. Accanto a lui c’è Emma, la sua amata, che molti ricorderanno come la Gelsomina de Le meraviglie di Alice Rohrwacher, Maria Alexandra Lungu. Fanno da sfondo la Tuscia e la Terra del Fuoco in Sudamerica, due luoghi così lontani e diversi da essere lo spartiacque tra i due atti del film solo apparentemente scollati, ma che invece trovano coesione in un finale che chiude la struttura ad anello. Un progetto spiazzante, unico nel suo genere, atipico nel panorama cinematografico italiano e non. Un ibrido di genere che però funziona in quanto specchio di quello che racconta: leggenda, tradizione popolare, mito senza fonti certe se non il fatto di essere tramandate oralmente. Un esperimento cinematografico che ha aperto la strada a due giovani e audaci registi.
Scritto da Giulia Capogna
Old
di M. Night Shyamalan
La vacanza di una famiglia in un lussuoso resort si tramuta in incubo quando questa rimane intrappolata su una spiaggia dagli incredibili poteri.
Old è l’ennesima prova del talento del suo autore, in grado come pochi altri nel panorama odierno di coniugare l’intrattenimento e la riflessione su temi universali attraverso una sapienza registica che ricorda quella di Hitchcock e De Palma. L’ambizione di Shyamalan è smisurata, così paradossale da farsi filosofica: filmare l’intero scorrere di una vita, governare il tempo e farne strumento di narrazione. Quanto dura una vita? Quanto dura un film? L’illusione che li fonda entrambi è della stessa natura? Come sempre nel cinema del regista d’origine indiana un dramma personale diviene metafora per raccontare il malessere e l’intolleranza della società americana. Old racconta insieme l’orrore dell’esistenza e la tenerezza che le dona un senso, avendo il coraggio di porsi domande cruciali e l’umiltà di rispondere attraverso un cinema popolare, capace di affascinare e impensierire.
Scritto da Andrea Tiradritti
The Card Counter
di Paul Schrader
Tutte le ossessioni che con caparbia insistenza hanno caratterizzato il percorso filmico e intellettuale di Paul Schrader si manifestano anche in The Card Counter, film in cui William Tell si rivela essere solo l'ultimo esemplare schraderiano di protagonista afflitto dai traumi del passato.
Ex militare e detenuto nonché provetto giocatore d’azzardo, quello incarnato da Oscar Isaac non si affranca del tutto da altri personaggi caratterizzati dal fardello della colpa, dal gusto per il rituale e dal bisogno di auto-confessarsi, ma ne costituisce l’ultima incarnazione. L’incontro col giovane Cirk (Taylor Sheridan) e con l’affascinante La Linda (Tiffany Haddish) obbliga infatti l'asso del blackjack a inserirsi in quel medesimo percorso tracciato da gigolò, spacciatori e sacerdoti prima di lui, e che vede nell'oscillazione fra la spirale di vendetta e la mano tesa del gesto miracoloso un'ulteriore e significativa variazione sul tema della redenzione.
Marx può aspettare
di Marco Bellocchio
La ri-elaborazione del lutto a lungo taciuta, nascosta in un angolo per così tanto tempo da diventare proprio per questo non più rinviabile, un’occasione per guardare con occhio critico se stessi, la propria arte e le proprie scelte, i legami ereditati e come li si è vissuti e coltivati nel tempo.
Quel Sangue del mio sangue che in Marco Bellocchio volutamente o inconsciamente è sempre stato un leitmotiv, una presenza sfuggente ma rintracciabile a cavallo fra tante sue opere, in Marx può aspettare diventa il fulcro di un'indagine che mira a fare del documentario a trazione famigliare la circostanza più adatta per una lucida (per quanto a tratti feroce) ammissione di responsabilità. La riunione di famiglia, tramite il dialogo a più voci e la giustapposizione di materiale privato ed eterogeneo, prova a spiegare (e a spiegarsi) le cause dell’inadeguatezza e del gesto estremo del fratello gemello di Marco, Camillo, ma non può risolverne l’enigma in maniera univoca. Pur nell’impossibilità di assolvere i colpevoli o presunti tali e di ridare voce a chi di essa si è voluto privare, in Marx può aspettare l’immagine cinematografica si rivela capace di lenire il dolore e creare idealmente le condizioni di ripristino di quel dialogo venuto tragicamente a mancare.
Flee
di Jonas Poher Rasmussen
Nel film di Jonas Poher Rasmussen animazione e documentario uniscono le forze per dare corpo e voce alla storia di Amin, ricercatore universitario in Danimarca che per la prima volta trova la forza di raccontare il proprio traumatico passato da rifugiato.
Una vita vissuta in perenne clandestinità fra l'addio forzato all'Afghanistan e l’approdo verso un altrove continuamente negato, ridiscusso e dunque mai veramente tale, nel repentaglio della propria incolumità e di quella dei propri cari. L'oggettiva difficoltà di maturare un percorso individuale quando nascondere la propria identità (civile, politica, sessuale) diventa l'unico strumento possibile per salvaguardare la propria esistenza: è questo che Flee mette sapientemente in scena, tra il filtro della riconfigurazione animata e il rispetto dell'aderenza documentale. Insieme al rapporto di amicizia esistente fra il regista e il protagonista, queste diventano garanzia e condizioni di espressione di un io che può finalmente riconnettersi con se stesso attraverso il proprio racconto.
Scritto da Piero Di Bucchianico
The Power of the Dog
di Jane Campion
George Burbank gestisce una proprietà nel Montana assieme al fratello Phil. Quando George sposa la vedova Rose e la porta a vivere al ranch, Phil intraprende contro la donna un’estenuante guerra psicologica. In questo scontro sarà coinvolto anche Peter, il figlio che Rose ha avuto dal precedente matrimonio. Ma non tutto è come sembra.
Jane Campion vince per la miglior regia a Venezia 2021 con un’opera complessa e ambigua. The Power of the Dog è un film popolato da figure che nella loro «tormentata disarmonia» risultano tremendamente realistiche. Questa impeccabile e delicata costruzione dei personaggi è data, oltre che da un cast di prim’ordine, dalle brillanti doti di direttrice d’attori che hanno sempre contraddistinto lo stile dell’autrice. La regista tende, come in gran parte del suo cinema, a usare il paesaggio come proiezione dell’universo interiore dei protagonisti. Le vallate, i fiumi e le grandi ombre disegnate dalle nuvole sulle montagne si fanno simboli di muta rabbia e rancori sopiti. Lo sguardo lirico e straniante di Campion dosa la tensione fino all’esplosione raggelante del finale.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Qui rido io
di Mario Martone
Nella Napoli degli inizi del ‘900, il teatro è al centro del dibattito politico e sociale. L’attore Eduardo Scarpetta inscena la sua spettacolare comicità circondato da mogli, amanti, figli legittimi e illegittimi.
Presentato in concorso alla 78ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Qui rido io è una lettera d’amore per il teatro. Mario Martone conferma le sue doti registiche scegliendo di focalizzare l’azione sui dettagli più intimi della vita del protagonista. Eduardo Scarpetta è il capo di una tribù familiare che dirige a teatro così come nella vita. La macchina da presa segue l’attore da dietro le quinte fino al suo ingresso trionfale in scena, ma quando la maschera comincia a cadere anche l’uomo mostra le sue fragilità. Un teatro nel teatro fatto di debutti e insuccessi, una sorta di fusione tra il palco e la realtà, dove tutto il mondo rappresentato diventa palcoscenico. Da attore a spettatore, Scarpetta vive ogni giorno come un atto della stessa infinita commedia, la sua. E poi c’è Napoli, con le sue canzoni e le sue atmosfere, in un contesto non tanto diverso dal nostro. Per queste ragioni, Qui rido io è tra i film più interessanti del 2021.
Scritto da Francesca Accurso
La nostra selezione dei migliori film
usciti nell'anno della ripartenza,
scritto da redazione ODG
TR-45
24.12.2021
Si conclude il 2021. Per il cinema è stato un anno di faticosa ripresa. Molti festival sono tornati in presenza, le sale hanno riaperto le proprie porte e, visto anche l’inevitabile effetto accumulo che si è creato per la pandemia, tante sono state le opere degne di nota. I premi di Cannes e Venezia faranno forse ricordare quest’anno come uno dei più imprevedibili e importanti degli ultimi tempi: un anno di rottura e rinascita, nel quale lavori di grandi autori e interessanti opere di registi emergenti hanno testimoniato la resistenza del cinema, la vitalità delle sue narrazioni e le diverse possibilità espressive offerte dal suo linguaggio.
Mai come quest’anno la presenza femminile, sia dietro che davanti la macchina da presa, ha contraddistinto la narrazione del cinema d’autore.
L’oscar al miglior film e alla migliore regia del 2021 è stato assegnato a una donna (Chloé Zhao). A Cannes e Venezia a vincere rispettivamente Palma D’oro e Leone D’oro sono state due donne (francesi). La maternità e i difficili rapporti con essa sono stati oggetto di indagine ed esplorazione per moltissime tra le migliori pellicole proposte quest’anno.
Ed ecco finalmente arrivati alla nostra selezione dei migliori film di quest'anno presentati ai festival, in streaming o usciti nelle sale italiane a partire da gennaio scorso. Dall’Asia al Sudamerica, passando per Hollywood e il Vecchio Continente, ecco i titoli che hanno segnato questo 2021.
La persona peggiore del mondo
di Joachim Trier
Una ragazza qualunque, ad Oslo, oggi. Joachim Trier sceglie di raccontarci la storia di Julie (Renate Reinsve, Miglior attrice a Cannes 2021), una giovane donna che, semplicemente, vive. Lo fa in modo onesto, talmente onesto da rivelarsi inaspettato.
Julie non sa bene cosa fare del suo presente, figurarsi del futuro. Si destreggia come può tra le relazioni, le professioni, il rapporto con il padre, ma sembra scontrarsi sempre con un’unica costante: l’incertezza. Ha 20 anni e una moltitudine di domande a cui rispondere: vuole avere dei figli? Quale sarà la sua professione? Le piace la vita stabile di commessa in libreria o vuole vivere diversamente, con più libertà e spensieratezza? Il tradimento è davvero così sbagliato? Julie non lo sa ma ci prova. È l’incertezza che la muove nel cercare risposte all’interno di sé. The Worst Person in the World è un viaggio in dodici capitoli, un invito a non scoraggiarsi, a riprovare, ad ascoltarsi, a non colpevolizzarsi, a scoprirsi pian piano.
Scritto da Maria Clara Taglienti
Dune
di Denis Villeneuve
“Ecco, qualcuno adesso ci è davvero riuscito.” Chissà se è stato questo il pensiero di Jodorowsky alla visione dell'adattamento di Villeneuve. Il leggendario romanzo di Herbert (tutt’ora il romanzo di fantascienza più venduto al mondo) ha oggi una trasposizione filmica degna della sua grandezza.
Dune è cinema allo stato puro, Hollywood nella sua accezione più virtuosa. Villeneuve riesce nel difficile intento di coniugare epica, intrattenimento e umanità, e di condensarlo in un film che per spessore drammaturgico appare come un testo di Shakespeare ambientato nello spazio. Ma Dune non è solo questo. Come detto alla conferenza stampa di Venezia ‘78, il film è anche una metafora di problemi collettivi come l’ambientalismo, l’imperialismo e persino la questione mediorientale.
Vedendo Dune si ha la sensazione che Villeneuve sia partito da un profondo rispetto nei confronti dell’opera di Herbert e che non lo abbia voluto tradire perché sentiva che il testo era già sufficiente per dire moltissime cose. A stupire è il fatto che Villeneuve sia riuscito a mettere d’accordo tutti: Herbert, le esigenze spettacolari di Hollywood, l’appagamento che il pubblico richiede da un film come questo e, infine, persino Jodorowsky che ne voleva fare un testamento spirituale. Ciò che cinquant’anni fa sembrava un’impresa utopica, oggi è realtà.
Sesso sfortunato o follie porno
di Radu Jude
La professoressa di un liceo di Bucarest registra un video erotico con il suo compagno. Il video finisce su PornHub e viene scoperto dai suoi allievi. La donna viene fatta confrontare con l’assemblea dei genitori che devono decidere se sospenderla o meno dal ruolo di insegnante.
Nell’era della bulimia del politicamente corretto avevamo bisogno di un film come Sesso sfortunato o follie porno. Orso d’oro alla Berlinale 2021, l’ottavo film di finzione di Radu Jude è un’opera che solleva importanti questioni morali che hanno contraddistinto numerosi scandali e dibattiti mediatici degli ultimi anni. Fino a che punto sposare una causa per partito preso ci fa essere miopi su ogni caso scandalistico che ci si pone davanti? Quali possono essere le conseguenze di un ingenuo video amatoriale che ci ritrae nella nostra intimità di coppia? Girato durante la pandemia, con personaggi che indossano mascherine chirurgiche per evidenziare i tratti iper-contemporanei degli argomenti trattati, questa perla del cinema autoriale rumeno è un film che non potete perdere.
Scritto da Eric Scabar
Drive My Car
di Ryusuke Hamaguchi
Sono tante le parole utilizzate da Hamaguchi per scavare nell'anima dei personaggi e riversare i loro turbamenti sullo schermo con una naturalezza e una spontaneità disarmanti. Eppure nessuna di queste parole appare superflua o ridondante nell'economia di un'opera che punta e riesce a essere globale partendo da un episodio intimo e comune come l'esperienza della morte.
Le parole dello Zio Vanja di Cechov diventano linguaggio universale, un linguaggio che arriva a travalicare la barriera linguistica e a farsi linguaggio dell'anima. Ed ecco che da un breve racconto di Murakami si arriva a un film di tre ore in cui ogni minuto parla di vita, parla di noi, parla di una natura umana votata da sempre al racconto, mezzo potentissimo per cercare empatia ed esorcizzare paure e dolori che, in fondo, condividiamo con tutti.
France
di Bruno Dumont
Uno sguardo in camera sull'attualità: con France Bruno Dumont porta a nuovi orizzonti la sua personale ricerca di un cinema che arrivi a trascendere il senso stesso dell'immagine. Ed ecco che dentro a una storia che parla prevalentemente di media e di artefazione dell'immagine il regista francese non dimentica i temi a lui più cari come la ricerca spasmodica di umanità in un mondo che sembra sempre più legato al virtuale e all'apparenza, il divario sociale tra le varie etnie e il paternalismo che la classe dominante prova nei confronti di chi si trova più in basso.
Con un registro che ondeggia in continuazione fra il grottesco e il drammatico, France è certamente uno dei film più interessanti dell'anno, ennesima testimonianza di un regista, che qui trova una star come Léa Seydoux in una delle sue più intense interpretazioni, che continua a stupire per la sua capacità di captare tutte le problematiche del suo paese e di metterle in discussione in una prospettiva esistenzialista sempre affascinante.
Scritto da Arturo Garavaglia
La nave sepolta
di Samuel Stone
Stone mette in scena la storia di una delle più importanti scoperte archeologiche d’Inghilterra. Distante dal “cinema archeologico”, The Dig non si incentra su un eroe machista alla Indiana Jones che riesuma creature leggendarie; non c’è nessun Santo Graal, né mummie trash che minacciano l’umanità. È il 1939 e Basil, escavatore autodidatta, viene ingaggiato da Edith per indagare l’origine di alcuni tumuli presenti nella sua tenuta.
Ciò che più affascina è il gioco spazio-temporale. Da un lato, lo scavo, metafora di un mondo passato, una fuga, un luogo incantato di attesa e di turbamenti emotivi; dall’altro, il presente, la malattia di Edith e l’ineluttabile inizio della guerra. I primissimi piani, gli echi lontani dei gabbiani, i cieli striati, i campi lunghi dei colli inglesi dove la figura umana è impercettibile, e ancora la sequenza in cui Basil vive un momento in cui passato e presente si toccano e il tempo perde ogni suo significato. “Dalla prima impronta umana su una parete di roccia, siamo parte di qualcosa di perpetuo. In un certo senso, non moriamo davvero”. The Dig è un film incisivo e velato che merita di rientrare in questa lista.
Malcolm & Marie
di Sam Levinson
Un film che ha spaccato in due la critica, osannato da molti come grandioso dramma sentimentale e demolito da altri per l’eccessivo citazionismo. Prodotto in California in poche settimane nel pieno della pandemia, Malcolm & Marie, girato in 35 mm, scoperchia il vaso di Pandora, liberando gli aspetti più torbidi e spinosi che si nascondono in ogni relazione sentimentale.
Malcolm, regista amato e odiato, torna a casa con Marie dopo l’anteprima del suo nuovo film. La villetta, con le sue mille stanze, è una gabbia che riflette l’incomunicabilità tra i due personaggi, uno spazio stretto per Marie, che vuole scappare, e troppo vasto per Malcolm che la perde di vista in un continuo oscillare tra urla violente e lunghi silenzi. La sceneggiatura è molto densa, così come i monologhi pieni di contenuti autoreferenziali e metanarrativi. La fotografia, in bianco e nero, è elegante e volutamente manieristica, ma la punta di diamante è la veridicità che permea il tessuto narrativo: lo spettatore sa di essere stato, almeno una volta, Malcolm o Marie.
Scritto da Sofia Nanu
Spencer
di Pablo Larrain
Spencer, il film del regista cileno Pablo Larraín sulla Principessa Diana, evita la tradizionale struttura del film biografico e decide di esplorare solo tre giorni delle vacanze di Natale del 1991.
Il film racconta l’isolamento e la paranoia di una donna in balìa delle forze politiche e degli interessi della famiglia reale, e si concentra sul tentativo di resistenza della protagonista, riprendendo il filo conduttore degli ultimi lavori del regista - Jackie nel 2016 ed Ema nel 2020 - in cui esamina proprio il modo in cui queste donne riescono a trovare una via di fuga da determinate dinamiche sociali. In Spencer la visione di Larraín si esprime in sequenze oniriche e dialoghi intrinsechi di metafore, ma è la sincerità con cui Kristen Stewart interpreta il personaggio a far risaltare in maniera così evidente la vacuità morale di ciò che la circonda. Le immagini e la fotografia di Claire Mathon - che fa largo utilizzo di macchina a mano e grandangoli - ci fanno attraversare quei tre giorni dal punto di vista di Diana, alternati e contrastati da inquadrature estremamente simmetriche di lunghi corridoi e scalinate, che ci imprigionano all’interno della tenuta reale insieme alla Principessa.
Mondocane
di Alessandro Celli
“Nella favela nata all’ombra dell’acciaieria, i figli dell’abbandono sopravvivono senza legge.” Si apre così Mondocane, l’opera prima distopica e post-apocalittica del regista Alessandro Celli, prodotto da Matteo Rovere e presentato al 78° Festival di Venezia.
Taranto, da qualche parte in un futuro prossimo. Un territorio semi-abbandonato e devastato dall’inquinamento delle acciaierie dove è la criminalità a comandare, invaso da bande tribali e anarchiche, che si legano ai rituali di famiglie senza padri né madri. I criminali qui sono minorenni a cui è stata strappata l’infanzia, a cui mancano prospettive e punti di riferimento, e che fanno capo ad un Alessandro Borghi nelle vesti di un antieroe destabilizzante e dal fascino ambiguo. Mondocane è il racconto disincantato di un sistema che ha fallito e che ha creato un luogo in cui non c’è più spazio per il domani, anche se si è giovani. Il titolo stesso vuole quasi essere un grido verso il correre del tempo, l’infanzia rubata e le regole crudeli della strada. L’estetica punk ci fa ripensare a Mad Max, anche se l’immaginario delle acciaierie si afferma in maniera tutta italiana sul piano politico e sociale, combinando insieme suggestioni provenienti da passato, presente e futuro.
Scritto da Vittoria Colangelo
Bo Burnham: Inside
di Bo Burnham
“Her favorite photo of her mom
The caption says, "I can′t believe it
It's been a decade since you′ve been gone
Mama, I miss you, I miss sitting with you in the front yard
Still figuring out how to keep living without ya
It's got a little better but it′s still hard
Mama, I got a job I love and my own apartment
Mama, I got a boyfriend and I'm crazy about him
Your little girl didn't do too bad
Mama, I love you, give a hug and kiss to dad"
White Woman’s Instagram (canzone estratta dal film)
Non si potrebbero trovare parole migliori di queste per racchiudere un intero anno e, specialmente, un’intera generazione legata indissolubilmente all'interazione social. Guardare oggi Inside è un po’ come essere un giovane del 1969 che vede Neil Armstrong mettere piede sulla Luna per la prima volta. È glorificare il coraggio umano davanti all’impossibile che, in questo caso, si traduce nel dare vita a un film folle e, oserei dire, necessario (per la sua forte critica sociale e per il momento in cui è stato girato), messo in piedi in solitaria in un’unica stanza, senza alcun aiuto fisico.
Artista, interprete e unico spettatore di se stesso, Bo Burnham crea un’opera contemporanea, un ibrido tra ogni forma possibile di audiovisivo (cinema, televisione, videoclip ecc.), invidia di qualsiasi aspirante dop o videomaker. Un intrattenimento costruito in primis per se stesso, per non scoraggiarsi nei mesi di lockdown, ma diventato ora l’intrattenimento condiviso da chiunque guardi il film e abbia vissuto quella sua stessa esperienza. Inside è in sostanza il film che tutti avremmo voluto girare in quel periodo nero che è stato il 2020.
Cow
di Andrea Arnold
Andrea Arnold è una delle poche registe al mondo che riesce a raccontare storie lontane dalla propria esperienza personale e, nonostante questo, a entrare di petto nella psicologia dei suoi personaggi, senza lasciare nulla al caso. Già dalla sua predilezione per la camera a mano, in qualche modo umanizzandola, se ne deduce lo spirito creativo, improntato quasi a conoscere la storia mentre le si dispiega davanti, senza avere a priori idea di come possa concludersi, lasciandosi guidare dal soggetto scelto.
E’ questo il caso di Cow, il suo ultimo documentario presentato a Cannes, che segue la monotona vita di una mucca di nome Luma. La Arnold ci porta dentro al mondo di Luma al punto tale da permetterci di percepirla come un’amica di lunga data. Cow, tuttavia, non si limita ad essere questo: è l’ineludibile presa di coscienza che siamo tutti destinati a un fato già scritto, seppure si tenti disperatamente di rendere la propria vita in qualche modo unica rispetto alle altre. Luma incarna così, pur non essendo umana, il fatale destino dell’umanità.
Scritto da Aurealiana Bontempo
À plein temps
di Eric Gravel
Julie è una giovane donna che vive fuori Parigi con due figli piccoli e lavora come capocameriera in un hotel di lusso in centro. Le sue giornate procedono all’insegna di una routine logorante, nello spasmodico tentativo di trovare il tempo da dedicare ai figli, alle spese da pagare, ai turni da coprire e alle occasioni per cercare un lavoro migliore.
À plein temps parla della moderna alienazione di una donna alle prese con il proprio tempo: tempo quasi privo di senso perché sempre devoluto a interminabili odissee nel trasporto pubblico, alle esigenze altrui e alle aspettative sociali. Come in ogni alienazione, Julie non riesce più a vedersi da fuori né a comprendere cosa sia davvero importante per lei e per i propri figli. A calarci nel respiro affannato di Julie è la meravigliosa regia di Eric Gravel, che fa di questa vicenda urbana, carica di un realismo sociale degno dei Dardenne, un racconto di tensione al pari di un film d’azione, come a dire che non servono intrighi di spie o sparatorie per indurre agitazione nello spettatore: il rischio di perdere un autobus, a volte, è molto più da brividi.
Scritto da Lorenzo Vitrone
Titane
di Julia Ducournau
Luglio 2021: Julia Ducournau è la seconda donna nella storia a vincere la Palma d’Oro del festival di Cannes. A trionfare infatti è Titane, secondo e folgorante lungometraggio della giovane regista francese. Olio di motore, carne viva e corpi martoriati, nulla è lasciato al caso in questo intenso dramma sul ritorno a casa. Titane è un corpo in continuo mutamento e progressivamente perde i suoi strati di pelle per avvicinarsi alla sua reale essenza. Un’essenza fatta di amore, inteso come sentimento declinato nella sua forma più pura e impossibile.
Alexia e Vincent sono divorati da una sofferenza atavica, generata dalla necessità di amare e sentirsi amati. Alexia rifiuta la sua famiglia d’origine e il suo padre biologico, e incontra Vincent che dal canto suo ha bisogno di amare ancora qualcuno nella maniera più pura e incondizionata che esista. Titane è un film contemporaneo che guarda al futuro, impossibile da racchiudere in una forma o in un genere, forte della sua identità fluida, aperta e mutante.
Petite Maman
di Céline Sciamma
Nelly ha otto anni quando, a seguito della perdita della sua amata nonna, torna con i genitori nella casa d’infanzia di sua madre. Dopo aver esplorato la casa decide di passeggiare per i boschi circostanti, gli stessi dei racconti di sua madre, Marion, che da bambina giocava lì intorno e aveva costruito una casetta tra gli alberi. Un giorno sua madre parte all’improvviso e Nelly incontra una bambina della sua età di nome, guarda caso, Marion.
Una storia in apparenza piccolissima quella di Petite Maman. Una bambina deve affrontare un lutto e incontra la propria madre a sua volta bambina. Eppure nella delicatezza e nella semplicità del racconto di Céline Sciamma è possibile leggere con chiarezza tutta la sua poetica espressiva. L’estrema purezza dello sguardo della regista racconta la dolorosa necessità di elaborare la perdita della vita, che viene poco a poco alleviata dalla possibilità di ri-viverla in un altro tempo. Petite Maman è un gioiello prezioso, piccolo ma solo apparentemente, perché in grado di illuminare con la sua potenza anche la più buia delle notti.
Scritto da Diana Incorvaia
Memoria
di Apichatpong Weerasethakul
Una donna viene svegliata da un boato nel cuore della notte. Ossessionata da questo suono, ne indagherà l’origine e la natura in un viaggio tra spazio e tempo nelle terre colombiane, fino alla straordinaria epifania finale.
Si è soliti pensare al privilegio della sala come puramente visivo, al cinema come unico luogo in cui la portata delle immagini può essere fruita e ammirata appieno. Ma l’esperienza cinematografica passa in egual misura anche dal sonoro, e l’ultimo film di Weerasethakul, che proprio per questo ha optato per una particolare strategia di distribuzione, sembra volercelo ricordare. Il boato primordiale che sconvolge la protagonista e che si ripresenta in modo del tutto imprevedibile nel corso del film fa letteralmente tremare le poltrone e sussultare l’uditorio: così ci uniamo a Tilda Swinton nella sua ricerca, tra personaggi che sembrano usciti da un racconto di Borges e discese nella memoria e nel tempo che possiamo solo sentire.
The French Dispatch
di Wes Anderson
In un’immaginaria cittadina francese, l’ultimo numero di una rivista statunitense, una sorta di necrologio collettivo per la morte del direttore, prende vita sotto forma di racconto cinematografico.
Sentirete parlare di manierismo per un regista che su di esso ha costruito il proprio cinema; di assenza di pathos ed empatia per un film che viaggia apertamente su altri binari, quelli del cinismo e dell’ironia sottile; di inconsistenza per un racconto che, dietro la struttura del film a episodi, rivela un impeccabile meccanismo narrativo fondato sul ritmo frenetico e sul susseguirsi di trovate registiche. Non sentirete invece criticare il suo comparto tecnico e scenografico, che inquadratura dopo inquadratura conferisce al film quell’inconfondibile estetica e quello stile che fanno di Wes Anderson un autore nel senso che la Nouvelle Vague dava al termine. Composizione, colori, simmetrie, inserti animati, omaggi a Jacques Tati e alla storia (dell’arte e non) del Novecento, tutto concorre al grande affresco del regista, alla sua poetica, alla sua idea di cinema.
Scritto da Luigi Muneratto
Il buco
di Michelangelo Frammartino
Il “buco” in questione è meglio conosciuto come l’Abisso del Bifurto, una grotta profonda 683 metri all’interno del parco nazionale del Pollino (Calabria) che venne scoperta da un gruppo di speleologi nel 1961. La spedizione viene ricreata nel film vincitore del Premio Speciale della Giuria a Venezia 78 in un insolito ibrido tra finzione e documentario.
Frammartino è sempre stato un cineasta estremo, sia per i soggetti dei suoi film che per il suo approccio registico, ma l’uso di questo aggettivo non è mai stato così opportuno come per descrivere la realizzazione della sua ultima impresa cinematografica. Le riprese sono state una vera e propria spedizione geologica, con la troupe che spesso iniziava a calarsi nella grotta all’alba per arrivare fino a una profondità di più di 400 metri. Come anche esplicitato nel film – che contrappone la discesa nel buio del Bifurto alla costruzione del grattacielo Pirelli a Milano– con Il buco Frammartino dà vita a un cinema fortemente in opposizione con il panorama attuale, capace di prendere una posizione sia artistica che politica.
The Green Knight
di David Lowery
Dopo aver diretto l’uscita di scena di Robert Redford con The Old Man & the Gun nel 2018, Lowery torna ad accasarsi con A24 per realizzare uno dei film più sorprendenti e ambiziosi dell’anno. The Green Knight è una rivisitazione del poema epico ‘Sir Galvano e il Cavaliere Verde’ risalente al tardo XIV secolo da autore ignoto, che riesce grazie al casting di Dev Patel nel ruolo del protagonista a rispolverare un genere cinematografico quasi del tutto scomparso. Il film di Lowery affianca alla narrativa medievale e tradizionale una visione cinematografica degna della sperimentazione autoriale più incallita, dando vita a un viaggio onirico capace di rivoluzionare la figura del cavaliere all’interno dell'immaginario collettivo.
Realizzato usando per lo più effetti speciali pratici e sfondi dipinti a mano per manipolare le prospettive, The Green Knight è un film più unico che raro che prende saldamente posto alla tavola rotonda dei film di Natale migliori di sempre.
Scritto da Rodrigo Mella
A Chiara
di Jonas Carpignano
Il film chiude la trilogia di Gioia Tauro e si caratterizza a tutti gli effetti come un film d’addio a quella terra che il regista ha vissuto da vicino per dieci anni. Bisogna avvicinarsi il più possibile per intravedere le sfumature del reale e, addentrandoci in questa regione così complessa, capiamo che questa non è un’altra storia sulla ‘ndrangheta ma la storia di una famiglia che vive, ride e litiga esattamente come tutte le altre e in cui la criminalità è solo una componente inevitabile.
A Chiara è un racconto di formazione, è il ritratto di un’umanità schiacciata da una visione stereotipata e una celebrazione del legame familiare e del senso di appartenenza che esso comporta. Al centro della storia c’è una famiglia vera, ma la premessa del cinema del reale viene smorzata dall’inserimento di immagini quasi oniriche e da musiche extradiegetiche che non sempre si sposano con la crudezza delle immagini, come a volerci far estraniare da una realtà sgradevole mettendoci le cuffiette della protagonista nelle orecchie. Carpignano, con la sua macchina a mano, ci dona un potente racconto di ribellione e di scelte destinate a cambiarci.
Scritto da Bianca Susi
Red Rocket
di Sean Baker
Sulle note di “Bye Bye Bye” degli NSYNC inizia Red Rocket, settimo lungometraggio di Sean Baker, che si apre con il ritorno dell’ex pornodivo Mickey Saber in un paesino del Texas che aveva abbandonato anni prima e che ora rappresenta l’unica opportunità per ricominciare una nuova vita. Sfruttando amici di vecchia data, la moglie da cui si è separato e una giovane diciassettenne che lavora in un donut shop, Mickey proverà a rientrare nell’industria a luci rosse di Los Angeles.
Sean Baker si dimostra ancora una volta una delle voci più interessanti del panorama indie con questa commedia dai toni satirici, dove il regista continua a mostrare i lati più emarginati degli Stati Uniti. Girato in 16mm e con un cast di attori non professionisti, Red Rocket mostra le avventure di questo personaggio alquanto sgradevole, che farebbe di tutto per raggiungere il proprio obiettivo, attraendo e danneggiando a sua volta ogni persona che incontra. Anche il pubblico si sentirà incantato e attratto nella rete di sotterfugi architettati da Mickey, grazie soprattutto alla sorprendente performance carismatica di Simon Rex.
A Hero
di Asghar Farhadi
Rahim è un giovane ragazzo iraniano finito in carcere a causa di un debito. Durante un permesso di due giorni, trova casualmente una borsa piena d’oro che lo aiuterebbe a ripagare i debiti e costruirsi un futuro.
Che cos’è un eroe? E quali sono le conseguenze e le motivazioni di certi gesti? Ashgar Farhadi utilizza questo incipit per dirigere l’ennesimo dramma familiare in grado di rispecchiare lo stato sociale di una nazione. Scritto magistralmente, con un continuo crescendo di tensione e barcollando sulla sottile linea che separa la verità dalla menzogna, il regista iraniano ci mostra le ripercussioni delle scelte di Rahim, non solo per sé stesso, ma anche per la propria famiglia. In una grande performance Amir Jadidi, interprete di Rahim, riesce a trasmettere lo stato angosciante e paranoico che il suo personaggio sta affrontando, cercando di mantenere sempre quel sorriso ottimista che lo contraddistingue.
Il gioco del destino e della fantasia
di Ryusuke Hamaguchi
Un triangolo amoroso inaspettato, una seduzione con secondi fini e un incontro casuale nato da un’incomprensione sono le basi dei tre racconti diretti da Ryūsuke Hamaguchi nel suo primo film del 2021, vincitore del Gran Premio della Giuria nell’edizione di quest’anno della Berlinale.
I tre racconti, non collegati tra loro, se non tematicamente, racchiudono gli incontri fortuiti che condizionano la vita di tutti i giorni e quei momenti di fantasia che ci permettono di evadere dalla realtà quotidiana. Tra Rohmer, Hong e Rivette (quest’ultimo soprattutto nel terzo racconto), Hamaguchi dirige un’opera dal tono giocoso e misterioso, in grado di esprimere il desiderio e la ricerca di una connessione con l’altro. Scritto in maniera raffinata e recitato egregiamente, Wheel of Fortune and Fantasy non solo è uno dei film più piacevoli usciti quest’anno, ma rappresenta anche il punto ideale per iniziare ad approfondire la filmografia dell’acclamato regista giapponese.
Scritto da Omar Franini
È stata la mano di Dio
di Paolo Sorrentino
Dopo anni di sonore rappresentazioni delle complessità dell’apparato umano, Sorrentino, per narrare la consistenza dei ricordi, sceglie il silenzio. E, seguendo i rumori dell’estate e degli anni ‘80, con autoironia e timidezza, torna a visitare un posto dove nel suo cuore tira sempre il vento: la Napoli della sua adolescenza.
Così, prendendendo per mano lo spettatore, il regista ripercorre il museale lungomare della propria memoria, dove gli sguardi si posano sui personaggi come le onde s'infrangono sugli scogli, e si tuffa in un mare di incontri, scherzi e inadeguatezze. Con i maestri alle spalle e i grandi amori negli occhi, il pubblico, insieme a Fabietto, abbandona le sacre sponde del passato e compra il biglietto di un treno che ferma nella città dolente. Tra le braccia del futuro e della baronessa, i segreti che pensavamo fossero perduti negli abissi sono stati prontamente conservati, per poi essere restituiti al momento opportuno.
Scritto da Alice De Luca
Freaks Out
di Gabriele Mainetti
Un impianto visivo tanto spettacolare da farci chiedere come siano stati realizzati molti degli aspetti tecnici del film: quante volte capita di domandarselo, con un titolo italiano? Quasi mai. Una strategia di marketing per il cinema come non se ne vedevano da anni, articolata sul diario di bordo del regista e sulla presentazione dei personaggi.
I fantastici quattro di Freaks Out (più un villain da far invidia ai nostri cugini oltreoceano) seguono gli archetipi del bene e del male, della lotta atavica degli oppressi che sfidano gli oppressori. Ma ricollocano anche la narrazione classica in una fiaba fantasy orchestrata da vfx e movimenti di macchina acrobatici. Con un planning di lavorazione avviato già nel 2018 e una folle operazione di pre e post produzione, Mainetti torna alla regia dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e costruisce un film a cui, se fossimo stati americani, avremmo concesso la fiducia cieca che si riserva ai colossal. E al grande cinema che fa sognare.
Scritto da Chiara Del Zanno
Annette
di Leos Carax
Dopo nove anni di silenzio, il regista francese Leos Carax torna e apre Cannes (vincendo come miglior regista) con il suo primo lungometraggio in lingua inglese: un musical. Annette è il titolo del film nonché il nome della figlia (rappresentata come un burattino senza fili) dei due protagonisti, Adam Driver e Marion Cotillard. Lui è uno stand-up comedian dai modi aggressivi, lei una soprano dai modi eleganti e pacati. Il pubblico li ama, l’amore tra i due è travolgente, ma ben presto finisce in tragedia. Invidia, vendetta e bassi istinti tipici del successo e della celebrità affiorano tutti, nessuno escluso.
“L’enfant terrible” del cinema francese è solito sovvertire e distruggere i generi che sperimenta, portandoli al loro estremo e svuotandoli dall’interno per farne emergere tutti i paradossi. Come in Holy Motors, è chiaro l’intento metacinematografico: non solo in parte parla della sua storia famigliare, ma è il regista stesso (insieme a sua figlia) ad apparire a inizio film e ammonire il pubblico di concentrarsi perché lo spettacolo sta per iniziare! E che spettacolo, suono e musica (degli Sparks) sono importanti tanto quanto le immagini. E sono tutti molto forti e incisivi. Annette è un viaggio totale e totalizzante che trasuda creatività allo stato puro tenendo chiunque lo guardi incollato allo schermo.
Re Granchio
di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis
Dopo essere stato applaudito alla Quinzaine des Réalisateurs dell’ultimo Festival di Cannes, a dicembre è arrivato in sala Re Granchio, un gioiellino cinematografico co-diretto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis che racchiude in sé realismo magico, mitologia, western e racconto popolare.
Tutto gira intorno alla figura di Luciano, l’ubriacone del villaggio. Luciano non è un attore, ma un artista che vive a Roma e si chiama Gabriele Silli. Accanto a lui c’è Emma, la sua amata, che molti ricorderanno come la Gelsomina de Le meraviglie di Alice Rohrwacher, Maria Alexandra Lungu. Fanno da sfondo la Tuscia e la Terra del Fuoco in Sudamerica, due luoghi così lontani e diversi da essere lo spartiacque tra i due atti del film solo apparentemente scollati, ma che invece trovano coesione in un finale che chiude la struttura ad anello. Un progetto spiazzante, unico nel suo genere, atipico nel panorama cinematografico italiano e non. Un ibrido di genere che però funziona in quanto specchio di quello che racconta: leggenda, tradizione popolare, mito senza fonti certe se non il fatto di essere tramandate oralmente. Un esperimento cinematografico che ha aperto la strada a due giovani e audaci registi.
Scritto da Giulia Capogna
Old
di M. Night Shyamalan
La vacanza di una famiglia in un lussuoso resort si tramuta in incubo quando questa rimane intrappolata su una spiaggia dagli incredibili poteri.
Old è l’ennesima prova del talento del suo autore, in grado come pochi altri nel panorama odierno di coniugare l’intrattenimento e la riflessione su temi universali attraverso una sapienza registica che ricorda quella di Hitchcock e De Palma. L’ambizione di Shyamalan è smisurata, così paradossale da farsi filosofica: filmare l’intero scorrere di una vita, governare il tempo e farne strumento di narrazione. Quanto dura una vita? Quanto dura un film? L’illusione che li fonda entrambi è della stessa natura? Come sempre nel cinema del regista d’origine indiana un dramma personale diviene metafora per raccontare il malessere e l’intolleranza della società americana. Old racconta insieme l’orrore dell’esistenza e la tenerezza che le dona un senso, avendo il coraggio di porsi domande cruciali e l’umiltà di rispondere attraverso un cinema popolare, capace di affascinare e impensierire.
Scritto da Andrea Tiradritti
The Card Counter
di Paul Schrader
Tutte le ossessioni che con caparbia insistenza hanno caratterizzato il percorso filmico e intellettuale di Paul Schrader si manifestano anche in The Card Counter, film in cui William Tell si rivela essere solo l'ultimo esemplare schraderiano di protagonista afflitto dai traumi del passato.
Ex militare e detenuto nonché provetto giocatore d’azzardo, quello incarnato da Oscar Isaac non si affranca del tutto da altri personaggi caratterizzati dal fardello della colpa, dal gusto per il rituale e dal bisogno di auto-confessarsi, ma ne costituisce l’ultima incarnazione. L’incontro col giovane Cirk (Taylor Sheridan) e con l’affascinante La Linda (Tiffany Haddish) obbliga infatti l'asso del blackjack a inserirsi in quel medesimo percorso tracciato da gigolò, spacciatori e sacerdoti prima di lui, e che vede nell'oscillazione fra la spirale di vendetta e la mano tesa del gesto miracoloso un'ulteriore e significativa variazione sul tema della redenzione.
Marx può aspettare
di Marco Bellocchio
La ri-elaborazione del lutto a lungo taciuta, nascosta in un angolo per così tanto tempo da diventare proprio per questo non più rinviabile, un’occasione per guardare con occhio critico se stessi, la propria arte e le proprie scelte, i legami ereditati e come li si è vissuti e coltivati nel tempo.
Quel Sangue del mio sangue che in Marco Bellocchio volutamente o inconsciamente è sempre stato un leitmotiv, una presenza sfuggente ma rintracciabile a cavallo fra tante sue opere, in Marx può aspettare diventa il fulcro di un'indagine che mira a fare del documentario a trazione famigliare la circostanza più adatta per una lucida (per quanto a tratti feroce) ammissione di responsabilità. La riunione di famiglia, tramite il dialogo a più voci e la giustapposizione di materiale privato ed eterogeneo, prova a spiegare (e a spiegarsi) le cause dell’inadeguatezza e del gesto estremo del fratello gemello di Marco, Camillo, ma non può risolverne l’enigma in maniera univoca. Pur nell’impossibilità di assolvere i colpevoli o presunti tali e di ridare voce a chi di essa si è voluto privare, in Marx può aspettare l’immagine cinematografica si rivela capace di lenire il dolore e creare idealmente le condizioni di ripristino di quel dialogo venuto tragicamente a mancare.
Flee
di Jonas Poher Rasmussen
Nel film di Jonas Poher Rasmussen animazione e documentario uniscono le forze per dare corpo e voce alla storia di Amin, ricercatore universitario in Danimarca che per la prima volta trova la forza di raccontare il proprio traumatico passato da rifugiato.
Una vita vissuta in perenne clandestinità fra l'addio forzato all'Afghanistan e l’approdo verso un altrove continuamente negato, ridiscusso e dunque mai veramente tale, nel repentaglio della propria incolumità e di quella dei propri cari. L'oggettiva difficoltà di maturare un percorso individuale quando nascondere la propria identità (civile, politica, sessuale) diventa l'unico strumento possibile per salvaguardare la propria esistenza: è questo che Flee mette sapientemente in scena, tra il filtro della riconfigurazione animata e il rispetto dell'aderenza documentale. Insieme al rapporto di amicizia esistente fra il regista e il protagonista, queste diventano garanzia e condizioni di espressione di un io che può finalmente riconnettersi con se stesso attraverso il proprio racconto.
Scritto da Piero Di Bucchianico
Qui rido io
di Mario Martone
Nella Napoli degli inizi del ‘900, il teatro è al centro del dibattito politico e sociale. L’attore Eduardo Scarpetta inscena la sua spettacolare comicità circondato da mogli, amanti, figli legittimi e illegittimi.
Presentato in concorso alla 78ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Qui rido io è una lettera d’amore per il teatro. Mario Martone conferma le sue doti registiche scegliendo di focalizzare l’azione sui dettagli più intimi della vita del protagonista. Eduardo Scarpetta è il capo di una tribù familiare che dirige a teatro così come nella vita. La macchina da presa segue l’attore da dietro le quinte fino al suo ingresso trionfale in scena, ma quando la maschera comincia a cadere anche l’uomo mostra le sue fragilità. Un teatro nel teatro fatto di debutti e insuccessi, una sorta di fusione tra il palco e la realtà, dove tutto il mondo rappresentato diventa palcoscenico. Da attore a spettatore, Scarpetta vive ogni giorno come un atto della stessa infinita commedia, la sua. E poi c’è Napoli, con le sue canzoni e le sue atmosfere, in un contesto non tanto diverso dal nostro. Per queste ragioni, Qui rido io è tra i film più interessanti del 2021.
Scritto da Francesca Accurso
The Power of the Dog
di Jane Campion
George Burbank gestisce una proprietà nel Montana assieme al fratello Phil. Quando George sposa la vedova Rose e la porta a vivere al ranch, Phil intraprende contro la donna un’estenuante guerra psicologica. In questo scontro sarà coinvolto anche Peter, il figlio che Rose ha avuto dal precedente matrimonio. Ma non tutto è come sembra.
Jane Campion vince per la miglior regia a Venezia 2021 con un’opera complessa e ambigua. The Power of the Dog è un film popolato da figure che nella loro «tormentata disarmonia» risultano tremendamente realistiche. Questa impeccabile e delicata costruzione dei personaggi è data, oltre che da un cast di prim’ordine, dalle brillanti doti di direttrice d’attori che hanno sempre contraddistinto lo stile dell’autrice. La regista tende, come in gran parte del suo cinema, a usare il paesaggio come proiezione dell’universo interiore dei protagonisti. Le vallate, i fiumi e le grandi ombre disegnate dalle nuvole sulle montagne si fanno simboli di muta rabbia e rancori sopiti. Lo sguardo lirico e straniante di Campion dosa la tensione fino all’esplosione raggelante del finale.
Scritto da Alberto de Carolis Villars