La nostra selezione dei migliori film
usciti quest'anno,
scritto da redazione ODG
TR-90
24.12.2023
Come ogni vigilia di Natale, prima della grande abbuffata ammazzafamiglie, vi presentiamo la nostra consueta selezione dei migliori film di quest’anno, presentati ai festival, in streaming o usciti nelle sale italiane a partire dallo scorso gennaio.
Le parole chiave che potrebbero caratterizzare quest'annata cinematografica sono: female power (era ora) e ripensamento collettivo. Film diretti da donne o incentrati su figure femminili davvero originali e sovversive hanno conquistato pubblico e critica.
Allo stesso tempo, alcune opere hanno esplorato il passato, offrendoci una chiave di ri-lettura dei traumi collettivi che hanno afflitto l'umanità.
In un periodo in cui conflitti terribili perdurano, crediamo che il cinema possa essere una potente arma contro la brutalità dell'oppressione.
Killers of the Flower Moon
di Martin Scorsese
Nell’adattare il saggio di David Grann e quindi nel ripercorrere le vicende legate al genocidio degli Osage nell’Oklahoma degli anni venti, Scorsese realizza senz’altro il film più mortuario della sua carriera. Il racconto di una strage che ha macchiato la storia americana trova sfogo in una narrazione fluviale e funebre, in cui la morte è rappresentata ora con ritmi improvvisi e di spiazzante materialismo, ora con toni sotterranei, cupi e di straordinaria tragicità.
L’ambiguità in cui sono immersi i personaggi di De Niro e DiCaprio contamina la narrazione di incertezze e false piste, finché la chiarezza di un pretesto metanarrativo non cancella ogni dubbio: non c’è banalità più grande del male e non c’è male più banale del capitalismo. Ma con questo grande film dall’approccio decoloniale, Scorsese realizza anche un momento di importante autoanalisi, rileggendo il suo cinema sotto il segno di una profonda responsabilità autoriale e, in definitiva, di una commovente urgenza espressiva. Raccontare per urgenza, mai per piacere.
Scritto da Jacopo Abballe
Club Zero
di Jessica Hausner
Miss Novak, prof di alimentazione consapevole, nutrizionista-guru, membro del Club Zero, è il personaggio più spaventoso di quest’anno, perché capace di convincere un gruppo di studenti di un college d’élite a ridurre al minimo il consumo di cibo. In una sorta di auto-sabotaggio ecologista, la più privilegiata e futuribile classe dirigente auto-collassa in un cortocircuito ideologico e biologico: non nutrirsi per salvare il pianeta, ovvero uccidersi per vivere.
Qui sta il dato più sorprendente: il ribaltamento della parabola ecologista in distopia, l’uso del cinema come paradosso, l’ennesimo dello sguardo misterico e dubbioso di Hausner. Da una parte una GenZ annoiata, progressista, anaffettiva, incapace di legarsi a un ideale, se non nella sua deriva morbosa e suicidiaria, come in un nuovo Settimo continente (1989); dall’altra gli adulti, sciocchi e creduloni. Entrambi, incatenati in un susseguirsi di “ultime cene” colte in tableaux fissi e planimetrici, non riescono a comunicare; i grandi ricordano gli adulti fragili di Ostlund, i piccoli la letale prole de Il Nastro Bianco (2009). Nel mezzo, il rifiuto a nutrirsi si impone come definitivo sciopero esistenziale, con l’intenzionale scacco morale del disturbo alimentare narrativizzato come scelta, addirittura come fede.
Ma Club Zero spicca non in quanto deliberatamente scorretto, ma piuttosto perché ostico per lo spettatore nel suo comunicare una cifra dei nostri giorni: la sensazione della resa, di un’urgenza ormai quieta, un’apocalisse per implosione che contagia il cinema stesso. Si guarda all’inevitabile compiersi del mostruoso, dentro i bordi fissi dello sguardo di Hausner; uno stile respingente, perché soffoca i personaggi in griglie di diagonali, coreografie immobili, tanto costrittive da obbligarli alla sparizione. Club zero è un dilemma in cui il cinema prova a filmare la morte del mondo, sacrificando ogni sua gradevolezza, in favore della più amara consapevolezza del tempo che viviamo. Nausea e vomito non più simbolo di una società che collassa per eccesso, come in Triangle of sadness, ma come rifiuto, negazione, composto svuotamento di sé.
Scritto da Matteo Bonfiglioli
La chimera
di Alice Rohrwacher
Un manipolo di anarchici tombaroli svuota il sottosuolo dell’Etruria, finendo qualche volta in carcere, guadagnandosi quel tanto che basta a sopravvivere di vino al bar di un piccolo paese e scherzando con la morte in rinnovati rapporti con la magia e gli stregoni. Ci sono desideri proibiti e impossibili, antagonisti invisibili e maestosi, amicizie solidali, tradimenti, ricerche.
Alice Rohrwacher arriva al suo quarto lungometraggio con lo stupore sulle labbra, capace di irretire i suoi spettatori con una fiaba avventurosa, trascinandoli in una storia dal finale già prefigurato come nelle migliori opere classiche. Il desiderio, il rapporto dell’umano con l’invisibile e l’inconoscibile, l’eterna propensione alla scoperta e al dolore della perdita si scontrano con l’inevitabile sopraffazione del capitale nel contesto di trasformazione sociale più netto del 20esimo secolo italiano.
In un mondo appena post-contadino, il potere capitalista coopta la magia ai suoi profitti, l’avventura ai suoi calcoli, lasciando perire in cunicoli instabili di terra il suo ultimo oppositore: un romantico per eccellenza che vede la sua tensione al sublime ridotta a quantificabile merce. Orfeo e Ulisse, Arthur spezza i legami con il terreno per riappropriarsi dell’Invisibile e del suo cuore, consegnandoci l’abbraccio più tenero e potente di quest’anno cinematografico.
Scritto da Emanuele Tresca
Close
di Lukas Dhont
Leo e Rémi sono due vivaci tredicenni che godono appieno della loro tenera età trascorrendo molto tempo insieme, con Leo che spesso dorme a casa di Rémi. All'inizio dell'anno scolastico, i nuovi compagni notano il forte legame e l'affetto che lega i due ragazzi. Durante la ricreazione, una compagna di classe li provoca sulla natura della loro relazione. Rémi mantiene la calma, mentre Leo si irrita, evidenziando che anche lei condivide gesti affettuosi con le sue amiche. La compagna sostiene che tra ragazze sia normale, ma tra ragazzi è il segno che potrebbe esserci qualcosa di più.
È questa la premessa del secondo film di Lukas Dhont. Dopo l'acclamato esordio Girl (2018), il regista belga torna a confrontarsi con l’affermazione della propria identità e i propri sentimenti in una società in cui il peso del pregiudizio può spingere chi ne è vittima a tragiche conseguenze. Questa volta l'ambiente raccontato è quello dei primi anni della scuola superiore. Lo sguardo di Dhont sul mondo è inconfondibile: sobrio e introspettivo, la camera da presa sembra rubare i sentimenti più celati dei giovani protagonisti, restituendo tutta la loro disarmante verità e trafiggendo lo spettatore come una lama tagliente.
Scritto da Eric Scabar
Barbie
di Greta Gerwig
Erano molti i rischi che comportava approcciarsi alla lavorazione di un film come Barbie, specialmente a seguito della buonissima reputazione che Greta Gerwig si era creata dopo appena due film. La sfida titanica che dev'essersi posta in fase di scrittura assieme al marito Noah Baumbach è: come possiamo trasporre in forma cinematografica una bambola, simbolo rappresentante della donna-oggetto, e attualizzarla mandando un messaggio chiaro al mondo di oggi? Barbie si erge a blockbuster d’autore destinato a lasciare un'impronta indelebile nella storia del cinema, grazie alla sua portata contenutistica. Fin dalle prime immagini, si manifesta nella sua entità, citando con squisita ironia 2001: Odissea nello Spazio (1968).
La grandezza dell'opera di Greta Gerwig risiede nella consapevolezza della sua regista, che ha colto l'occasione per trasmettere un pensiero ad un pubblico molto vasto. Barbie si configura come un film evento con un chiaro messaggio sociale: il patriarcato ha le ore contate, ma molti uomini ancora non ne sono consapevoli. In una società apparentemente paritaria, la relazione tra uomo e donna non può più essere la stessa di prima. Per conseguire questo obiettivo, Gerwig crea due mondi: quello di Barbieland e quello in cui viviamo noi, due realtà che assumono un carattere metaforico. La regista le fa scontrare e incontrare per farci perdere le nostre certezze e, forse, per renderci un po' più umani. Barbie si presenta come un'opera audace e incisiva, capace di sfidare convenzioni e stimolare riflessioni sulle dinamiche di genere.
Scritto da Eric Scabar
El Conde
di Pablo Larraín
Hegel parlava di individui cosmico-storici in riferimento a personaggi che sembrano essere stati scelti e protetti dalla Storia stessa. Nonostante questa teoria avesse un’accezione positiva, legata alla realizzazione dello Spirito, è innegabile che siano numerosi i protagonisti del passato che non smettono di esercitare un’inquietante fascino ancora oggi per le capacità che li hanno portati a dominare la scena, nel bene e nel male. L’analisi di questo fascino proibito è al centro di El Conde (2023), il nuovo lavoro di Pablo Larraín, che vede un riavvicinamento del regista alla tematica caratterizzante delle sue prime pellicole: la storia del Cile. Larraín sperimenta, alla ricerca di un tipo di narrazione consona al soggetto trattato, perché parlare di un uomo morto appena diciassette anni fa non è un’impresa facile.
Il risultato di questa ricerca è un racconto strutturato, che rifugge dal mero realismo per propendere verso un modo atipico di rappresentare la Storia. “Se fosse stato un dramma realistico, avremmo potuto provare empatia per Pinochet” spiega Larraín. Ecco quindi che un dittatore del Novecento viene presentato nelle vesti di vampiro, figura capace di insediarsi negli spiragli di tutte le epoche sin dai tempi della Rivoluzione Francese, assumendo aspetti sempre diversi. Così il regista cileno parla di una ciclicità degli avvenimenti, nel tentativo di condannare chi è rimasto impunito dalla Storia.
Scritto da Sofia Sardella
The Zone of Interest
di Jonathan Glazer
Parlare di un film che così inequivocabilmente invita all’ascolto è inopportuno. Soprattutto perché lo stesso Glazer è il primo ad esporsi solo quando sente di avere qualcosa da dire, qualcosa di prettamente necessario. Il suo quarto lungometraggio, The Zone of Interest, ci costringe a riesaminare un buio a cui siamo letargicamente abituati, sporgendosi oltre la banalità del male, oltre le mura e i recinti che fanno da confine alla nostra memoria breve e cieca.
Scritto da Rodrigo Mella
Green Border
di Agnieszka Holland
Nelle sale della Mostra di Venezia il film di Agnieszka Holland, decana del cinema polacco, è stato uno dei più sentiti. Respiri pesanti, commozione, applausi convinti. Green Border è emerso immediatamente come uno dei favoriti per il Leone d’Oro e a molti è sembrato che il Premio della Giuria con cui è stato incluso nel palmarès non fosse abbastanza.
Il motivo è che Holland si è fatta carico di un tema importantissimo per l’Europa di oggi, le frontiere, e lo ha fatto con un equilibrio magistrale. Anzitutto scegliendo di usare uno stile tendente al documentario, implacabile nelle inevitabili scene di violenza e morte. Ma oltre a ciò decidendo di non lasciare nulla fuori dal quadro: la retorica pericolosa di cui si imbottiscono i soldati, i goffi tentativi di aiuto dei vari volontari costretti allo slalom tra norme ostacolanti e le contraddizioni della politica e dell’opinione pubblica. Non risparmia nessuno, com’è giusto che sia, neanche nel finale, mostrandoci dopo due ore di calvario l’accoglienza gioiosa e organizzata dei rifugiati ucraini. Fare un film come Green Border, nell’UE di oggi e nella Polonia di inizio settembre (quando si era in procinto di andare a votare), è un atto di coraggio straordinario. Nonché uno degli esempi più vividi di ciò che il cinema dovrebbe quantomeno provare ad essere.
Scritto da Tobia Cimini
La Bête
di Bertrand Bonello
Ad oggi sono pochissimi gli artisti che riescono davvero a decostruire e leggere il contemporaneo e ciò che viviamo ogni giorno sul piano delle interrelazioni in presenza e online. Coloro che comprendono i bisogni e le paure recondite di una società in continuo cambiamento. Quest’anno, possiamo decretare come vincitore assoluto, Bertrand Bonello, che con il suo La Bête distrugge ogni canone di scrittura e montaggio e reinventa i generi romance, fantascientifico e horror.
Il regista sviluppa questa, a tratti struggente, storia d’amore tra i personaggi interpretati da Léa Seydoux e George Mackay, attraverso tre diversi periodi temporali: 1910, 2014 e 2044. In un turbinio di setting, generi e lingue, Bonello conduce lo spettatore attraverso un rompicapo superficialmente insensato e stancante, per poi chiudere con una perfetta soluzione. Guardando La Bête la sensazione è quella di star fruendo di quel tipo di cinema tanto caro a registi arthouse come David Lynch o Leos Carax, autori delle due più grandi opere di questo secolo: Mulholland Drive (2001) e Holy Motors (2012). L’inquietudine suscitata da questi film, infatti, è la medesima in La Bête, che delinea la paura dell’amore e dell’intimità e, più in profondità, il terrore di ottenere ciò che è tanto ambito da ogni essere umano.
In una società in cui il raggiungimento dell’obiettivo ultimo è l’unico scopo sociale, ne siamo così affamati da non prepararci davvero al momento in cui lo otterremo. Siamo talmente atrofizzati dal sognare di vivere le emozioni da dimenticarci che bisogna avere il coraggio di provarle nella vita reale. Bonello costruisce così una delle opere cinematografiche più importanti di sempre, o per lo meno dei nostri giorni.
Scritto da Aureliana Bontempo
Oppenheimer
di Christopher Nolan
Oppenheimer è la riconferma della grandezza di Christopher Nolan, ma contemporaneamente un nuovo inizio, sia per la distribuzione targata Universal, sia per alcune delle tecniche adottate durante la produzione (specialmente le sezioni in fotografia analogica IMAX in bianco e nero). Il regista londinese è da sempre noto per la sua narrazione epica, che sfida i limiti spazio-temporali di qualsiasi genere artistico.
Ma qui l’impresa è ancora più impervia: a diventare epos è la Storia stessa, che vede in J. Robert Oppenheimer, resuscitato grazie a un Cillian Murphy impeccabile, il suo Prometeo, il cui titanismo è tutto nelle gesta. Così come accade nel mito, anche nell’ultimo lavoro di Nolan tutta l’ambivalenza di un’aspirazione utopica si fa contemporaneamente progresso e condanna, speranza e aberrazione. Questo film reifica e disserta tutte le sfide che noi umani dovremo affrontare, ponendoci di fronte ogni possibilità del caso. Oppenheimer è un’esperienza sinestetica, totale: il passato che si è fatto presente, il divenire che si è fatto cinema.
Scritto da Mattia Cirilli
Il cielo brucia
di Christian Petzold
Un giovane aspirante scrittore osserva lo svolgersi della vita dei suoi coetanei chiuso dentro le mura di una villa. Scritto durante il covid, Il cielo brucia è la radiografia di una generazione di giovani europei incapaci di trovare un contatto autentico con la vita, a meno che esso non sia mediato da qualche dispositivo o barriera che funga da rete di protezione.
In un’atmosfera estiva che fa presagire la catastrofe, Christian Petzold ritrae l’ambiguità dei rapporti umani, i desideri frustrati e la passione che brucia fino a consumarsi con uno stile che richiama quello di Éric Rohmer.
Le performance di Thomas Schubert e Paula Beer, alla terza collaborazione con il regista tedesco, impreziosiscono Il cielo brucia rendendolo una delle opere più stimolanti e suggestive dell’anno. Concluso il film, infatti, si ha come la sensazione di essere stati travolti da un incendio e di dover fare i conti con la cenere che ne consegue.
Scritto da Arturo Garavaglia
About Dry Grasses
di Nuri Bilge Ceylan
Giunto nella fase matura della sua carriera, Nuri Bilge Ceylan sembra aver trovato la formula drammaturgica perfetta per tenere insieme i diversi elementi che nutrono il suo cinema sin dagli esordi.
Se c’è una sensazione che più di tutte rimane, terminate le tre ore e venti di visione del film, è quella di aver assistito a un’opera estremamente stratificata, esistenzialista ma allo stesso tempo politica, ambigua nonostante la marea di parole che la compongono, ermetica ma non per questo incapace di dialogare con il pubblico.
Ceylan indaga nella profondità dell’animo dei propri protagonisti. Ne sonda i malesseri, le frustrazioni, le incongruenze, e restituisce i risultati sullo schermo tramite dialoghi precisi ma allo stesso tempi evasivi, il cui senso è da cogliere più che nelle parole nella modalità in cui vengono proferite. Ciò si traduce in un’immagine anch’essa ambigua, rigida e perlopiù priva degli estetismi presenti in diversi suoi film, ma in grado di racchiudere e trasporre sul piano visivo la profondità dell’indagine psicologica compiuta dal regista turco.
Scritto da Arturo Garavaglia
C'è ancora domani
di Paola Cortellesi
Paola Cortellesi è senza alcun dubbio una delle migliori performer del panorama italiano, ma quest’anno ci ha dimostrato di essere anche una cineasta di tutto rispetto. Il suo talento come sceneggiatrice non era un mistero, ma come regista ha saputo mostrare quanto il passato sia più contemporaneo di quel che crediamo.
Non solo sceglie di ambientare la propria storia nel 1946, anno fondamentale per il nostro Paese, ma decide anche di riprenderne l’estetica: come il bianco e nero brillante che ci riporta subito alle pellicole del neorealismo italiano di quegli anni (e qui una menzione speciale va a Davide Leone per la fotografia). Cortellesi usa il passato (e l’ironia che la contraddistingue) per raccontare il nostro presente, cercando di trasmetterci il messaggio che, anche se ridotte al silenzio, le donne hanno la forza di cambiare il sistema.
Scritto da Cecilia Parini
Il male non esiste
di Ryusuke Hamaguchi
Dopo il grande successo di Drive My Car, film presentato al Festival di Cannes che ha ottenuto diversi riconoscimenti tra i quali l’Oscar come miglior film internazionale nel 2022, Ryusuke Hamaguchi torna in sala col suo nuovo lavoro: Il male non esiste. Il regista trascina, fin dalla prima inquadratura, il pubblico all’interno del suo Giappone, fatto di paesaggi naturali (quasi) incontaminati e poetici messi in contrapposizione con l’uomo e il suo operato.
Attraverso la storia di una località boschiva che rischia di essere trasformata in un clamping da un’azienda di Tokyo, Hamaguchi si interroga sul confine tra il bene e il male, fino ad arrivare a confondere lo spettatore che, a sua volta, non saprà più distinguere i buoni dai cattivi.
Scritto da Cecilia Parini
Do not expect too much from the end of the world
di Radu Jude
Presentato al Festival di Locarno di quest’anno, Do not expect too much from the end of the world si aggiudica il premio come film più geniale, no sense e profondo che sia stato proiettato nel corso del 2023. Attraverso la storia di Angela - un assistente di produzione che gira tutta Bucarest per fare dei casting - Radu Jude riesce a portare sul grande schermo un’enorme denuncia sociale dei nostri tempi, sempre più vicini a un crollo di nervi collettivo, dimostrando come ormai ogni immagine possa essere manipolata.
Film complesso, nel quale il regista rumeno decide di far dialogare il proprio lavoro con quello di Lucian Bratu inserendo intere sequenze di Angela goes (1981), lungometraggio che ci mostra i grandi cambiamenti della società balcanica (e non solo). Più che un film, Do not expect too much from the end of the world è un flusso di coscienza arrabbiato e disilluso che rivela tutta l'assurdità del mondo moderno.
Scritto da Cecilia Parini
Los Delincuentes
di Rodrigo Moreno
L’alienazione dell’individuo all’interno di una società e la ricerca di una via di fuga dalla monotonia della propria quotidianità, argomenti già approfonditi da Rodrigo Moreno nel corso della sua carriera con El custodio (2006) e Un mundo misterioso (2011), sono i temi cardine di Los Delincuentes. Con il suo ultimo lavoro il regista argentino prosegue il suo interessante discorso sull’esistenzialismo e l’inquietudine di una Nazione corrosa da un sistema capitalista.
Traendo liberamente ispirazione dal lungometraggio Apenas un delincuente (1949) di Hugo Fregonese, Moreno dirige un’originale heist comedy che vede protagonisti due impiegati bancari: Morán e Román. Un giorno, il primo, decide di ideare un piano per derubare la banca in cui lavora e cambiare la propria vita, ma per far sì che ciò funzioni dovrà coinvolgere il riluttante collega. Los Delincuentes è una favola picaresca dove Moreno adopera un linguaggio cinematografico stravagante in modo da creare un mondo che si discosta parzialmente dalla nostra realtà. Per fare ciò, il cineasta ha utilizzato degli anagrammi per i nomi dei vari personaggi e un deadpan humor che mette in risalto l’assurdità di certe situazioni.
Da segnalare anche l’abile utilizzo dello split screen per mettere a confronto le condizioni dei due protagonisti e l’omaggio, esplicito e simbolico, a L’Argent (1983) di Robert Bresson. Los Delincuentes è una delle migliori opere di quest’anno, firmata da uno dei maggiori esponenti del Nuovo Cinema Argentino. Ne consigliamo la visione appena il film verrà distribuito su MUBI.
Scritto da Omar Franini
La passion de Dodin Bouffant
di Tran Anh Hung
Ambientato in Francia nel 1889, La Passion de Dodin Bouffant segue la delicata relazione tra Eugenie (Juliette Binoche) e Dodin (Benoît Magimel), due cuochi gourmet che lavorano insieme da più di vent’anni, le cui prelibatezze sono invidiate ed amate da chiunque. Tra queste c’è il Pot-au-feu, un bollito che all’apparenza può sembrare facile da cucinare, ma che poi nasconde una preparazione piuttosto complessa. Questa pietanza rappresenta appieno la relazione tra i due protagonisti: apparentemente semplice ma in realtà piena di sfaccettature.
Binoche e Magimel riescono a trasmettere la complessità dei loro personaggi tramite una recitazione minimalista, dove gli sguardi, e i silenzi, riescono a mostrare una storia d’amore narrata attraverso delle creazioni gastronomiche.
La Passion de Dodin Bouffant non è soltanto un’intima e sensuale cronaca sentimentale, ma anche un'ode all’arte culinaria, aspetto esaltato dal regista vietnamita Tran Anh Hung - riconosciuto con il premio per la miglior regia al Festival di Cannes 2023 - tramite i fluidi movimenti di camera che seguono le gesta dei cuochi, una mise-en-scene che richiama le opere dei pittori impressionisti e, infine, un raffinato uso del soundscape culinario e naturale. La Passion de Dodin Bouffant è un film sublime, che nei prossimi mesi raggiungerà le nostre sale con Lucky Red.
Scritto da Omar Franini
May December
di Todd Haynes
May December è la nuova, complessa, opera di Todd Haynes, uno sguardo irriverente e satirico sulla psiche deviata di una coppia, la cui quiete verrà scombussolata dall’arrivo di una terza figura. Al centro della storia c’è l’ossessione artistica di Elizabeth (Natalie Portman), un’attrice che, per preparare un ruolo nel suo nuovo film, decide di studiare in prima persona il personaggio che dovrà interpretare, Gracie (Julianne Moore), scombussolando il rapporto della donna con suo marito Joe (Charles Melton), la cui relazione è stata frutto di un enorme scandalo poiché iniziata quando l’uomo aveva solo dodici anni.
Per raccontare una storia così peculiare, Haynes compie un’operazione articolata sul tono del film, esaltando l’aspetto grottesco e la natura dualistica dei personaggi tramite le eccellenti interpretazioni dei tre protagonisti. Natalie Portman brilla in un ruolo che si addice perfettamente al suo temperamento attoriale, mentre Julianne Moore continua la sua lunga collaborazione con il regista portando sullo schermo un personaggio la cui naiveness nasconde una natura contorta ed insondabile. Ma a rubare la scena alle due attrici è la struggente interpretazione di Charles Melton. L'interprete ci mostra, in maniera magistrale, il mancato sviluppo intellettivo di Joe: un trentaseienne con la mentalità, la postura e i comportamenti di un teenager.
May December è un film raro da trovare al giorno d’oggi, e il suo mix di delizia, rischio e provocazione lo rendono un prodotto unico nel suo genere. Il lungometraggio verrà distribuito prossimamente nelle nostre sale da Lucky Red.
Scritto da Omar Franini
Past Lives
di Celine Song
Past Lives è una delle opere prime più significative degli ultimi anni, un film di rara bellezza che si colloca in quel filone romantico che analizza il “quasi amore” tra due personaggi, ricalcando le orme di grandi classici come Brief Encounter (1945) di David Lean. Al fulcro della storia c’è il rapporto tra Nora (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo), due amici d’infanzia che cercano di ricreare un legame dopo che le loro “strade” si sono separate. Nora, emigrata in occidente con la famiglia, è diventata una drammaturga, mentre Hae Sung, rimasto in Corea, è in procinto di diventare un ingegnere. Nonostante siano pronti a recuperare il tempo perso, le ambizioni lavorative e la distanza che li separa non giocano a loro favore.
Adoperando il termine coreano inyeon (인연) - un’espressione che indica il forte legame fra due persone nel corso della loro vita - come leitmotiv dell’opera, Celine Song mostra lo sviluppo della relazione tra i protagonisti attraverso tre sezioni distinte e collocate a dodici anni di distanza. È interessante notare come la regista affronti una storia dalla tematica universale per compiere una riflessione sullo “scontro” culturale tra i personaggi; da una parte Nora, che sembra aver abbandonato ogni tratto del proprio passato, dall’altra Hae Sung, strettamente legato alla propria cultura.
Oltre alle splendide interpretazioni centrali di Greta Lee e Teo Yoo, va menzionata anche l’abilità con cui Song posiziona la camera - rendendo la città di New York un “personaggio” aggiunto, un elemento che accompagna lo spettatore nel corso del film - e l’immacolato uso della colonna sonora, in grado di amplificare le emozioni in una maniera affatto forzata, come nella struggente scena finale. Past Lives uscirà nelle sale il 14 febbraio grazie a Lucky Red.
Scritto da Omar Franini
Il libro delle soluzioni
di Michel Gondry
Sono passati otto anni dall’ultimo film di Michel Gondry e qualcuno in meno dalla serie Kidding, che era così triste da essere quasi inguardabile. Gondry è bipolare e nel suo nuovo film si ride molto. Solo che Gondry è letteralmente bipolare, diagnosticato mentre girava La schiuma dei giorni (2013), e, non a caso, in questa sua ultima pellicola parla proprio delle difficoltà avute in quel periodo nel completare il film.
Gli scatti di rabbia, l’egocentrismo, la megalomania, l’idealizzazione di diverse donne, l’essere scontroso e lo scusarsi continuamente, tutto questo è rappresentato in modo ironico e tenero fin quando non arriva anche la parte amara, non in modo improvviso, a guastare il mood: è più una realizzazione che lo spettatore ha verso la fine, ma è inevitabile che arrivi. Sincero e disarmante.
Scritto da Virgil Darelli
Firebrand
di Karim Aïnouz
Un’opera che segna due grandi traguardi per Karim Aïnouz: il primo film in lingua inglese e il debutto nel Concorso principale del Festival di Cannes 2023 - dopo il passaggio in Quinzaine des Réalisateurs di O abismo prateado (2011) e quelli in Un Certain Regard di Madame Satã (2002) e La vita invisibile di Eurídice Gusmão (2019).
Con il suo ultimo lavoro Aïnouz decide di focalizzarsi sulla figura di Catherine Parr, ultima moglie del sanguinario, e paranoico, re inglese Enrico VIII Tudor. Ciò che emerge è il lucido e stratificato ritratto di una donna oppressa dal dominio maschile, un’eroina perennemente in bilico tra sottomissione e brama di libertà, morte e vita. Difatti lo scopo del regista brasiliano non è quello di restituire l’esatta cronistoria di un personaggio realmente esistito, ma di comporre una grande metafora sul potere, la religione e il ruolo delle donne nella Storia.
Alicia Vikander e Jude Law inscenano, con credibilità, grinta e talento, due personaggi profondamente complessi e sfaccettati. Una menzione speciale va però a Jessica ed Henrietta Hasworth, le due sceneggiatrici del film che, attraverso una serie di scelte “romanzesche” veramente azzeccate, fondono, con grandissima precisione, le atmosfere del period drama con i tempi del thriller. Straordinaria la scelta di osservare il microcosmo della corte cinquecentesca non attraverso gli occhi di Cat - nomignolo con la quale il perfido sovrano appella “amorevolmente” la consorte - bensì tramite quelli di una giovanissima Elisabetta I, testimone, acuta e silenziosa, delle prepotenze di un potere, abusante, bigotto e cieco.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Disco Boy
di Giacomo Abbruzzese
Disco Boy - una coproduzione internazionale che vede impegnati l’Italia, la Francia, il Belgio e la Polonia - è stato uno dei film più rilevanti dell’intera annata. Presentata in anteprima al Festival di Berlino 2023, la pellicola si è aggiudicata meritatamente l’Orso d’Argento al miglior contributo artistico. Un premio che segnala, e riconosce, il grande talento di Giacomo Abbruzzese - uno dei registi più interessanti dell’attuale panorama cinematografico italiano - che, proprio con quest’ultimo lavoro, compie il suo debutto nel lungometraggio.
Ad un primo sguardo Disco Boy sembrerebbe un film a tematica bellica, salvo poi discostarsi completamente da un genere specifico per mutare in un dramma esistenziale visivamente sorprendente ed ispirato. Un’avventura psichedelica che trascina lentamente lo spettatore in una sorta di rituale collettivo: tutto, dall’ispirata fotografia di Hélène Louvart fino ai ritmi dell’ipnotica melodia tecno composta dal disc jockey francese Vitalic, sembra costruito per stordire i sensi del pubblico.
Grazie al ruolo del bielorusso Aleksej, Franz Rogowski dimostra - attraverso un’interpretazione misurata, sinuosa e felina - di essere uno degli attori europei più dotati del momento. Splendide le prove del debuttante Morr Ndiaye e di Laëtitia Ky, perfettamente in grado di tenere testa alla catalizzante presenza di Rogowski. Insomma, un’esperienza “sensoriale” che sancisce la definitiva affermazione di un regista che farà parlare di sé.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Foglie al vento
di Aki Kaurismäki
Dopo la vittoria del premio alla miglior regia al Festival di Berlino 2017 per L'altro volto della speranza e un assenza durata sei anni, il grande Aki Kaurismäki ritorna al cinema regalandoci un delicato racconto d’amore e completando, dopo ben trentatré anni, la sua quadrilogia sulla classe operaia finlandese - iniziata con Ombre in paradiso (1986) e proseguita con Ariel (1988) e La fiammiferaia (1990). Vincitore al Festival di Cannes 2023 del Premio della Giuria, Foglie al vento è un film che riesce a catturare gli occhi e il cuore di chi lo osserva tramite la sua disarmante semplicità…una semplicità preziosa, attenta, misurata e diretta.
Il lungometraggio è una ballata sentimentale tra due esseri soli al mondo raccontata attraverso un’estetica ispirata e mai banale. Ogni elemento che compone il film viene seguito con parsimoniosa attenzione e cura estrema. Le tonalità dei colori, che riflettono la stasi emotiva dei protagonisti, sembrano voler raccontare il loro non detto, mentre le strepitose interpretazioni in sottrazione di Alma Pöysti - nominata ai Golden Globe - e Jussi Vatanen commuovono fino all’ultimo secondo.
Stupenda la scelta di inserire svariati riferimenti cinefili attraverso i poster di grandi film che appaiono sullo sfondo durante i vari incontri tra i personaggi. Terminata la visione, l’unico rimpianto che quest’opera lascia è la consapevolezza che Kaurismäki si concede poco negli ultimi due decenni, e che si dovrà quindi aspettare con pazienza per assistere ad una sua nuova, e rara, gemma.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Poor Things
di Yorgos Lanthimos
Tratto dall'omonimo romanzo del 1992 di Alasdair Gray, il Leone d'Oro di Venezia 80 è un potente racconto di formazione femminile, una commedia in cui il sarcasmo e il grottesco si fondono partendo dalla celebre favola, tanto cara al romanzo gotico, dello scienziato e della sua creatura. La povera creatura in questione è Bella Baxter, l'esperimento più riuscito di Godwin Baxter, chirurgo senza scrupoli che ha usato il cervello di un feto per ridare vita al cadavere di una giovane donna. Bella dovrà reimparare tutto da capo con un approccio infantile che poco si addice al corpo in cui si trova.
Lanthimos ci racconta in sei capitoli una donna che si autodetermina a livello personale, sessuale e morale non curante delle regole sociali che grazie alla sua bizzarra natura non la frenano in nulla; Bella scopre attraverso il sesso cosa vuol dire essere donna in una realtà machista raggiungendo una piena consapevolezza di sé e della sua natura.
Mantenendo fede al suo immaginario visivo fatto di immagini grandangolari e inseguimenti con la steady cam, il regista greco porta al cinema una fiaba utopica sulla libertà, in particolar modo quella femminile, che è inscindibile dall'esperienza del corpo e da una piena consapevolezza dei desideri e delle emozioni che lo attraversano. Poor Things arriva al pubblico come un inno di emancipazione che vive grazie ad un cinema visivamente forte.
Scritto da Bianca Susi
The Holdovers
di Alexander Payne
Siamo nel New England del 1970 e sembra di tornare indietro a quel decennio in cui il cinema americano virò verso una critica riflessività. Alexander Payne, assieme allo sceneggiatore David Hemingson, unisce il valore della compassione a quello della comprensione. The Holdovers sembra guardare a lavori come L’ultima corvé (Hal Ashby, 1973) e The Breakfast Club (John Hughes, 1985).
Il contesto è quello collegiale e l’inverno è di quelli che non si dimenticano, specialmente per lo studente Angus Tully, costretto ad unirsi, per le vacanze di Natale, ad un gruppo di scapestrati in un ritiro punitivo/educativo. Sono seguiti dal rigido ma bonaccione docente di Lettere Paul Hunham (Paul Giamatti) e dalla cuoca afroamericana Mary Lamb (Da'Vine Joy Randolph). Il vissuto dei tre personaggi si intreccia armonicamente con gli interni/esterni della struttura che li ospita. Paul e Angus imparano a comprendersi grazie alle circostanze e ne scaturisce un imprevisto quadretto familiare.
La bravura di Payne è ancora quella di saper amalgamare il dramma alla commedia - con battute caustiche a pizzicare la rigidità educativa - a favore di un fraterno umanesimo. Il contesto ambientale ben accompagna la crescente solidarietà comunicativa tra i personaggi, con la neve che stempera gli animi più caldi. E se Paul Giamatti offre l’interpretazione più convincente ed emozionante della sua carriera, Dominic Sessa sorprende nel suo sbalorditivo esordio. La poetica di racconto è animata da dolenti riflessioni ed aitanti buffonerie strozzate dalle divergenze e sorrette da una supplice regia invisibile.
Scritto da Federico Mattioni
Anatomia di una caduta
di Justine Triet
Anatomia di una caduta rompe qualsiasi premessa narrativa o aspettativa. Più che un’anatomia di elementi fattuali della tragica morte di Samuel è una vivisezione della vita coniugale (e non) di Sandra, in cui se il volto scavato della Hüller racconta una verità dietro la “caduta”, questa è quella del suo matrimonio.
Justine Triet scrive una minuziosa indagine sulle relazioni a metà tra il thriller e il dramma legale in cui, se l’obiettivo è quello di risolvere l’enigma, la regista lo affronta attraverso il linguaggio e il dialogo, discostandosi da un più classico whodunit costruito sui colpi di scena e sull’azione nel montaggio.
La prova in tribunale è la parola: non ci sono fatti da interpretare. Vediamo Samuel già inerme al suolo e nessuna giuria (filmica e non) è in condizioni di poter ricostruire i fatti, se non quelli che compongono il ritratto di una famiglia. Di fronte a questi elementi c’è solo il libero arbitrio che la scrittura di Triet utilizza come ago della bilancia mantenendo sempre alto il ritmo (considerando anche quanto si parla nelle scene in tribunale) mentre ci avviciniamo alla verità che più riteniamo avere un senso. Alla fine resta comunque il dubbio di aver percorso la strada sbagliata.
Scritto da Davide Merola
Perfect Days
di Wim Wenders
Sono passati quasi quarant’anni dal primo viaggio di Wim Wenders a Tokyo, dal primo confronto con quella metropoli conosciuta attraverso le inquadrature di chi la viveva tutti i giorni, ovvero Yasujiro Ozu. Tokyo-ga (1985) parlava proprio di questo: di un primo incontro con la realtà dei fatti e di un confronto con essa, per capirne, a confronto e attraverso la settima arte, le geometrie e i ritmi.
Perfect Days sembra voler tornare su quei passi e mostrarci un regista che ora ha la sensibilità di cogliere quei piccoli dettagli attraverso un cittadino comune, Hirayama, addetto alle pulizie dei bagni pubblici della città. Seguendo la routine quotidiana di quest’uomo, Wenders mette in scena un processo di rieducazione dello sguardo e di accettazione della temporaneità della vita umana: Hirayama studia costantemente quegli spazi che osserva ogni giorno, legge e parla poco, scompone attraverso le fotografie Tokyo e ce la riconsegna sotto una nuova prospettiva.
Ruttmann e Ivens aleggiano costantemente sulle spalle del cineasta tedesco, che lavora di fino e di contrappunto al registro realista che domina la scena, per restituire un ritratto preciso di una vita (im)perfetta. E così come Wenders ha imparato a conoscere questa città col tempo, Perfect Days ne chiede un po’ allo spettatore per farsi spazio nel proprio cuore.
Scritto da Luca Di Giulio
Dream Scenario
di Kristoffer Borgli
Hai mai sognato quest’uomo? Cosa fareste se improvvisamente scopriste di apparire nei sogni di migliaia di persone e per di più in maniera completamente passiva? È più o meno quello che accade a Paul Matthews (Nicolas Cage), ordinario e dimesso insegnante di biologia. Paul ha due figlie, una bella moglie ed una splendida casa. Il suo unico desiderio è quello di poter essere celebrato per il suo lavoro. Un giorno, all’improvviso, si rende conto di apparire in sogno a milioni di perfetti sconosciuti, diventando il volto più famoso del mondo. Entusiasta e convinto di poter realizzare le sue aspirazioni, Paul proverà presto sulla sua pelle quanto poco basti per trasformare un sogno nel suo esatto opposto.
Il regista norvegese Kristoffer Borgli, qui al suo terzo lungometraggio, sbarca negli Stati Uniti (la pellicola infatti è una produzione A24), ma non perde affatto il suo sguardo, acuto e trasversale, che gli permette di osservare la realtà con un umorismo tagliente.
Torna in Dream Scenario l’ossessione per la visibilità e soprattutto la ricerca dell’approvazione nello sguardo altrui, tematiche già molto presenti (seppur declinate in maniera diversa) nel precedente film del cineasta:, lo splendido e cattivissimo Sick Of Myself (2022). Più che lodevole infine la scelta di Nicolas Cage, totalmente irresistibile nella sua tragicomicità. Dream Scenario è il mix perfetto tra divertimento puro, arguzia e riflessione sui nostri tempi.
Scritto da Diana Incorvaia
Cerrar Los Ojos
di Victor Erice
Il cinema, secondo Victor Erice, è una “calligrafia dei sogni”. Lo racconta all’interno di Cerrar Los Ojos, con cui torna sullo schermo a distanza di trentuno anni da El Sol Del Membrillo (1992). Il suo nuovo film è un’indagine dei ricordi, dove l’immagine è al servizio della memoria e ci trasmette, con forza, un messaggio: il cinema è l’arte dell’immaginazione.
Una pellicola dove il colore innaturale della fotografia e i lenti piani sequenza fanno accedere lo spettatore ad una comfort-zone, una dimensione altra dove il ricordo non esiste, se non supportato dai sentimenti. I chiaroscuri di Cerrar Los Ojos alludono ad una morte ipotetica del cinema - con richiami al similare Goodbye, Dragon Inn (2003), fantasmatico capolavoro di Tsai Ming-Liang - salvo poi tradirsi con una sua rinascita attraverso l’immagine, in un luogo del passato (come la sala) che risulta fondamentale per riaprirsi al futuro e alla vita. La più bella dichiarazione d’amore verso la Settima Arte del 2023.
Scritto da Antonio Orrico
Ferrari
di Michael Mann
L’essenza di Ferrari (2023) è tutta nel monologo che Adam Driver pronuncia sulla tomba del figlio Dino. Mann stacca dal primo piano su un Enzo cupo, livido e cadaverico, ad un totale della stanza cimiteriale vuota. La morte è la vera protagonista del film. Morte del digitale - di nuovo, dopo Blackhat (2015) - e dell’uomo, che si materializza attraverso l’incidente di Guidizzolo. La vita sfugge insieme ai velocissimi piani sequenza delle corse, che si oppongono ai primi piani mortiferi degli interni, espressioni di io frammentati.
Mann gira il suo film più cimiteriale, l’apice della sconfitta, la sua tragedia omnia. Adam Driver è un uomo scisso, ossessivo e maniacale quanto il Dillinger di Public Enemies (2009), affezionato alla vittoria attraverso il dono della parola come Wigand in The Insider (1999), ma destinato a perdere inesorabilmente pur conservando il fuoco della battaglia e delle imprese. In Enzo Ferrari scorre il sangue di McCauley - Heat (1995) - di Vincent - Collateral (2004) - e di Frank - Thief (1981) - tutti riuniti insieme in una celebrazione funerea. La resa dei conti (definitiva?) di Michael Mann con l’Oscura Signora.
Scritto da Antonio Orrico
Babylon
di Damien Chazelle
“Quando amo sudo”, diceva il personaggio di Marcello Mastroianni a Sophia Loren in Ieri, oggi, domani (1963) di Vittorio De Sica. Babylon racconta esattamente questo: la fatica, il trasporto e lo sforzo fisico, tipico dell’innamoramento. Stavolta, però, “questo sentimento popolare” è nei confronti del cinema.
L’ultimo lungometraggio di Damien Chazelle si colloca, così, all’interno del lungo elenco di riflessioni meta-filmiche che recentemente affollano sempre più le opere dei registi di ogni parte del mondo. Ciononostante, il suo cruento ritratto della Settima Arte, a differenza degli altri, assomiglia a tutto tranne che ad un amarcord. L’autore, infatti, lanciandosi in un pindarico ritratto della Hollywood degli anni venti, e senza farsi fottere dalla nostalgia, come affermava Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso (1988), scansa categoricamente le solite plastiche rappresentazione dell’epoca d’oro e trascina, con violenza, la narrazione dentro un labirintico tour de force nei meandri più nascosti del cinema: in cui è facile perdersi, soprattutto se si ha una gran voglia di rincorrere la propria passione, anche a costo di smarrire la retta via.
A ricompensare il pubblico dell’estenuante viaggio di ben tre ore è soltanto il suo epilogo improvviso, commovente, capace di rompere il frenetico ritmo dettato dalla straordinaria colonna sonora di Justin Hurwitz e accogliere gli spettatori tra le calde braccia di una sala: dove guardare un classico sul grande schermo restituisce un senso alla vita e alle cose.
Scritto da Alice De Luca
L'ultima notte di Amore
di Andrea Di Stefano
Franco Amore è un poliziotto alle porte della pensione, che, come in ogni “ultima notte” che si rispetti, mette a repentaglio vita e famiglia dopo vent’anni di carriera senza neanche una macchia.
Milano si riprende lo scettro di capitale del poliziottesco (genere molto in voga nel cinema italiano tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli ottanta), in un ideale richiamo al capolavoro del 1972, Milano Calibro Nove, che si apriva con piazza del Duomo, un luogo che qua fa da scenario al triste epilogo della storia.
Andrea Di Stefano, regista con alle spalle una lunga esperienza da attore anche in paesi anglosassoni e già regista di due film in lingua inglese, torna in patria e scodella un thriller poliziesco girato con mestiere e dal forte impatto visivo. Chiaramente archetipico e infarcito di topoi tipici del genere, riesce grazie all’ottimo lavoro degli attori a vibrare delle emozioni e dei sentimenti dei personaggi, pedine di un universo criminale ben tratteggiato.
Scritto da Cosimo Maj
Mimì - Il principe delle tenebre
di Brando De Sica
Non è semplice dare una definizione univoca di Mimì - Il principe delle tenebre: il regista Brando De Sica decide di portare in sala come sua prima opera ufficiale un film permeato dall’amore per il cinema nelle sue sfaccettature più varie. Esplorando nel corso della narrazione numerosi generi, dal grottesco al racconto di formazione, dal romantico all’horror e non solo, la pellicola riesce a creare un mondo in cui la più cruda realtà riesce a convivere con la fantasia, lasciando spesso lo spettatore a chiedersi se ciò che gli viene mostrato sia reale o frutto dell’immaginazione dei protagonisti. Questo viene accentuato e sfruttato dall’autore per rendere omaggio alla storia del cinema e a uno dei suoi mostri più famosi, Nosferatu, dal film omonimo di Murnau, a un secolo di distanza dal suo debutto. La tematica del mostro trova inoltre differenti incarnazioni fisiche e morali tra i personaggi stessi: nella Napoli di Mimì ognuno è un mostro a suo modo.
Mimì è un film coraggioso, soprattutto all’interno della produzione nostrana, che studia gli stilemi e le declinazioni del cinema di genere per crearne una sintesi che è un vero e proprio tributo alla Settima Arte.
Scritto da Francesco Sellitti
La nostra selezione dei migliori film
usciti quest'anno,
scritto da redazione ODG
TR-90
24.12.2023
Come ogni vigilia di Natale, prima della grande abbuffata ammazzafamiglie, vi presentiamo la nostra consueta selezione dei migliori film di quest’anno, presentati ai festival, in streaming o usciti nelle sale italiane a partire dallo scorso gennaio
Le parole chiave che potrebbero caratterizzare quest'annata cinematografica sono: female power (era ora) e ripensamento collettivo. Film diretti da donne o incentrati su figure femminili davvero originali e sovversive hanno conquistato pubblico e critica.
Allo stesso tempo, alcune opere hanno esplorato il passato, offrendoci una chiave di ri-lettura dei traumi collettivi che hanno afflitto l'umanità.
In un periodo in cui conflitti terribili perdurano, crediamo che il cinema possa essere una potente arma contro la brutalità dell'oppressione.
Killers of the Flower Moon
di Martin Scorsese
Nell’adattare il saggio di David Grann e quindi nel ripercorrere le vicende legate al genocidio degli Osage nell’Oklahoma degli anni venti, Scorsese realizza senz’altro il film più mortuario della sua carriera. Il racconto di una strage che ha macchiato la storia americana trova sfogo in una narrazione fluviale e funebre, in cui la morte è rappresentata ora con ritmi improvvisi e di spiazzante materialismo, ora con toni sotterranei, cupi e di straordinaria tragicità.
L’ambiguità in cui sono immersi i personaggi di De Niro e DiCaprio contamina la narrazione di incertezze e false piste, finché la chiarezza di un pretesto metanarrativo non cancella ogni dubbio: non c’è banalità più grande del male e non c’è male più banale del capitalismo. Ma con questo grande film dall’approccio decoloniale, Scorsese realizza anche un momento di importante autoanalisi, rileggendo il suo cinema sotto il segno di una profonda responsabilità autoriale e, in definitiva, di una commovente urgenza espressiva. Raccontare per urgenza, mai per piacere.
Scritto da Jacopo Abballe
Club Zero
di Jessica Hausner
Miss Novak, prof di alimentazione consapevole, nutrizionista-guru, membro del Club Zero, è il personaggio più spaventoso di quest’anno, perché capace di convincere un gruppo di studenti di un college d’élite a ridurre al minimo il consumo di cibo. In una sorta di auto-sabotaggio ecologista, la più privilegiata e futuribile classe dirigente auto-collassa in un cortocircuito ideologico e biologico: non nutrirsi per salvare il pianeta, ovvero uccidersi per vivere.
Qui sta il dato più sorprendente: il ribaltamento della parabola ecologista in distopia, l’uso del cinema come paradosso, l’ennesimo dello sguardo misterico e dubbioso di Hausner. Da una parte una GenZ annoiata, progressista, anaffettiva, incapace di legarsi a un ideale, se non nella sua deriva morbosa e suicidiaria, come in un nuovo Settimo continente (1989); dall’altra gli adulti, sciocchi e creduloni. Entrambi, incatenati in un susseguirsi di “ultime cene” colte in tableaux fissi e planimetrici, non riescono a comunicare; i grandi ricordano gli adulti fragili di Ostlund, i piccoli la letale prole de Il Nastro Bianco (2009). Nel mezzo, il rifiuto a nutrirsi si impone come definitivo sciopero esistenziale, con l’intenzionale scacco morale del disturbo alimentare narrativizzato come scelta, addirittura come fede.
Ma Club Zero spicca non in quanto deliberatamente scorretto, ma piuttosto perché ostico per lo spettatore nel suo comunicare una cifra dei nostri giorni: la sensazione della resa, di un’urgenza ormai quieta, un’apocalisse per implosione che contagia il cinema stesso. Si guarda all’inevitabile compiersi del mostruoso, dentro i bordi fissi dello sguardo di Hausner; uno stile respingente, perché soffoca i personaggi in griglie di diagonali, coreografie immobili, tanto costrittive da obbligarli alla sparizione. Club zero è un dilemma in cui il cinema prova a filmare la morte del mondo, sacrificando ogni sua gradevolezza, in favore della più amara consapevolezza del tempo che viviamo. Nausea e vomito non più simbolo di una società che collassa per eccesso, come in Triangle of sadness, ma come rifiuto, negazione, composto svuotamento di sé.
Scritto da Matteo Bonfiglioli
La chimera
di Alice Rohrwacher
Un manipolo di anarchici tombaroli svuota il sottosuolo dell’Etruria, finendo qualche volta in carcere, guadagnandosi quel tanto che basta a sopravvivere di vino al bar di un piccolo paese e scherzando con la morte in rinnovati rapporti con la magia e gli stregoni. Ci sono desideri proibiti e impossibili, antagonisti invisibili e maestosi, amicizie solidali, tradimenti, ricerche.
Alice Rohrwacher arriva al suo quarto lungometraggio con lo stupore sulle labbra, capace di irretire i suoi spettatori con una fiaba avventurosa, trascinandoli in una storia dal finale già prefigurato come nelle migliori opere classiche. Il desiderio, il rapporto dell’umano con l’invisibile e l’inconoscibile, l’eterna propensione alla scoperta e al dolore della perdita si scontrano con l’inevitabile sopraffazione del capitale nel contesto di trasformazione sociale più netto del 20esimo secolo italiano.
In un mondo appena post-contadino, il potere capitalista coopta la magia ai suoi profitti, l’avventura ai suoi calcoli, lasciando perire in cunicoli instabili di terra il suo ultimo oppositore: un romantico per eccellenza che vede la sua tensione al sublime ridotta a quantificabile merce. Orfeo e Ulisse, Arthur spezza i legami con il terreno per riappropriarsi dell’Invisibile e del suo cuore, consegnandoci l’abbraccio più tenero e potente di quest’anno cinematografico.
Scritto da Emanuele Tresca
Close
di Lukas Dhont
Leo e Rémi sono due vivaci tredicenni che godono appieno della loro tenera età trascorrendo molto tempo insieme, con Leo che spesso dorme a casa di Rémi. All'inizio dell'anno scolastico, i nuovi compagni notano il forte legame e l'affetto che lega i due ragazzi. Durante la ricreazione, una compagna di classe li provoca sulla natura della loro relazione. Rémi mantiene la calma, mentre Leo si irrita, evidenziando che anche lei condivide gesti affettuosi con le sue amiche. La compagna sostiene che tra ragazze sia normale, ma tra ragazzi è il segno che potrebbe esserci qualcosa di più.
È questa la premessa del secondo film di Lukas Dhont. Dopo l'acclamato esordio Girl (2018), il regista belga torna a confrontarsi con l’affermazione della propria identità e i propri sentimenti in una società in cui il peso del pregiudizio può spingere chi ne è vittima a tragiche conseguenze. Questa volta l'ambiente raccontato è quello dei primi anni della scuola superiore. Lo sguardo di Dhont sul mondo è inconfondibile: sobrio e introspettivo, la camera da presa sembra rubare i sentimenti più celati dei giovani protagonisti, restituendo tutta la loro disarmante verità e trafiggendo lo spettatore come una lama tagliente.
Scritto da Eric Scabar
Barbie
di Greta Gerwig
Erano molti i rischi che comportava approcciarsi alla lavorazione di un film come Barbie, specialmente a seguito della buonissima reputazione che Greta Gerwig si era creata dopo appena due film. La sfida titanica che dev'essersi posta in fase di scrittura assieme al marito Noah Baumbach è: come possiamo trasporre in forma cinematografica una bambola, simbolo rappresentante della donna-oggetto, e attualizzarla mandando un messaggio chiaro al mondo di oggi? Barbie si erge a blockbuster d’autore destinato a lasciare un'impronta indelebile nella storia del cinema, grazie alla sua portata contenutistica. Fin dalle prime immagini, si manifesta nella sua entità, citando con squisita ironia 2001: Odissea nello Spazio (1968).
La grandezza dell'opera di Greta Gerwig risiede nella consapevolezza della sua regista, che ha colto l'occasione per trasmettere un pensiero ad un pubblico molto vasto. Barbie si configura come un film evento con un chiaro messaggio sociale: il patriarcato ha le ore contate, ma molti uomini ancora non ne sono consapevoli. In una società apparentemente paritaria, la relazione tra uomo e donna non può più essere la stessa di prima. Per conseguire questo obiettivo, Gerwig crea due mondi: quello di Barbieland e quello in cui viviamo noi, due realtà che assumono un carattere metaforico. La regista le fa scontrare e incontrare per farci perdere le nostre certezze e, forse, per renderci un po' più umani. Barbie si presenta come un'opera audace e incisiva, capace di sfidare convenzioni e stimolare riflessioni sulle dinamiche di genere.
Scritto da Eric Scabar
El Conde
di Pablo Larraín
Hegel parlava di individui cosmico-storici in riferimento a personaggi che sembrano essere stati scelti e protetti dalla Storia stessa. Nonostante questa teoria avesse un’accezione positiva, legata alla realizzazione dello Spirito, è innegabile che siano numerosi i protagonisti del passato che non smettono di esercitare un’inquietante fascino ancora oggi per le capacità che li hanno portati a dominare la scena, nel bene e nel male. L’analisi di questo fascino proibito è al centro di El Conde (2023), il nuovo lavoro di Pablo Larraín, che vede un riavvicinamento del regista alla tematica caratterizzante delle sue prime pellicole: la storia del Cile. Larraín sperimenta, alla ricerca di un tipo di narrazione consona al soggetto trattato, perché parlare di un uomo morto appena diciassette anni fa non è un’impresa facile.
Il risultato di questa ricerca è un racconto strutturato, che rifugge dal mero realismo per propendere verso un modo atipico di rappresentare la Storia. “Se fosse stato un dramma realistico, avremmo potuto provare empatia per Pinochet” spiega Larraín. Ecco quindi che un dittatore del Novecento viene presentato nelle vesti di vampiro, figura capace di insediarsi negli spiragli di tutte le epoche sin dai tempi della Rivoluzione Francese, assumendo aspetti sempre diversi. Così il regista cileno parla di una ciclicità degli avvenimenti, nel tentativo di condannare chi è rimasto impunito dalla Storia.
Scritto da Sofia Sardella
The Zone of Interest
di Jonathan Glazer
Parlare di un film che così inequivocabilmente invita all’ascolto è inopportuno. Soprattutto perché lo stesso Glazer è il primo ad esporsi solo quando sente di avere qualcosa da dire, qualcosa di prettamente necessario. Il suo quarto lungometraggio, The Zone of Interest, ci costringe a riesaminare un buio a cui siamo letargicamente abituati, sporgendosi oltre la banalità del male, oltre le mura e i recinti che fanno da confine alla nostra memoria breve e cieca.
Scritto da Rodrigo Mella
Green Border
di Agnieszka Holland
Nelle sale della Mostra di Venezia, il film di Agnieszka Holland, decana del cinema polacco, è stato uno dei più sentiti. Respiri pesanti, commozione, applausi convinti. Green Border è emerso immediatamente come uno dei favoriti per il Leone d’Oro e a molti è sembrato che il Premio della Giuria con cui è stato incluso nel palmarès non fosse abbastanza.
Il motivo è che Holland si è fatta carico di un tema importantissimo per l’Europa di oggi, le frontiere, e lo ha fatto con un equilibrio magistrale. Anzitutto scegliendo di usare uno stile tendente al documentario, implacabile nelle inevitabili scene di violenza e morte. Ma oltre a ciò decidendo di non lasciare nulla fuori dal quadro: la retorica pericolosa di cui si imbottiscono i soldati, i goffi tentativi di aiuto dei vari volontari costretti allo slalom tra norme ostacolanti e le contraddizioni della politica e dell’opinione pubblica. Non risparmia nessuno, com’è giusto che sia, neanche nel finale, mostrandoci dopo due ore di calvario l’accoglienza gioiosa e organizzata dei rifugiati ucraini. Fare un film come Green Border, nell’UE di oggi e nella Polonia di inizio settembre (quando si era in procinto di andare a votare), è un atto di coraggio straordinario. Nonché uno degli esempi più vividi di ciò che il cinema dovrebbe quantomeno provare ad essere.
Scritto da Tobia Cimini
La Bête
di Bertrand Bonello
Ad oggi sono pochissimi gli artisti che riescono davvero a decostruire e leggere il contemporaneo e ciò che viviamo ogni giorno sul piano delle interrelazioni in presenza e online. Coloro che comprendono i bisogni e le paure recondite di una società in continuo cambiamento. Quest’anno, possiamo decretare come vincitore assoluto, Bertrand Bonello, che con il suo La Bête distrugge ogni canone di scrittura e montaggio e reinventa i generi romance, fantascientifico e horror.
Il regista sviluppa questa, a tratti struggente, storia d’amore tra i personaggi interpretati da Léa Seydoux e George Mackay, attraverso tre diversi periodi temporali: 1910, 2014 e 2044. In un turbinio di setting, generi e lingue, Bonello conduce lo spettatore attraverso un rompicapo superficialmente insensato e stancante, per poi chiudere con una perfetta soluzione. Guardando La Bête la sensazione è quella di star fruendo di quel tipo di cinema tanto caro a registi arthouse come David Lynch o Leos Carax, autori delle due più grandi opere di questo secolo: Mulholland Drive (2001) e Holy Motors (2012). L’inquietudine suscitata da questi film, infatti, è la medesima in La Bête, che delinea la paura dell’amore e dell’intimità e, più in profondità, il terrore di ottenere ciò che è tanto ambito da ogni essere umano.
In una società in cui il raggiungimento dell’obiettivo ultimo è l’unico scopo sociale, ne siamo così affamati da non prepararci davvero al momento in cui lo otterremo. Siamo talmente atrofizzati dal sognare di vivere le emozioni da dimenticarci che bisogna avere il coraggio di provarle nella vita reale. Bonello costruisce così una delle opere cinematografiche più importanti di sempre, o per lo meno dei nostri giorni.
Scritto da Aureliana Bontempo
Oppenheimer
di Christopher Nolan
Oppenheimer è la riconferma della grandezza di Christopher Nolan, ma contemporaneamente un nuovo inizio, sia per la distribuzione targata Universal, sia per alcune delle tecniche adottate durante la produzione (specialmente le sezioni in fotografia analogica IMAX in bianco e nero). Il regista londinese è da sempre noto per la sua narrazione epica, che sfida i limiti spazio-temporali di qualsiasi genere artistico.
Ma qui l’impresa è ancora più impervia: a diventare epos è la Storia stessa, che vede in J. Robert Oppenheimer, resuscitato grazie a un Cillian Murphy impeccabile, il suo Prometeo, il cui titanismo è tutto nelle gesta. Così come accade nel mito, anche nell’ultimo lavoro di Nolan tutta l’ambivalenza di un’aspirazione utopica si fa contemporaneamente progresso e condanna, speranza e aberrazione. Questo film reifica e disserta tutte le sfide che noi umani dovremo affrontare, ponendoci di fronte ogni possibilità del caso. Oppenheimer è un’esperienza sinestetica, totale: il passato che si è fatto presente, il divenire che si è fatto cinema.
Scritto da Mattia Cirilli
Il cielo brucia
di Christian Petzold
Un giovane aspirante scrittore osserva lo svolgersi della vita dei suoi coetanei chiuso dentro le mura di una villa. Scritto durante il covid, Il cielo brucia è la radiografia di una generazione di giovani europei incapaci di trovare un contatto autentico con la vita, a meno che esso non sia mediato da qualche dispositivo o barriera che funga da rete di protezione.
In un’atmosfera estiva che fa presagire la catastrofe, Christian Petzold ritrae l’ambiguità dei rapporti umani, i desideri frustrati e la passione che brucia fino a consumarsi con uno stile che richiama quello di Éric Rohmer.
Le performance di Thomas Schubert e Paula Beer, alla terza collaborazione con il regista tedesco, impreziosiscono Il cielo brucia rendendolo una delle opere più stimolanti e suggestive dell’anno. Concluso il film, infatti, si ha come la sensazione di essere stati travolti da un incendio e di dover fare i conti con la cenere che ne consegue.
Scritto da Arturo Garavaglia
About Dry Grasses
di Nuri Bilge Ceylan
Giunto nella fase matura della sua carriera, Nuri Bilge Ceylan sembra aver trovato la formula drammaturgica perfetta per tenere insieme i diversi elementi che nutrono il suo cinema sin dagli esordi.
Se c’è una sensazione che più di tutte rimane, terminate le tre ore e venti di visione del film, è quella di aver assistito a un’opera estremamente stratificata, esistenzialista ma allo stesso tempo politica, ambigua nonostante la marea di parole che la compongono, ermetica ma non per questo incapace di dialogare con il pubblico.
Ceylan indaga nella profondità dell’animo dei propri protagonisti. Ne sonda i malesseri, le frustrazioni, le incongruenze, e restituisce i risultati sullo schermo tramite dialoghi precisi ma allo stesso tempi evasivi, il cui senso è da cogliere più che nelle parole nella modalità in cui vengono proferite. Ciò si traduce in un’immagine anch’essa ambigua, rigida e perlopiù priva degli estetismi presenti in diversi suoi film, ma in grado di racchiudere e trasporre sul piano visivo la profondità dell’indagine psicologica compiuta dal regista turco.
Scritto da Arturo Garavaglia
C'è ancora domani
di Paola Cortellesi
Paola Cortellesi è senza alcun dubbio una delle migliori performer del panorama italiano, ma quest’anno ci ha dimostrato di essere anche una cineasta di tutto rispetto. Il suo talento come sceneggiatrice non era un mistero, ma come regista ha saputo mostrare quanto il passato sia più contemporaneo di quel che crediamo.
Non solo sceglie di ambientare la propria storia nel 1946, anno fondamentale per il nostro Paese, ma decide anche di riprenderne l’estetica: come il bianco e nero brillante che ci riporta subito alle pellicole del neorealismo italiano di quegli anni (e qui una menzione speciale va a Davide Leone per la fotografia). Cortellesi usa il passato (e l’ironia che la contraddistingue) per raccontare il nostro presente, cercando di trasmetterci il messaggio che, anche se ridotte al silenzio, le donne hanno la forza di cambiare il sistema.
Scritto da Cecilia Parini
Il male non esiste
di Ryusuke Hamaguchi
Dopo il grande successo di Drive My Car, film presentato al Festival di Cannes che ha ottenuto diversi riconoscimenti tra i quali l’Oscar come miglior film internazionale nel 2022, Ryusuke Hamaguchi torna in sala col suo nuovo lavoro: Il male non esiste. Il regista trascina, fin dalla prima inquadratura, il pubblico all’interno del suo Giappone, fatto di paesaggi naturali (quasi) incontaminati e poetici messi in contrapposizione con l’uomo e il suo operato.
Attraverso la storia di una località boschiva che rischia di essere trasformata in un clamping da un’azienda di Tokyo, Hamaguchi si interroga sul confine tra il bene e il male, fino ad arrivare a confondere lo spettatore che, a sua volta, non saprà più distinguere i buoni dai cattivi.
Scritto da Cecilia Parini
Do not expect too much from the end of the world
di Radu Jude
Presentato al Festival di Locarno di quest’anno, Do not expect too much from the end of the world si aggiudica il premio come film più geniale, no sense e profondo che sia stato proiettato nel corso del 2023. Attraverso la storia di Angela - un assistente di produzione che gira tutta Bucarest per fare dei casting - Radu Jude riesce a portare sul grande schermo un’enorme denuncia sociale dei nostri tempi, sempre più vicini a un crollo di nervi collettivo, dimostrando come ormai ogni immagine possa essere manipolata.
Film complesso, nel quale il regista rumeno decide di far dialogare il proprio lavoro con quello di Lucian Bratu inserendo intere sequenze di Angela goes (1981), lungometraggio che ci mostra i grandi cambiamenti della società balcanica (e non solo). Più che un film, Do not expect too much from the end of the world è un flusso di coscienza arrabbiato e disilluso che rivela tutta l'assurdità del mondo moderno.
Scritto da Cecilia Parini
Los Delincuentes
di Rodrigo Moreno
L’alienazione dell’individuo all’interno di una società e la ricerca di una via di fuga dalla monotonia della propria quotidianità, argomenti già approfonditi da Rodrigo Moreno nel corso della sua carriera con El custodio (2006) e Un mundo misterioso (2011), sono i temi cardine di Los Delincuentes. Con il suo ultimo lavoro il regista argentino prosegue il suo interessante discorso sull’esistenzialismo e l’inquietudine di una Nazione corrosa da un sistema capitalista.
Traendo liberamente ispirazione dal lungometraggio Apenas un delincuente (1949) di Hugo Fregonese, Moreno dirige un’originale heist comedy che vede protagonisti due impiegati bancari: Morán e Román. Un giorno, il primo, decide di ideare un piano per derubare la banca in cui lavora e cambiare la propria vita, ma per far sì che ciò funzioni dovrà coinvolgere il riluttante collega. Los Delincuentes è una favola picaresca dove Moreno adopera un linguaggio cinematografico stravagante in modo da creare un mondo che si discosta parzialmente dalla nostra realtà. Per fare ciò, il cineasta ha utilizzato degli anagrammi per i nomi dei vari personaggi e un deadpan humor che mette in risalto l’assurdità di certe situazioni.
Da segnalare anche l’abile utilizzo dello split screen per mettere a confronto le condizioni dei due protagonisti e l’omaggio, esplicito e simbolico, a L’Argent (1983) di Robert Bresson. Los Delincuentes è una delle migliori opere di quest’anno, firmata da uno dei maggiori esponenti del Nuovo Cinema Argentino. Ne consigliamo la visione appena il film verrà distribuito su MUBI.
Scritto da Omar Franini
La passion de Dodin Bouffant
di Tran Anh Hung
Ambientato in Francia nel 1889, La Passion de Dodin Bouffant segue la delicata relazione tra Eugenie (Juliette Binoche) e Dodin (Benoît Magimel), due cuochi gourmet che lavorano insieme da più di vent’anni, le cui prelibatezze sono invidiate ed amate da chiunque. Tra queste c’è il Pot-au-feu, un bollito che all’apparenza può sembrare facile da cucinare, ma che poi nasconde una preparazione piuttosto complessa. Questa pietanza rappresenta appieno la relazione tra i due protagonisti: apparentemente semplice ma in realtà piena di sfaccettature.
Binoche e Magimel riescono a trasmettere la complessità dei loro personaggi tramite una recitazione minimalista, dove gli sguardi, e i silenzi, riescono a mostrare una storia d’amore narrata attraverso delle creazioni gastronomiche.
La Passion de Dodin Bouffant non è soltanto un’intima e sensuale cronaca sentimentale, ma anche un'ode all’arte culinaria, aspetto esaltato dal regista vietnamita Tran Anh Hung - riconosciuto con il premio per la miglior regia al Festival di Cannes 2023 - tramite i fluidi movimenti di camera che seguono le gesta dei cuochi, una mise-en-scene che richiama le opere dei pittori impressionisti e, infine, un raffinato uso del soundscape culinario e naturale. La Passion de Dodin Bouffant è un film sublime, che nei prossimi mesi raggiungerà le nostre sale con Lucky Red.
Scritto da Omar Franini
May December
di Todd Haynes
May December è la nuova, complessa, opera di Todd Haynes, uno sguardo irriverente e satirico sulla psiche deviata di una coppia, la cui quiete verrà scombussolata dall’arrivo di una terza figura. Al centro della storia c’è l’ossessione artistica di Elizabeth (Natalie Portman), un’attrice che, per preparare un ruolo nel suo nuovo film, decide di studiare in prima persona il personaggio che dovrà interpretare, Gracie (Julianne Moore), scombussolando il rapporto della donna con suo marito Joe (Charles Melton), la cui relazione è stata frutto di un enorme scandalo poiché iniziata quando l’uomo aveva solo dodici anni.
Per raccontare una storia così peculiare, Haynes compie un’operazione articolata sul tono del film, esaltando l’aspetto grottesco e la natura dualistica dei personaggi tramite le eccellenti interpretazioni dei tre protagonisti. Natalie Portman brilla in un ruolo che si addice perfettamente al suo temperamento attoriale, mentre Julianne Moore continua la sua lunga collaborazione con il regista portando sullo schermo un personaggio la cui naiveness nasconde una natura contorta ed insondabile. Ma a rubare la scena alle due attrici è la struggente interpretazione di Charles Melton. L'interprete ci mostra, in maniera magistrale, il mancato sviluppo intellettivo di Joe: un trentaseienne con la mentalità, la postura e i comportamenti di un teenager.
May December è un film raro da trovare al giorno d’oggi, e il suo mix di delizia, rischio e provocazione lo rendono un prodotto unico nel suo genere. Il lungometraggio verrà distribuito prossimamente nelle nostre sale da Lucky Red.
Scritto da Omar Franini
Past Lives
di Celine Song
Past Lives è una delle opere prime più significative degli ultimi anni, un film di rara bellezza che si colloca in quel filone romantico che analizza il “quasi amore” tra due personaggi, ricalcando le orme di grandi classici come Brief Encounter (1945) di David Lean. Al fulcro della storia c’è il rapporto tra Nora (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo), due amici d’infanzia che cercano di ricreare un legame dopo che le loro “strade” si sono separate. Nora, emigrata in occidente con la famiglia, è diventata una drammaturga, mentre Hae Sung, rimasto in Corea, è in procinto di diventare un ingegnere. Nonostante siano pronti a recuperare il tempo perso, le ambizioni lavorative e la distanza che li separa non giocano a loro favore.
Adoperando il termine coreano inyeon (인연) - un’espressione che indica il forte legame fra due persone nel corso della loro vita - come leitmotiv dell’opera, Celine Song mostra lo sviluppo della relazione tra i protagonisti attraverso tre sezioni distinte e collocate a dodici anni di distanza. È interessante notare come la regista affronti una storia dalla tematica universale per compiere una riflessione sullo “scontro” culturale tra i personaggi; da una parte Nora, che sembra aver abbandonato ogni tratto del proprio passato, dall’altra Hae Sung, strettamente legato alla propria cultura.
Oltre alle splendide interpretazioni centrali di Greta Lee e Teo Yoo, va menzionata anche l’abilità con cui Song posiziona la camera - rendendo la città di New York un “personaggio” aggiunto, un elemento che accompagna lo spettatore nel corso del film - e l’immacolato uso della colonna sonora, in grado di amplificare le emozioni in una maniera affatto forzata, come nella struggente scena finale. Past Lives uscirà nelle sale il 14 febbraio grazie a Lucky Red.
Scritto da Omar Franini
Il libro delle soluzioni
di Michel Gondry
Sono passati otto anni dall’ultimo film di Michel Gondry e qualcuno in meno dalla serie Kidding, che era così triste da essere quasi inguardabile. Gondry è bipolare e nel suo nuovo film si ride molto. Solo che Gondry è letteralmente bipolare, diagnosticato mentre girava La schiuma dei giorni (2013), e, non a caso, in questa sua ultima pellicola parla proprio delle difficoltà avute in quel periodo nel completare il film.
Gli scatti di rabbia, l’egocentrismo, la megalomania, l’idealizzazione di diverse donne, l’essere scontroso e lo scusarsi continuamente, tutto questo è rappresentato in modo ironico e tenero fin quando non arriva anche la parte amara, non in modo improvviso, a guastare il mood: è più una realizzazione che lo spettatore ha verso la fine, ma è inevitabile che arrivi. Sincero e disarmante.
Scritto da Virgil Darelli
Firebrand
di Karim Aïnouz
Un’opera che segna due grandi traguardi per Karim Aïnouz: il primo film in lingua inglese e il debutto nel Concorso principale del Festival di Cannes 2023 - dopo il passaggio in Quinzaine des Réalisateurs di O abismo prateado (2011) e quelli in Un Certain Regard di Madame Satã (2002) e La vita invisibile di Eurídice Gusmão (2019).
Con il suo ultimo lavoro Aïnouz decide di focalizzarsi sulla figura di Catherine Parr, ultima moglie del sanguinario, e paranoico, re inglese Enrico VIII Tudor. Ciò che emerge è il lucido e stratificato ritratto di una donna oppressa dal dominio maschile, un’eroina perennemente in bilico tra sottomissione e brama di libertà, morte e vita. Difatti lo scopo del regista brasiliano non è quello di restituire l’esatta cronistoria di un personaggio realmente esistito, ma di comporre una grande metafora sul potere, la religione e il ruolo delle donne nella Storia.
Alicia Vikander e Jude Law inscenano, con credibilità, grinta e talento, due personaggi profondamente complessi e sfaccettati. Una menzione speciale va però a Jessica ed Henrietta Hasworth, le due sceneggiatrici del film che, attraverso una serie di scelte “romanzesche” veramente azzeccate, fondono, con grandissima precisione, le atmosfere del period drama con i tempi del thriller. Straordinaria la scelta di osservare il microcosmo della corte cinquecentesca non attraverso gli occhi di Cat - nomignolo con la quale il perfido sovrano appella “amorevolmente” la consorte - bensì tramite quelli di una giovanissima Elisabetta I, testimone, acuta e silenziosa, delle prepotenze di un potere, abusante, bigotto e cieco.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Disco Boy
di Giacomo Abbruzzese
Disco Boy - una coproduzione internazionale che vede impegnati l’Italia, la Francia, il Belgio e la Polonia - è stato uno dei film più rilevanti dell’intera annata. Presentata in anteprima al Festival di Berlino 2023, la pellicola si è aggiudicata meritatamente l’Orso d’Argento al miglior contributo artistico. Un premio che segnala, e riconosce, il grande talento di Giacomo Abbruzzese - uno dei registi più interessanti dell’attuale panorama cinematografico italiano - che, proprio con quest’ultimo lavoro, compie il suo debutto nel lungometraggio.
Ad un primo sguardo Disco Boy sembrerebbe un film a tematica bellica, salvo poi discostarsi completamente da un genere specifico per mutare in un dramma esistenziale visivamente sorprendente ed ispirato. Un’avventura psichedelica che trascina lentamente lo spettatore in una sorta di rituale collettivo: tutto, dall’ispirata fotografia di Hélène Louvart fino ai ritmi dell’ipnotica melodia tecno composta dal disc jockey francese Vitalic, sembra costruito per stordire i sensi del pubblico.
Grazie al ruolo del bielorusso Aleksej, Franz Rogowski dimostra - attraverso un’interpretazione misurata, sinuosa e felina - di essere uno degli attori europei più dotati del momento. Splendide le prove del debuttante Morr Ndiaye e di Laëtitia Ky, perfettamente in grado di tenere testa alla catalizzante presenza di Rogowski. Insomma, un’esperienza “sensoriale” che sancisce la definitiva affermazione di un regista che farà parlare di sé.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Foglie al vento
di Aki Kaurismäki
Dopo la vittoria del premio alla miglior regia al Festival di Berlino 2017 per L'altro volto della speranza e un assenza durata sei anni, il grande Aki Kaurismäki ritorna al cinema regalandoci un delicato racconto d’amore e completando, dopo ben trentaquattro anni, la sua quadrilogia sulla classe operaia finlandese - iniziata con Ombre in paradiso (1986) e proseguita con Ariel (1988) e La fiammiferaia (1990). Vincitore al Festival di Cannes 2023 del Premio della Giuria, Foglie al vento è un film che riesce a catturare gli occhi e il cuore di chi lo osserva tramite la sua disarmante semplicità…una semplicità preziosa, attenta, misurata e diretta.
Il lungometraggio è una ballata sentimentale tra due esseri soli al mondo, raccontata attraverso un’estetica ispirata e mai banale. Ogni elemento che compone il film viene seguito con parsimoniosa attenzione e cura estrema. Le tonalità dei colori, che riflettono la stasi emotiva dei protagonisti, sembrano voler raccontare il loro non detto, mentre le strepitose interpretazioni in sottrazione di Alma Pöysti - nominata ai Golden Globe - e Jussi Vatanen commuovono fino all’ultimo secondo.
Stupenda la scelta di inserire svariati riferimenti cinefili attraverso i poster di grandi film che appaiono sullo sfondo durante i vari incontri tra i personaggi. Terminata la visione, l’unico rimpianto che quest’opera lascia è la consapevolezza che Kaurismäki si concede poco negli ultimi due decenni, e che si dovrà quindi aspettare con pazienza per assistere ad una sua nuova, e rara, gemma.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Poor Things
di Yorgos Lanthimos
Tratto dall'omonimo romanzo del 1992 di Alasdair Gray, il Leone d'Oro di Venezia 80 è un potente racconto di formazione femminile, una commedia in cui il sarcasmo e il grottesco si fondono partendo dalla celebre favola, tanto cara al romanzo gotico, dello scienziato e della sua creatura. La povera creatura in questione è Bella Baxter, l'esperimento più riuscito di Godwin Baxter, chirurgo senza scrupoli che ha usato il cervello di un feto per ridare vita al cadavere di una giovane donna. Bella dovrà reimparare tutto da capo con un approccio infantile che poco si addice al corpo in cui si trova.
Lanthimos ci racconta in sei capitoli una donna che si autodetermina a livello personale, sessuale e morale non curante delle regole sociali che grazie alla sua bizzarra natura non la frenano in nulla; Bella scopre attraverso il sesso cosa vuol dire essere donna in una realtà machista raggiungendo una piena consapevolezza di sé e della sua natura.
Mantenendo fede al suo immaginario visivo fatto di immagini grandangolari e inseguimenti con la steady cam, il regista greco porta al cinema una fiaba utopica sulla libertà, in particolar modo quella femminile, che è inscindibile dall'esperienza del corpo e da una piena consapevolezza dei desideri e delle emozioni che lo attraversano. Poor Things arriva al pubblico come un inno di emancipazione che vive grazie ad un cinema visivamente forte.
Scritto da Bianca Susi
The Holdovers
di Alexander Payne
Siamo nel New England del 1970 e sembra di tornare indietro a quel decennio in cui il cinema americano virò verso una critica riflessività. Alexander Payne, assieme allo sceneggiatore David Hemingson, unisce il valore della compassione a quello della comprensione. The Holdovers sembra guardare a lavori come L’ultima corvé (Hal Ashby, 1973) e The Breakfast Club (John Hughes, 1985).
Il contesto è quello collegiale e l’inverno è di quelli che non si dimenticano, specialmente per lo studente Angus Tully, costretto ad unirsi, per le vacanze di Natale, ad un gruppo di scapestrati in un ritiro punitivo/educativo. Sono seguiti dal rigido ma bonaccione docente di Lettere Paul Hunham (Paul Giamatti) e dalla cuoca afroamericana Mary Lamb (Da'Vine Joy Randolph). Il vissuto dei tre personaggi si intreccia armonicamente con gli interni/esterni della struttura che li ospita. Paul e Angus imparano a comprendersi grazie alle circostanze e ne scaturisce un imprevisto quadretto familiare.
La bravura di Payne è ancora quella di saper amalgamare il dramma alla commedia - con battute caustiche a pizzicare la rigidità educativa - a favore di un fraterno umanesimo. Il contesto ambientale ben accompagna la crescente solidarietà comunicativa tra i personaggi, con la neve che stempera gli animi più caldi. E se Paul Giamatti offre l’interpretazione più convincente ed emozionante della sua carriera, Dominic Sessa sorprende nel suo sbalorditivo esordio. La poetica di racconto è animata da dolenti riflessioni ed aitanti buffonerie strozzate dalle divergenze e sorrette da una supplice regia invisibile.
Scritto da Federico Mattioni
Anatomia di una caduta
di Justine Triet
Anatomia di una caduta rompe qualsiasi premessa narrativa o aspettativa. Più che un’anatomia di elementi fattuali della tragica morte di Samuel è una vivisezione della vita coniugale (e non) di Sandra, in cui se il volto scavato della Hüller racconta una verità dietro la “caduta”, questa è quella del suo matrimonio.
Justine Triet scrive una minuziosa indagine sulle relazioni a metà tra il thriller e il dramma legale in cui, se l’obiettivo è quello di risolvere l’enigma, la regista lo affronta attraverso il linguaggio e il dialogo, discostandosi da un più classico whodunit costruito sui colpi di scena e sull’azione nel montaggio.
La prova in tribunale è la parola: non ci sono fatti da interpretare. Vediamo Samuel già inerme al suolo e nessuna giuria (filmica e non) è in condizioni di poter ricostruire i fatti, se non quelli che compongono il ritratto di una famiglia. Di fronte a questi elementi c’è solo il libero arbitrio che la scrittura di Triet utilizza come ago della bilancia mantenendo sempre alto il ritmo (considerando anche quanto si parla nelle scene in tribunale) mentre ci avviciniamo alla verità che più riteniamo avere un senso. Alla fine resta comunque il dubbio di aver percorso la strada sbagliata.
Scritto da Davide Merola
Perfect Days
di Wim Wenders
Sono passati quasi quarant’anni dal primo viaggio di Wim Wenders a Tokyo, dal primo confronto con quella metropoli conosciuta attraverso le inquadrature di chi la viveva tutti i giorni, ovvero Yasujiro Ozu. Tokyo-ga (1985) parlava proprio di questo: di un primo incontro con la realtà dei fatti e di un confronto con essa, per capirne, a confronto e attraverso la Settima Arte, le geometrie e i ritmi.
Perfect Days sembra voler tornare su quei passi e mostrarci un regista che ora ha la sensibilità di cogliere quei piccoli dettagli attraverso un cittadino comune, Hirayama, addetto alle pulizie dei bagni pubblici della città. Seguendo la routine quotidiana di quest’uomo, Wenders mette in scena un processo di rieducazione dello sguardo e di accettazione della temporaneità della vita umana: Hirayama studia costantemente quegli spazi che osserva ogni giorno, legge e parla poco, scompone attraverso le fotografie Tokyo e ce la riconsegna sotto una nuova prospettiva.
Ruttmann e Ivens aleggiano costantemente sulle spalle del cineasta tedesco, che lavora di fino e di contrappunto al registro realista che domina la scena, per restituire un ritratto preciso di una vita (im)perfetta. E così come Wenders ha imparato a conoscere questa città col tempo, Perfect Days ne chiede un po’ allo spettatore per farsi spazio nel proprio cuore.
Scritto da Luca Di Giulio
Dream Scenario
di Kristoffer Borgli
Hai mai sognato quest’uomo? Cosa fareste se improvvisamente scopriste di apparire nei sogni di migliaia di persone e per di più in maniera completamente passiva? È più o meno quello che accade a Paul Matthews (Nicolas Cage), ordinario e dimesso insegnante di biologia. Paul ha due figlie, una bella moglie ed una splendida casa. Il suo unico desiderio è quello di poter essere celebrato per il suo lavoro. Un giorno, all’improvviso, si rende conto di apparire in sogno a milioni di perfetti sconosciuti, diventando il volto più famoso del mondo. Entusiasta e convinto di poter realizzare le sue aspirazioni, Paul proverà presto sulla sua pelle quanto poco basti per trasformare un sogno nel suo esatto opposto.
Il regista norvegese Kristoffer Borgli, qui al suo terzo lungometraggio, sbarca negli Stati Uniti (la pellicola infatti è una produzione A24), ma non perde affatto il suo sguardo, acuto e trasversale, che gli permette di osservare la realtà con un umorismo tagliente.
Torna in Dream Scenario l’ossessione per la visibilità e soprattutto la ricerca dell’approvazione nello sguardo altrui, tematiche già molto presenti (seppur declinate in maniera diversa) nel precedente film del cineasta:, lo splendido e cattivissimo Sick Of Myself (2022). Più che lodevole infine la scelta di Nicolas Cage, totalmente irresistibile nella sua tragicomicità. Dream Scenario è il mix perfetto tra divertimento puro, arguzia e riflessione sui nostri tempi.
Scritto da Diana Incorvaia
Cerrar Los Ojos
di Victor Erice
Il cinema, secondo Victor Erice, è una “calligrafia dei sogni”. Lo racconta all’interno di Cerrar Los Ojos, con cui torna sullo schermo a distanza di trentuno anni da El Sol Del Membrillo (1992). Il suo nuovo film è un’indagine dei ricordi, dove l’immagine è al servizio della memoria e ci trasmette, con forza, un messaggio: il cinema è l’arte dell’immaginazione.
Una pellicola dove il colore innaturale della fotografia e i lenti piani sequenza fanno accedere lo spettatore ad una comfort-zone, una dimensione altra dove il ricordo non esiste, se non supportato dai sentimenti. I chiaroscuri di Cerrar Los Ojos alludono ad una morte ipotetica del cinema - con richiami al similare Goodbye, Dragon Inn (2003), fantasmatico capolavoro di Tsai Ming-Liang - salvo poi tradirsi con una sua rinascita attraverso l’immagine, in un luogo del passato (come la sala) che risulta fondamentale per riaprirsi al futuro e alla vita. La più bella dichiarazione d’amore verso la Settima Arte del 2023.
Scritto da Antonio Orrico
Ferrari
di Michael Mann
L’essenza di Ferrari (2023) è tutta nel monologo che Adam Driver pronuncia sulla tomba del figlio Dino. Mann stacca dal primo piano su un Enzo cupo, livido e cadaverico, ad un totale della stanza cimiteriale vuota. La morte è la vera protagonista del film. Morte del digitale - di nuovo, dopo Blackhat (2015) - e dell’uomo, che si materializza attraverso l’incidente di Guidizzolo. La vita sfugge insieme ai velocissimi piani sequenza delle corse, che si oppongono ai primi piani mortiferi degli interni, espressioni di io frammentati.
Mann gira il suo film più cimiteriale, l’apice della sconfitta, la sua tragedia omnia. Adam Driver è un uomo scisso, ossessivo e maniacale quanto il Dillinger di Public Enemies (2009), affezionato alla vittoria attraverso il dono della parola come Wigand in The Insider (1999), ma destinato a perdere inesorabilmente pur conservando il fuoco della battaglia e delle imprese. In Enzo Ferrari scorre il sangue di McCauley - Heat (1995) - di Vincent - Collateral (2004) - e di Frank - Thief (1981) - tutti riuniti insieme in una celebrazione funerea. La resa dei conti (definitiva?) di Michael Mann con l’Oscura Signora.
Scritto da Antonio Orrico
Babylon
di Damien Chazelle
“Quando amo sudo”, diceva il personaggio di Marcello Mastroianni a Sophia Loren in Ieri, oggi, domani (1963) di Vittorio De Sica. Babylon racconta esattamente questo: la fatica, il trasporto e lo sforzo fisico, tipico dell’innamoramento. Stavolta, però, “questo sentimento popolare” è nei confronti del cinema.
L’ultimo lungometraggio di Damien Chazelle si colloca, così, all’interno del lungo elenco di riflessioni meta-filmiche che recentemente affollano sempre più le opere dei registi di ogni parte del mondo. Ciononostante, il suo cruento ritratto della Settima Arte, a differenza degli altri, assomiglia a tutto tranne che ad un amarcord. L’autore, infatti, lanciandosi in un pindarico ritratto della Hollywood degli anni venti, e senza farsi fottere dalla nostalgia, come affermava Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso (1988), scansa categoricamente le solite plastiche rappresentazione dell’epoca d’oro e trascina, con violenza, la narrazione dentro un labirintico tour de force nei meandri più nascosti del cinema: in cui è facile perdersi, soprattutto se si ha una gran voglia di rincorrere la propria passione, anche a costo di smarrire la retta via.
A ricompensare il pubblico dell’estenuante viaggio di ben tre ore è soltanto il suo epilogo improvviso, commovente, capace di rompere il frenetico ritmo dettato dalla straordinaria colonna sonora di Justin Hurwitz e accogliere gli spettatori tra le calde braccia di una sala: dove guardare un classico sul grande schermo restituisce un senso alla vita e alle cose.
Scritto da Alice De Luca
L'ultima notte di Amore
di Andrea Di Stefano
Franco Amore è un poliziotto alle porte della pensione, che, come in ogni “ultima notte” che si rispetti, mette a repentaglio vita e famiglia dopo vent’anni di carriera senza neanche una macchia.
Milano si riprende lo scettro di capitale del poliziottesco (genere molto in voga nel cinema italiano tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli ottanta), in un ideale richiamo al capolavoro del 1972, Milano Calibro Nove, che si apriva con piazza del Duomo, un luogo che qua fa da scenario al triste epilogo della storia.
Andrea Di Stefano, regista con alle spalle una lunga esperienza da attore anche in paesi anglosassoni e già regista di due film in lingua inglese, torna in patria e scodella un thriller poliziesco girato con mestiere e dal forte impatto visivo. Chiaramente archetipico e infarcito di topoi tipici del genere, riesce grazie all’ottimo lavoro degli attori a vibrare delle emozioni e dei sentimenti dei personaggi, pedine di un universo criminale ben tratteggiato.
Scritto da Cosimo Maj
Mimì - Il principe delle tenebre
di Brando De Sica
Non è semplice dare una definizione univoca di Mimì - Il principe delle tenebre: il regista Brando De Sica decide di portare in sala come sua prima opera ufficiale un film permeato dall’amore per il cinema nelle sue sfaccettature più varie. Esplorando nel corso della narrazione numerosi generi, dal grottesco al racconto di formazione, dal romantico all’horror e non solo, la pellicola riesce a creare un mondo in cui la più cruda realtà riesce a convivere con la fantasia, lasciando spesso lo spettatore a chiedersi se ciò che gli viene mostrato sia reale o frutto dell’immaginazione dei protagonisti. Questo viene accentuato e sfruttato dall’autore per rendere omaggio alla storia del cinema e a uno dei suoi mostri più famosi, Nosferatu, dal film omonimo di Murnau, a un secolo di distanza dal suo debutto. La tematica del mostro trova inoltre differenti incarnazioni fisiche e morali tra i personaggi stessi: nella Napoli di Mimì ognuno è un mostro a suo modo.
Mimì è un film coraggioso, soprattutto all’interno della produzione nostrana, che studia gli stilemi e le declinazioni del cinema di genere per crearne una sintesi che è un vero e proprio tributo alla Settima Arte.
Scritto da Francesco Sellitti