NC-269
28.01.2025
Con l’uscita del suo ultimo lungometraggio, Pablo Larraín termina una "raccolta" di film biografici tutta al femminile composta da Jackie (2016), Spencer (2021) e Maria (2024). Non è la prima volta che il regista cileno ricorre alla “divisione” dei propri film in trilogie, basti pensare all’inizio della sua carriera nella quale, tra i primi lavori da lui diretti, troviamo: Tony Manero (2008), Post Mortem (2010) e No - I giorni dell'arcobaleno. Larraín attraverso queste pellicole, non solo ripercorre la sanguinosa storia della dittatura cilena - tema che riporterà sul grande schermo con El Conde (2023) - ma inizia anche a costruire quella che sarà la sua “grammatica cinematografica”.
Non a caso, il suo cinema è fortemente caratterizzato da un montaggio che mischia filmati di repertorio a scene di fiction, un paradigma dove passato e presente si fondono provocando una sorta di “cortocircuito” negli spettatori, che arrivano a non comprendere più cosa sia vero e cosa invece frutto della fantasia.
È con Neruda (2016), però, che Larraín prende la decisione di concentrarsi su personaggi realmente esistiti. Tramite queste opere biografiche, l’autore non vuole necessariamente raccontare la vita dei suoi soggetti, ma utilizzarli come lenti di ingrandimento sulla società che li circonda - apparentemente lontana ma in realtà mai così vicina. Se con Neruda, Larraín torna a parlare non tanto del grande poeta, quanto della sua terra e delle controversie storico-politiche che hanno investito il Cile, sempre nel medesimo anno, il regista esce con uno dei suoi film più intimisti e psicologici: Jackie.
Natalie Portman si prepara a girare una scena di Jackie (2016)
Natalie Portman incarna Jackie Kennedy
Natalie Portman veste i panni di Jackie Kennedy, l’iconica first lady che, forse più di tutte, è entrata a far parte della cultura popolare . Il cineasta decide di raccontare questa donna nel momento più buio della sua vita, durante i giorni che seguono l’omicidio del marito (nonché l’allora Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy) avvenuto a Dallas il 22 novembre del 1963. Larraín dirige una Portman al massimo della sua forza interpretativa, lei non interpreta Jackie, ma diventa Jackie. I filmati di repertorio ri-girati con l’attrice sconvolgono se messi a confronto con i video originali della first lady.
Stesso tono di voce, stesse movenze, se non addirittura gli stessi respiri. Il film colpisce per la descrizione delle fragilità della donna, che si mostra forte davanti al suo entourage, tanto da indossare il vestito sporco del sangue di suo marito, per poi crollare in un oblio di disperazione nel privato. In Jackie, Larraín si focalizza con estremo trasporto sulle debolezze psicologiche della sua protagonista, fino a trasformarle in una (quasi) follia latente.
Dopo 5 anni dal primo biopic al femminile, l’autore torna a Venezia per presentare un'opera, all’epoca, estremamente attesa: Spencer. Se nell’opera precedente Larraín si sofferma su un membro della“famiglia reale” degli Stati Uniti (che è un po’ come venivano visti i Kennedy nella “mitologia culturale” americana), nel secondo film della trilogia si concentra sull’outsider per eccellenza della famiglia reale inglese: Lady Diana Spencer. Interpretata da una brava (ma non del tutto perfetta) Kristen Stewart, il regista decide di esplorare la psicologia della principessa del popolo nel momento in cui il suo regno “personale” sta cadendo a pezzi. A differenza di Jackie, il lungometraggio viene caratterizzato da una vena meno “documentaria” e più come una “favola horror” nel quale sembra non esistere lieto fine. Diana è dipinta come una donna sull’orlo di una crisi di nervi, quasi come fosse un animale in trappola che freme per trovare una via d’uscita.
Kristen Stewart è Lady Diana Spencer
Infine, a settembre 2024, Larraìn si ripresenta a Venezia (ormai una seconda casa per il regista) per presentare quello che, di sicuro, è stato tra i titoli più mormorati dell’anno, dalle selezioni del cast fino alla figura storica che sceglie di toccare: Maria. Il film prende in analisi gli ultimi giorni di vita di Maria Callas, la voce, la divina che decide di autoesiliarsi dal mondo per rinchiudersi nel proprio appartamento parigino, fatto di pareti, servitori e rimpianti. Se inizialmente la scelta di Angelina Jolie per il ruolo principale non aveva convinto molti, si può dire che, dopo la visione, si sono dovuti ricredere in tanti.
Jolie, come fece anche Natalie Portman, incarna Maria Callas. Questa impressionante trasformazione si nota fin dall’apertura iniziale, dove vediamo Angelina/Maria intonare l’Ave Maria, una sequenza dove si può notare la straordinaria capacità dell’attrice di riprodurre il medesimo tremolio alle labbra che caratterizzava la Callas. In quest’ultimo film, Larraín decide, al contrario degli altri suoi precedenti lavori, di seguire un registro più classico e canonico nel rappresentare gli ultimi atti della divina.
In questi tre film è come se il cineasta volesse scombinare le carte in tavola, rivoluzionando la percezione che si è sempre avuta di queste donne. Nella storia, e nei media, sia Jackie Kennedy che Diana Spencer sono sempre state raffigurate come donne ferite, entrambe incastrate in delle vite all’apparenza perfette ma che in realtà le rendevano prigioniere. Nonostante questo, però, venivano ugualmente dipinte come delle donne forti, che sapevano affrontare a testa alta (e con infinita eleganza) ogni avversità.
Angelina Jolie veste i panni di Maria Callas
Ed è qui che Larraín decide di cambiare narrazione e di concentrarsi completamente sulle fragilità e le incrinature di queste due figure. Entrambe si trovano sull’orlo d'un precipizio e stanno smarrendo tutto quello che hanno: Jackie, oltre ad aver assistito all’uccisione del coniuge di fronte ai propri occhi, perde anche la casa e il proprio status, e in tutto questo non le è permesso di cedere emotivamente. Larraín e Portman decidono di mostrare questa forza, ma solo di facciata, concentrandosi sul dolore che Jackie cela sotto pelle e di cui tutto il film è impregnato.
Come la first lady americana, anche Diana Spencer si ritrova a dover decidere se portare avanti un matrimonio di facciata, da tutti considerato una fiaba, o divorziare perdendo tutto. Già dalla scelta di Kristen Stewart per il ruolo di lady D., si poteva intuire quale fosse l’intento del regista. Se nella serie The Crown (Peter Morgan, 2016-2023) Lady Diana veniva interpretata prima da una straordinaria Emma Corrin (che riesce a esprimere tutta la freschezza e ingenuità di una ragazzina di diciotto anni) e successivamente da una più matura e incredibile Elisabeth Debicki, che insieme portano sul piccolo schermo una principessa del popolo fragile ma allo stesso tempo decisa, Kristen Stewart, invece, presenta in scena la nevrosi di una donna smarrita. Spencer si presenta pertanto come un biopic fortemente influenzato dagli stilemi del thriller psicologico, dove Diana si ritrova non solo a combattere contro una famiglia reale fredda e distante, ma soprattutto ad affrontare se stessa e i propri demoni.
In Maria, invece, il registro capovolge ogni cosa. Dal momento che nei primi due film Larraín ha voluto soffermarsi sulle fragilità di due icone della seconda metà del ‘900, ci si aspettava che con una figura come quella di Maria Callas ci sarebbe andato a nozze. Diva dal cuore infranto, chi più debole e umana di lei? Ma il regista ci ha insegnato che nulla nel suo cinema è prevedibile. Larraín cerca di umanizzare la Divina, però, in questo specifico caso, mostrando la sua forza e determinazione. Maria è una donna distrutta, ha perso tutto: l’amore di una vita, la carriera ma, soprattutto, la voce. Ed è proprio in questa desolazione che tira fuori il proprio “fuoco fatuo”, come a voler ricordare che lei, nonostante tutto, è e rimarrà sempre la Callas. Non a caso l’Aria scelta per il finale, quando la protagonista blocca tutta Parigi fuori dal proprio appartamento cantando Vissi D’Arte, proviene dalla Tosca di Puccini.
Kristen Stewart sul set di Spencer (2021)
A rendere ancora più affascinante questa trilogia, sono i vari elementi che ricorrono in tutti i film. All’apparenza Larraín sembra voler raccontare tre donne sole, ma che in realtà trovano sempre un alleato nei personaggi più improbabili:come la segretaria della Casa Bianca Nancy Tuckerman (Greta Gerwig) per Jackie, la cameriera Maggie (Sally Hawkins) per Diana, e il maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e la cameriera Bruna (Alba Rohrwacher) per Maria. Oltre a questi "simboli" salvifici e consolatori che ruotano attorno alle protagoniste, è sempre presente una figura che fa da conduttore e che permette agli spettatori di conoscere meglio le tre donne: l’autore Theodore H. White per Jackie, l'inquietante Alistair Gregory per Diana e la personificazione del farmaco Mandrax che Maria identifica nella sua mente come un giornalista.
Larraín con Maria chiude quindi un cerchio iniziato con Jackie. Non solo entrambe le donne sono accomunate, nella realtà storica, dalla loro relazione con il miliardario greco Aristotele Onassis, ma i due film (a differenza di Spencer) presentano delle nette similitudini. Entrambi sono caratterizzati da una trama che si sviluppa attraverso una lunga intervista e, entrambi, giocano molto l’elemento dei flashback e una fotografia che richiama, in diverse scene, l’epoca in cui viene ambientata la storia.
Un altro aspetto che unisce Maria a Jackie sta tutto nel titolo. Larraín nel presentarle al grande pubblico decide di chiamarle per nome, mentre per Diana, opta sul cognome, come a far sì che lei se ne possa reimpossessare. Se ci si pensa, infatti, sia Maria che Jackie per tutta la vita sono state conosciute come la Callas e la Signora Kennedy, senza mai essere riconosciute per le donne che erano, ma esclusivamente per l’immagine che davano di sè. Ed è forse anche per questo che attraverso il suo cinema Larraín cerca di "liberare" le due donne dall’immagine ovattata che i media e il pubblico le hanno imposto per tutta la vita.
Pablo Larraín, Angelina Jolie e Caspar Phillipson sul set di Maria (2024)
In Maria questa scelta si percepisce maggiormente: ogni volta che la protagonista appare dinnanzi a qualcuno come la Callas viene rispettata, ma quando cerca di presentarsi solo come Maria, chi le sta di fronte la rifiuta, come a non voler riconoscere che dietro la figura della Divina si possa celare un “normale” essere umano. Per Spencer, invece, la storia è diversa. Se Maria e Jackie hanno dovuto lottare con il pubblico per tentare di farsi conoscere semplicemente come donne, Diana cerca invece di mettere un filtro tra sé e gli altri, cercando una dimensione più personale e isolata.
In un’intervista Pablo Larraín ammise che quando Darren Aronofsky (produttore del film) gli propose di girare Jackie fu alquanto restio nell’accettare. Il primo motivo era che non si riteneva un amante del genere biografico e, inoltre, non sapeva nulla della storia dei Kennedy, mentre, in secondo luogo, per lui sarebbe stata la prima volta a dover interagire con un personaggio femminile e il suo punto di vista. Dopo tre lungometraggi biografici su tre icone femminili, possiamo affermare come Larraín, nonostante non sia riuscito ad abbandonare del tutto un certo male gaze intrinseco (anche se molto “addomesticato” con l’andare avanti degli anni e dei film), abbia saputo ridare umanità a tre incredibili figure attraverso: “la rabbia, la curiosità e l’amore”.
NC-269
28.01.2025
Natalie Portman si prepara a girare una scena di Jackie (2016)
Con l’uscita del suo ultimo lungometraggio, Pablo Larraín termina una "raccolta" di film biografici tutta al femminile composta da Jackie (2016), Spencer (2021) e Maria (2024). Non è la prima volta che il regista cileno ricorre alla “divisione” dei propri film in trilogie, basti pensare all’inizio della sua carriera nella quale, tra i primi lavori da lui diretti, troviamo: Tony Manero (2008), Post Mortem (2010) e No - I giorni dell'arcobaleno. Larraín attraverso queste pellicole, non solo ripercorre la sanguinosa storia della dittatura cilena - tema che riporterà sul grande schermo con El Conde (2023) - ma inizia anche a costruire quella che sarà la sua “grammatica cinematografica”.
Non a caso, il suo cinema è fortemente caratterizzato da un montaggio che mischia filmati di repertorio a scene di fiction, un paradigma dove passato e presente si fondono provocando una sorta di “cortocircuito” negli spettatori, che arrivano a non comprendere più cosa sia vero e cosa invece frutto della fantasia.
È con Neruda (2016), però, che Larraín prende la decisione di concentrarsi su personaggi realmente esistiti. Tramite queste opere biografiche, l’autore non vuole necessariamente raccontare la vita dei suoi soggetti, ma utilizzarli come lenti di ingrandimento sulla società che li circonda - apparentemente lontana ma in realtà mai così vicina. Se con Neruda, Larraín torna a parlare non tanto del grande poeta, quanto della sua terra e delle controversie storico-politiche che hanno investito il Cile, sempre nel medesimo anno, il regista esce con uno dei suoi film più intimisti e psicologici: Jackie.
Natalie Portman incarna Jackie Kennedy
Natalie Portman veste i panni di Jackie Kennedy, l’iconica first lady che, forse più di tutte, è entrata a far parte della cultura popolare . Il cineasta decide di raccontare questa donna nel momento più buio della sua vita, durante i giorni che seguono l’omicidio del marito (nonché l’allora Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy) avvenuto a Dallas il 22 novembre del 1963. Larraín dirige una Portman al massimo della sua forza interpretativa, lei non interpreta Jackie, ma diventa Jackie. I filmati di repertorio ri-girati con l’attrice sconvolgono se messi a confronto con i video originali della first lady.
Stesso tono di voce, stesse movenze, se non addirittura gli stessi respiri. Il film colpisce per la descrizione delle fragilità della donna, che si mostra forte davanti al suo entourage, tanto da indossare il vestito sporco del sangue di suo marito, per poi crollare in un oblio di disperazione nel privato. In Jackie, Larraín si focalizza con estremo trasporto sulle debolezze psicologiche della sua protagonista, fino a trasformarle in una (quasi) follia latente.
Dopo 5 anni dal primo biopic al femminile, l’autore torna a Venezia per presentare un'opera, all’epoca, estremamente attesa: Spencer. Se nell’opera precedente Larraín si sofferma su un membro della“famiglia reale” degli Stati Uniti (che è un po’ come venivano visti i Kennedy nella “mitologia culturale” americana), nel secondo film della trilogia si concentra sull’outsider per eccellenza della famiglia reale inglese: Lady Diana Spencer. Interpretata da una brava (ma non del tutto perfetta) Kristen Stewart, il regista decide di esplorare la psicologia della principessa del popolo nel momento in cui il suo regno “personale” sta cadendo a pezzi. A differenza di Jackie, il lungometraggio viene caratterizzato da una vena meno “documentaria” e più come una “favola horror” nel quale sembra non esistere lieto fine. Diana è dipinta come una donna sull’orlo di una crisi di nervi, quasi come fosse un animale in trappola che freme per trovare una via d’uscita.
Kristen Stewart è Lady Diana Spencer
Infine, a settembre 2024, Larraìn si ripresenta a Venezia (ormai una seconda casa per il regista) per presentare quello che, di sicuro, è stato tra i titoli più mormorati dell’anno, dalle selezioni del cast fino alla figura storica che sceglie di toccare: Maria. Il film prende in analisi gli ultimi giorni di vita di Maria Callas, la voce, la divina che decide di autoesiliarsi dal mondo per rinchiudersi nel proprio appartamento parigino, fatto di pareti, servitori e rimpianti. Se inizialmente la scelta di Angelina Jolie per il ruolo principale non aveva convinto molti, si può dire che, dopo la visione, si sono dovuti ricredere in tanti.
Jolie, come fece anche Natalie Portman, incarna Maria Callas. Questa impressionante trasformazione si nota fin dall’apertura iniziale, dove vediamo Angelina/Maria intonare l’Ave Maria, una sequenza dove si può notare la straordinaria capacità dell’attrice di riprodurre il medesimo tremolio alle labbra che caratterizzava la Callas. In quest’ultimo film, Larraín decide, al contrario degli altri suoi precedenti lavori, di seguire un registro più classico e canonico nel rappresentare gli ultimi atti della divina.
In questi tre film è come se il cineasta volesse scombinare le carte in tavola, rivoluzionando la percezione che si è sempre avuta di queste donne. Nella storia, e nei media, sia Jackie Kennedy che Diana Spencer sono sempre state raffigurate come donne ferite, entrambe incastrate in delle vite all’apparenza perfette ma che in realtà le rendevano prigioniere. Nonostante questo, però, venivano ugualmente dipinte come delle donne forti, che sapevano affrontare a testa alta (e con infinita eleganza) ogni avversità.
Angelina Jolie veste i panni di Maria Callas
Ed è qui che Larraín decide di cambiare narrazione e di concentrarsi completamente sulle fragilità e le incrinature di queste due figure. Entrambe si trovano sull’orlo d'un precipizio e stanno smarrendo tutto quello che hanno: Jackie, oltre ad aver assistito all’uccisione del coniuge di fronte ai propri occhi, perde anche la casa e il proprio status, e in tutto questo non le è permesso di cedere emotivamente. Larraín e Portman decidono di mostrare questa forza, ma solo di facciata, concentrandosi sul dolore che Jackie cela sotto pelle e di cui tutto il film è impregnato.
Come la first lady americana, anche Diana Spencer si ritrova a dover decidere se portare avanti un matrimonio di facciata, da tutti considerato una fiaba, o divorziare perdendo tutto. Già dalla scelta di Kristen Stewart per il ruolo di lady D., si poteva intuire quale fosse l’intento del regista. Se nella serie The Crown (Peter Morgan, 2016-2023) Lady Diana veniva interpretata prima da una straordinaria Emma Corrin (che riesce a esprimere tutta la freschezza e ingenuità di una ragazzina di diciotto anni) e successivamente da una più matura e incredibile Elisabeth Debicki, che insieme portano sul piccolo schermo una principessa del popolo fragile ma allo stesso tempo decisa, Kristen Stewart, invece, presenta in scena la nevrosi di una donna smarrita. Spencer si presenta pertanto come un biopic fortemente influenzato dagli stilemi del thriller psicologico, dove Diana si ritrova non solo a combattere contro una famiglia reale fredda e distante, ma soprattutto ad affrontare se stessa e i propri demoni.
In Maria, invece, il registro capovolge ogni cosa. Dal momento che nei primi due film Larraín ha voluto soffermarsi sulle fragilità di due icone della seconda metà del ‘900, ci si aspettava che con una figura come quella di Maria Callas ci sarebbe andato a nozze. Diva dal cuore infranto, chi più debole e umana di lei? Ma il regista ci ha insegnato che nulla nel suo cinema è prevedibile. Larraín cerca di umanizzare la Divina, però, in questo specifico caso, mostrando la sua forza e determinazione. Maria è una donna distrutta, ha perso tutto: l’amore di una vita, la carriera ma, soprattutto, la voce. Ed è proprio in questa desolazione che tira fuori il proprio “fuoco fatuo”, come a voler ricordare che lei, nonostante tutto, è e rimarrà sempre la Callas. Non a caso l’Aria scelta per il finale, quando la protagonista blocca tutta Parigi fuori dal proprio appartamento cantando Vissi D’Arte, proviene dalla Tosca di Puccini.
Kristen Stewart sul set di Spencer (2021)
A rendere ancora più affascinante questa trilogia, sono i vari elementi che ricorrono in tutti i film. All’apparenza Larraín sembra voler raccontare tre donne sole, ma che in realtà trovano sempre un alleato nei personaggi più improbabili:come la segretaria della Casa Bianca Nancy Tuckerman (Greta Gerwig) per Jackie, la cameriera Maggie (Sally Hawkins) per Diana, e il maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e la cameriera Bruna (Alba Rohrwacher) per Maria. Oltre a questi "simboli" salvifici e consolatori che ruotano attorno alle protagoniste, è sempre presente una figura che fa da conduttore e che permette agli spettatori di conoscere meglio le tre donne: l’autore Theodore H. White per Jackie, l'inquietante Alistair Gregory per Diana e la personificazione del farmaco Mandrax che Maria identifica nella sua mente come un giornalista.
Larraín con Maria chiude quindi un cerchio iniziato con Jackie. Non solo entrambe le donne sono accomunate, nella realtà storica, dalla loro relazione con il miliardario greco Aristotele Onassis, ma i due film (a differenza di Spencer) presentano delle nette similitudini. Entrambi sono caratterizzati da una trama che si sviluppa attraverso una lunga intervista e, entrambi, giocano molto l’elemento dei flashback e una fotografia che richiama, in diverse scene, l’epoca in cui viene ambientata la storia.
Un altro aspetto che unisce Maria a Jackie sta tutto nel titolo. Larraín nel presentarle al grande pubblico decide di chiamarle per nome, mentre per Diana, opta sul cognome, come a far sì che lei se ne possa reimpossessare. Se ci si pensa, infatti, sia Maria che Jackie per tutta la vita sono state conosciute come la Callas e la Signora Kennedy, senza mai essere riconosciute per le donne che erano, ma esclusivamente per l’immagine che davano di sè. Ed è forse anche per questo che attraverso il suo cinema Larraín cerca di "liberare" le due donne dall’immagine ovattata che i media e il pubblico le hanno imposto per tutta la vita.
Pablo Larraín, Angelina Jolie e Caspar Phillipson sul set di Maria (2024)
In Maria questa scelta si percepisce maggiormente: ogni volta che la protagonista appare dinnanzi a qualcuno come la Callas viene rispettata, ma quando cerca di presentarsi solo come Maria, chi le sta di fronte la rifiuta, come a non voler riconoscere che dietro la figura della Divina si possa celare un “normale” essere umano. Per Spencer, invece, la storia è diversa. Se Maria e Jackie hanno dovuto lottare con il pubblico per tentare di farsi conoscere semplicemente come donne, Diana cerca invece di mettere un filtro tra sé e gli altri, cercando una dimensione più personale e isolata.
In un’intervista Pablo Larraín ammise che quando Darren Aronofsky (produttore del film) gli propose di girare Jackie fu alquanto restio nell’accettare. Il primo motivo era che non si riteneva un amante del genere biografico e, inoltre, non sapeva nulla della storia dei Kennedy, mentre, in secondo luogo, per lui sarebbe stata la prima volta a dover interagire con un personaggio femminile e il suo punto di vista. Dopo tre lungometraggi biografici su tre icone femminili, possiamo affermare come Larraín, nonostante non sia riuscito ad abbandonare del tutto un certo male gaze intrinseco (anche se molto “addomesticato” con l’andare avanti degli anni e dei film), abbia saputo ridare umanità a tre incredibili figure attraverso: “la rabbia, la curiosità e l’amore”.