
di Beatrice Gangi
NC-342
05.10.2025
Il biopic è il genere filmico che - per definizione - tenta di ricostruire, in forma narrativa, la vita di figure realmente esistite. Si tratta, prevalentemente, di icone artistiche e culturali, celebri innovatori del contemporaneo, di parabole dedicate a criminali, a rivoluzionari, come a leader politici che, nel bene o nel male, hanno segnato la storia. L’ambizione è la trasposizione del reale tramite il fittizio: un’incongruenza strutturale da cui risulta come il biopic sia - per natura - un genere fallimentare, o quantomeno destinato a fallire - sempre e per forza di cose. Non può che esserlo, perchè nessun film narrativo, per quanto lucido, potrà mai davvero restituire la vita, le sue pause, le sue omissioni. Così come non potrà mai trasporre una persona e non, per quanto vivo, e per quanto realistico, un personaggio.
Non si tratta del cinema che racconta la vita, ma quello che, più di ogni altro, si misura con il fallimento del non poterla rappresentare pienamente. Eppure, non è un genere da condannare; al contrario, può essere proprio nella modalità in cui abita questo scarto che rivela la propria qualità: nella consapevolezza di un limite inevitabile, e nella volontà di trasformarlo in linguaggio.

Amadeus (1984)

Duse (2025)
In Duse, presentato in Concorso all'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Pietro Marcello sceglie di raccontare Eleonora Duse non come icona da re-incarnare, ma come presenza in dissolvenza. Più che come soggetto, l’artista diventa simbolo di un concetto, di arte come catarsi. Il film si concentra sugli ultimi anni dell’attrice, sul suo ritorno alle scene dopo la prima guerra mondiale, l’evento catastrofico che ha risvegliato il bisogno di nuova arte come veicolo di elaborazione del lutto, di rinascita dopo la tragedia. Il personaggio di Eleonora Duse, nelle sue dissonanze e vulnerabilità, rimane consapevolmente tale - un personaggio - a tratti inconoscibile così come è inconoscibile la reale Duse. Lato registico, non c’è volontà di ricostruire, di spiegare, di somigliare, ma di rievocare un’epoca e i suoi bisogni, di suggerire limiti e meriti del fare arte, di discutere la dicotomia tra espressione creativa e potere politico. Duse rinuncia all’illusione di possesso e riconosce come ogni rappresentazione sia un atto di evocazione, mai di restituzione.
Eppure, il cinema di oggi sembra ossessionato da questa rincorsa. I biopic si moltiplicano, popolando le sale di icone, e varianti di esse: da Freddie Mercury (Bohemian Rhapsody, 2018) a Elton John (Rocketman, 2019), da Bob Dylan (A Complete Unknown, 2024), a Marilyn Monroe (Blonde, 2022), sino a Maria Callas (Maria, 2024), ma anche alla duplice comparsa di Elvis Presley (in Elvis, 2022, e nel film Priscilla, 2023, con protagonista Priscilla Presley) e Lady Diana (in Spencer, 2021, e nella serie televisiva The Crown, dal 2020). Nella maggioranza dei casi, si tratta di film che, del genere, sfruttano la riconoscibilità iconografica, la preesistenza di un brand noto, la promessa di autenticità emotiva: un avvicinamento (presunto) tra idolo e società. In altri casi, non sono che sintomo della pornografia della fama, opere in cui l’esistenza ha valore solo in quanto spettacolo, e in cui il vissuto è qualcosa di cui esibire ferite, traumi, fallimenti. In questo caso, la persona è la sequenza dei suoi momenti più consumabili, il percorso è quello consacrato di ascesa, caduta, redenzione finale. In alcuni casi, infine, si tratta di imitazioni di superficie, operazioni in cui la verità si esaurisce nel travestimento, nell’abilità di mimetismo di un attore che diventa personaggio. Solitamente, ognuno di essi condivide lo stesso limite: l’illusione che la vita sia così facilmente riproducibile, l’associazione tra autentico e marchetizzabile.

Ana de Armas nei panni di Marylin Monroe in Blonde (2022)
Eppure, come si è detto, il biopic è un genere falsato, non impossibile. Riuscire nella sua esecuzione significa tramutare la mancanza in forma e, più che pretendere la verità, avvicinarsi a qualcosa che le somigli. Ne è esempio un capolavoro - nonché forse il più grande biopic della storia del cinema: Amadeus (1984) di Miloš Forman. Non un film su Mozart, ma attraverso Mozart, un racconto che abbandona ogni pretesa biografica per farsi mito, tragedia, riflessione sul genio come condanna. Si tratta di un’opera in cui la verità storica - fatti, luoghi, date - diventa secondaria, se non irrilevante. Ciò che interessa a Forman è la natura della leggenda, il modo in cui la vita si deforma nel racconto di chi la osserva, la invidia, la tradisce. La storia di Mozart non gli appartiene, è bensì sempre filtrata dal punto di vista di un narratore terzo, da ciò che Antonio Salieri ricostruisce: una verità mediata, parziale, distorta - allo stesso tempo, più autentica del fattuale. Nel non tentare alcuna pretesa di verità, Amadeus fa del proprio fallimento ontologico (l’impossibilità di rappresentare Mozart) una struttura narrativa retta sul binomio tra il compositore austriaco, simbolo di innocenza creativa, e Salieri, come l’uomo comune, lucido e condannato. E così, la voce di Salieri, gelosa e parziale, al contempo celebrativa, diventa la lente deformante attraverso cui comprendere l’inconoscibile: la natura del genio.
Amadeus riesce dove molti falliscono: trasforma l’impossibilità in potenza. Non racconta la vita di Mozart e, nel non farlo, la restituisce meglio di qualsiasi ricostruzione. In questa prospettiva, il biopic che riesce è quello che rinuncia alla persona e sceglie il mito, il verosimile condiviso. Ma l’impostazione di Forman non costituisce, di per sé, l'unica via perseguibile. Dove per Amadeus è stata preferita la mitizzazione, le forme autoriali di riappropriazione della forma biografica sono molteplici, potenzialmente illimitate. Tra esse, vi è la scelta di frammentare, il riconoscimento della totalità come impossibile e la decisione di restituirla come mosaico. Ne sono esempio I’m Not There (Todd Haynes, 2007) o Mishima: A Life in Four Chapters (Paul Schrader, 1985), opere che adottano strutture multiple, episodi isolati, personaggi diversi, a suggerire come la vita non possa essere compressa in un’unica interpretazione. In questo caso, è la polifonia a diventare linguaggio: l’impossibile si traduce in molteplice. Non esistono un vero Bob Dylan, o un vero Yukio Mishima, ma un campo di rappresentazioni.

Mishima: A Life in Four Chapters (1985)
Una terza forma di linguaggio biografico può essere quella della psicologizzazione: concentrarsi un momento, un’emozione, o anche, in questo caso, un trauma. Il biopic si ritira nella soggettività, interpretando l’esperienza interna più che i fatti. È il caso della trilogia al femminile di Pablo Larraín, in particolare di Spencer (2021). La storia di Lady Diana è destrutturata nell’arco di tre giorni, nella cornice di una fiaba horror dal sottotesto psicologico, più che di un’agiografia. Si tratta di opere che scelgono un episodio, un’unità di tempo ristretta - qualche giorno, qualche ora, una stagione - per costruire un microcosmo dell’anima. In esse, la claustrofobia dello spazio e la visione soggettiva sostituiscono la cronaca. Il fallimento di dire tutto diventa riflessione sull’identità: ciò che resta non sono gli eventi, o la loro sequenza, ma l’eco di un sentimento, di specifici momenti di auto-coscienza.
Infine, c’è la riflessione metacinematografica: il biopic che parla del proprio limite. In film come F for Fake (Orson Welles, 1973), The Man Who Killed Don Quixote (Terry Gilliam, 2018), o The Fabelmans (Steven Spielberg, 2022), la vita rappresentata si intreccia al gesto stesso di rappresentarla. Voci narranti inaffidabili, mise en abyme, commenti sul falso, il film diventa anche discorso critico su sé stesso. Ancora una volta, il valore dell’opera sta nel trasformare il limite in forma: chi lo nega cade nella retorica celebrativa, chi lo affronta trova un nuovo linguaggio - che sia mito, frammento, sentimento, metanarrativa.
A concludere, se i biopic contemporanei oscillano tra due eccessi (l’agiografia e la spettacolarizzazione esasperata) il biopic consapevole è quello che smette di rincorrere la persona attraverso un linguaggio, quello del cinema, che può solo scegliere, tagliare, semplificare. Non tenta più di rappresentare la vita, ma di riflettere sul suo racconto. In questa prospettiva, Duse di Pietro Marcello è tra le opere lucide, una rinuncia alla mimesi per farsi evocazione, indugiando tra rappresentazione del mito come simbolo e spaccato psicologico. Così, nel biopic come nel teatro, la verità non coincide con l’imitazione, ma con la volontà di raccontare qualcosa che si protenda al vero, a ciò che non si può raggiungere. Forse, allora, il fallimento non è una sconfitta, ma una forma di rispetto. Il riconoscimento che ogni vita eccede la sua narrazione, e che ogni racconto è un atto di selezione, omissione, proiezione. In fondo, ogni film biografico parla meno della vita che racconta, e più di come vogliamo ricordarla.

The Man Who Killed Don Quixote (2018)
di Beatrice Gangi
NC-342
05.10.2025

Amadeus (1984)
Il biopic è il genere filmico che - per definizione - tenta di ricostruire, in forma narrativa, la vita di figure realmente esistite. Si tratta, prevalentemente, di icone artistiche e culturali, celebri innovatori del contemporaneo, di parabole dedicate a criminali, a rivoluzionari, come a leader politici che, nel bene o nel male, hanno segnato la storia. L’ambizione è la trasposizione del reale tramite il fittizio: un’incongruenza strutturale da cui risulta come il biopic sia - per natura - un genere fallimentare, o quantomeno destinato a fallire - sempre e per forza di cose. Non può che esserlo, perchè nessun film narrativo, per quanto lucido, potrà mai davvero restituire la vita, le sue pause, le sue omissioni. Così come non potrà mai trasporre una persona e non, per quanto vivo, e per quanto realistico, un personaggio.
Non si tratta del cinema che racconta la vita, ma quello che, più di ogni altro, si misura con il fallimento del non poterla rappresentare pienamente. Eppure, non è un genere da condannare; al contrario, può essere proprio nella modalità in cui abita questo scarto che rivela la propria qualità: nella consapevolezza di un limite inevitabile, e nella volontà di trasformarlo in linguaggio.

Duse (2025)
In Duse, presentato in Concorso all'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Pietro Marcello sceglie di raccontare Eleonora Duse non come icona da re-incarnare, ma come presenza in dissolvenza. Più che come soggetto, l’artista diventa simbolo di un concetto, di arte come catarsi. Il film si concentra sugli ultimi anni dell’attrice, sul suo ritorno alle scene dopo la prima guerra mondiale, l’evento catastrofico che ha risvegliato il bisogno di nuova arte come veicolo di elaborazione del lutto, di rinascita dopo la tragedia. Il personaggio di Eleonora Duse, nelle sue dissonanze e vulnerabilità, rimane consapevolmente tale - un personaggio - a tratti inconoscibile così come è inconoscibile la reale Duse. Lato registico, non c’è volontà di ricostruire, di spiegare, di somigliare, ma di rievocare un’epoca e i suoi bisogni, di suggerire limiti e meriti del fare arte, di discutere la dicotomia tra espressione creativa e potere politico. Duse rinuncia all’illusione di possesso e riconosce come ogni rappresentazione sia un atto di evocazione, mai di restituzione.
Eppure, il cinema di oggi sembra ossessionato da questa rincorsa. I biopic si moltiplicano, popolando le sale di icone, e varianti di esse: da Freddie Mercury (Bohemian Rhapsody, 2018) a Elton John (Rocketman, 2019), da Bob Dylan (A Complete Unknown, 2024), a Marilyn Monroe (Blonde, 2022), sino a Maria Callas (Maria, 2024), ma anche alla duplice comparsa di Elvis Presley (in Elvis, 2022, e nel film Priscilla, 2023, con protagonista Priscilla Presley) e Lady Diana (in Spencer, 2021, e nella serie televisiva The Crown, dal 2020). Nella maggioranza dei casi, si tratta di film che, del genere, sfruttano la riconoscibilità iconografica, la preesistenza di un brand noto, la promessa di autenticità emotiva: un avvicinamento (presunto) tra idolo e società. In altri casi, non sono che sintomo della pornografia della fama, opere in cui l’esistenza ha valore solo in quanto spettacolo, e in cui il vissuto è qualcosa di cui esibire ferite, traumi, fallimenti. In questo caso, la persona è la sequenza dei suoi momenti più consumabili, il percorso è quello consacrato di ascesa, caduta, redenzione finale. In alcuni casi, infine, si tratta di imitazioni di superficie, operazioni in cui la verità si esaurisce nel travestimento, nell’abilità di mimetismo di un attore che diventa personaggio. Solitamente, ognuno di essi condivide lo stesso limite: l’illusione che la vita sia così facilmente riproducibile, l’associazione tra autentico e marchetizzabile.

Ana de Armas nei panni di Marylin Monroe in Blonde (2022)
Eppure, come si è detto, il biopic è un genere falsato, non impossibile. Riuscire nella sua esecuzione significa tramutare la mancanza in forma e, più che pretendere la verità, avvicinarsi a qualcosa che le somigli. Ne è esempio un capolavoro - nonché forse il più grande biopic della storia del cinema: Amadeus (1984) di Miloš Forman. Non un film su Mozart, ma attraverso Mozart, un racconto che abbandona ogni pretesa biografica per farsi mito, tragedia, riflessione sul genio come condanna. Si tratta di un’opera in cui la verità storica - fatti, luoghi, date - diventa secondaria, se non irrilevante. Ciò che interessa a Forman è la natura della leggenda, il modo in cui la vita si deforma nel racconto di chi la osserva, la invidia, la tradisce. La storia di Mozart non gli appartiene, è bensì sempre filtrata dal punto di vista di un narratore terzo, da ciò che Antonio Salieri ricostruisce: una verità mediata, parziale, distorta - allo stesso tempo, più autentica del fattuale. Nel non tentare alcuna pretesa di verità, Amadeus fa del proprio fallimento ontologico (l’impossibilità di rappresentare Mozart) una struttura narrativa retta sul binomio tra il compositore austriaco, simbolo di innocenza creativa, e Salieri, come l’uomo comune, lucido e condannato. E così, la voce di Salieri, gelosa e parziale, al contempo celebrativa, diventa la lente deformante attraverso cui comprendere l’inconoscibile: la natura del genio.
Amadeus riesce dove molti falliscono: trasforma l’impossibilità in potenza. Non racconta la vita di Mozart e, nel non farlo, la restituisce meglio di qualsiasi ricostruzione. In questa prospettiva, il biopic che riesce è quello che rinuncia alla persona e sceglie il mito, il verosimile condiviso. Ma l’impostazione di Forman non costituisce, di per sé, l'unica via perseguibile. Dove per Amadeus è stata preferita la mitizzazione, le forme autoriali di riappropriazione della forma biografica sono molteplici, potenzialmente illimitate. Tra esse, vi è la scelta di frammentare, il riconoscimento della totalità come impossibile e la decisione di restituirla come mosaico. Ne sono esempio I’m Not There (Todd Haynes, 2007) o Mishima: A Life in Four Chapters (Paul Schrader, 1985), opere che adottano strutture multiple, episodi isolati, personaggi diversi, a suggerire come la vita non possa essere compressa in un’unica interpretazione. In questo caso, è la polifonia a diventare linguaggio: l’impossibile si traduce in molteplice. Non esistono un vero Bob Dylan, o un vero Yukio Mishima, ma un campo di rappresentazioni.

Mishima: A Life in Four Chapters (1985)
Una terza forma di linguaggio biografico può essere quella della psicologizzazione: concentrarsi un momento, un’emozione, o anche, in questo caso, un trauma. Il biopic si ritira nella soggettività, interpretando l’esperienza interna più che i fatti. È il caso della trilogia al femminile di Pablo Larraín, in particolare di Spencer (2021). La storia di Lady Diana è destrutturata nell’arco di tre giorni, nella cornice di una fiaba horror dal sottotesto psicologico, più che di un’agiografia. Si tratta di opere che scelgono un episodio, un’unità di tempo ristretta - qualche giorno, qualche ora, una stagione - per costruire un microcosmo dell’anima. In esse, la claustrofobia dello spazio e la visione soggettiva sostituiscono la cronaca. Il fallimento di dire tutto diventa riflessione sull’identità: ciò che resta non sono gli eventi, o la loro sequenza, ma l’eco di un sentimento, di specifici momenti di auto-coscienza.
Infine, c’è la riflessione metacinematografica: il biopic che parla del proprio limite. In film come F for Fake (Orson Welles, 1973), The Man Who Killed Don Quixote (Terry Gilliam, 2018), o The Fabelmans (Steven Spielberg, 2022), la vita rappresentata si intreccia al gesto stesso di rappresentarla. Voci narranti inaffidabili, mise en abyme, commenti sul falso, il film diventa anche discorso critico su sé stesso. Ancora una volta, il valore dell’opera sta nel trasformare il limite in forma: chi lo nega cade nella retorica celebrativa, chi lo affronta trova un nuovo linguaggio - che sia mito, frammento, sentimento, metanarrativa.
A concludere, se i biopic contemporanei oscillano tra due eccessi (l’agiografia e la spettacolarizzazione esasperata) il biopic consapevole è quello che smette di rincorrere la persona attraverso un linguaggio, quello del cinema, che può solo scegliere, tagliare, semplificare. Non tenta più di rappresentare la vita, ma di riflettere sul suo racconto. In questa prospettiva, Duse di Pietro Marcello è tra le opere lucide, una rinuncia alla mimesi per farsi evocazione, indugiando tra rappresentazione del mito come simbolo e spaccato psicologico. Così, nel biopic come nel teatro, la verità non coincide con l’imitazione, ma con la volontà di raccontare qualcosa che si protenda al vero, a ciò che non si può raggiungere. Forse, allora, il fallimento non è una sconfitta, ma una forma di rispetto. Il riconoscimento che ogni vita eccede la sua narrazione, e che ogni racconto è un atto di selezione, omissione, proiezione. In fondo, ogni film biografico parla meno della vita che racconta, e più di come vogliamo ricordarla.

The Man Who Killed Don Quixote (2018)