
di Beatrice Gangi
NC-352
25.10.2025
Nel saggio del 1958 “Vita Activa: La condizione umana” Hannah Arendt definì il concetto di spazio dell’apparire o, in traduzioni alternative, di spazio dell’apparenza. Distinse tra spazio pubblico e spazio privato, classificando il primo come quel mondo comune e condiviso, proprio delle pluralità, in cui si rende praticabile l’agire, presupposto dell’azione politica e della democrazia, e ascrivibile nel discorso. Lo spazio dell’apparire si definisce, dunque, come la dimensione in cui uomini e donne si incontrano nel discorso e nell’azione, un luogo non esclusivamente fisico, che sorge nel collettivo e svanisce nella dispersione.
Quando l’azione cessa, gli individui si ritirano nell’isolamento - o più comunemente sono costretti a farlo - e quello spazio si estingue. La libertà è però, sempre secondo Arendt, inseparabile dall’esistenza di questo spazio visibile e comunitario, in cui l’uomo può mostrarsi, essere ascoltato, domandare, rispondere, farsi responsabile della propria autorealizzazione. Il suo opposto nasce nel momento in cui la pluralità si spegne - per paura, censura o dominio - lo spazio pubblico viene dissolto, il linguaggio si fa trasgressione, la visibilità diventa colpa. E’ in queste condizioni che il semplice atto di apparire diventa politico.

Panahi vince la Palma d'Oro al Festival di Cannes 2025
Com’è noto, il 2 marzo del 2010, a Teheran, il regista iraniano Jafar Panahi venne arrestato e incriminato per propaganda contro il regime. Gli fu proibito di lasciare il Paese, dirigere film, rilasciare interviste. La condanna era quella di un’esistenza silenziosa, lontana dalla visibilità pubblica, la prescrizione di accettare un ruolo sociale più consono, l’anonimo cittadino. Eppure, lo scorso Maggio 2025 l’ultima opera del regista - Un semplice incidente - è stata insignita della Palma d’Oro al più rinomato festival cinematografico internazionale, il 78° Cannes Film Festival. Non è così inaspettato, considerato come, per più di un decennio, l’autore sia di fatto “persistito nell’apparire”, rendendosi noto come il regista clandestino per antonomasia. Ed è infatti forse inflazionato (per quanto mai sufficiente) discuterne nuovamente il percorso, nonché la portata (artistica e politica) come figura che potrebbe rappresentare il creativo per eccellenza, quello a cui è stato negato di fare arte, ma che, per obbligo personale e necessità, ha continuato a creare.
Per quanto sia dunque inevitabile citare aspetti della sua carriera quali la logistica della costrizione alla clandestinità, la riduzione in spazi minimi, il taglio a budget e mezzi di fortuna, è altrettanto urgente evidenziare cosa ha inevitabilmente rappresentato il cinema che ne è conseguito. Il cinema di Panahi, non solo costituisce la conversione dell’interdizione in linguaggio, ma la vera e propria configurazione dello spazio filmico come nuovo spazio comunitario, ovvero di ciò che, nella filosofia di Hannah Arendt, si potrebbe intendere come uno spazio di apparenza astratto. Nel corso della sua carriera, le sue opere non si sono mai limitate a parlare di libertà, ma la hanno esercitata nel loro semplice esistere. Ogni suo film ha ricreato, entro i limiti dell’immagine, quel luogo di relazione e pluralità che è stato sottratto e oppresso dalla realtà dei fatti.

Taxi Teheran (2015)
In This Is Not a Film (2011), girato interamente nel suo appartamento durante gli arresti domiciliari, è la casa a divenire un'agorà di concetto. Panahi parla alla videocamera rivolgendosi a un interlocutore invisibile, racconta un film che non può girare, descrive scene che non vedremo mai. Nella solitudine domestica, il regista reinventa lo spazio pubblico come relazione immaginata: lo spettatore assente è presenza nell’atto di rivolgergli la parola. Quattro anni più tardi, in Taxi Teheran (2015), quello spazio contenuto si allarga e diventa mobile. La macchina diventa città, piazza, tribunale, confessionale. Seduto al volante, accoglie passeggeri che discutono di giustizia, censura, futuro. Ogni incontro genera un microcosmo relazionale in cui, per la durata di una corsa, il taxi è una società possibile.
Nella sua mobilità precaria, il film richiama l’idea di libertà di agire come atto transitorio, come una scelta più che una facoltà da concedere. Quando i passeggeri scendono e la portiera si richiude, lo spazio dell’apparire si disperde ancora una volta - ma la traccia dell’incontro resta. Con Gli orsi non esistono (2022), Panahi porta questa dialettica all’estremo. Si trova in un villaggio al limite della frontiera con la Turchia, sta dirigendo un film da remoto, il segnale è ritardato, la qualità video è scarsa. Nel mostrare la propria impossibilità di conoscere e di partecipare a ciò che avviene all’infuori della reclusione, Panahi rivendica un diritto - il relazionarsi - che dovrebbe essere inviolabile.

Gli orsi non esistono (2022)
In tutta la sua filmografia, la macchina da presa non è più uno strumento di rappresentazione, ma di presenza, il cinema un linguaggio etico. Filmare equivale ad agire, partecipare al mondo, testimoniare un’esistenza ufficialmente interdetta. L’azione, scrive ancora Arendt, è l’unica attività che non lascia dietro di sé un prodotto, ma rivela l’identità di chi la compie. E filmare, per Panahi, è la forma più essenziale di azione, un gesto di resistenza che è atto di cura. Di fronte alla libera espressione del sé, il sistema stesso rivela la propria inadeguatezza: uno Stato che esige l’invisibilità dei suoi cittadini rinuncia alla possibilità di farli prosperare. Così, nel momento in cui gli viene imposto di tacere, Panahi ha finito per rivelarsi.
Quando non possiamo più mostrarci, non possiamo più parlare; e quando non possiamo più parlare, smettiamo anche di esistere l’uno per l’altro. Ogni democrazia si fonda su questo principio elementare - la coesistenza degli sguardi, la libertà di riconoscersi non solo nell’isolamento, nella sottomissione, ma di essere nel mondo. È questo che l’opera di Panahi continua a ricordare: che il cinema è anche un esercizio di democrazia. È quindi emblematico come, dopo anni di isolamento e censura, il regista abbia ottenuto il massimo riconoscimento a Cannes, così come, lo scorso 22 Ottobre, la Festa del Cinema di Roma gli abbia conferito il Premio alla Carriera. Celebrazioni internazionali che, dal loro privilegio di visibilità, possono almeno sostenere quelle più intime e decisive: il riconoscimento, in Iran e non solo, della libertà di sguardo e di parola che il regista, contro ogni interdizione, continua ad affermare con ostinata lucidità.
di Beatrice Gangi
NC-352
25.10.2025
Nel saggio del 1958 “Vita Activa: La condizione umana” Hannah Arendt definì il concetto di spazio dell’apparire o, in traduzioni alternative, di spazio dell’apparenza. Distinse tra spazio pubblico e spazio privato, classificando il primo come quel mondo comune e condiviso, proprio delle pluralità, in cui si rende praticabile l’agire, presupposto dell’azione politica e della democrazia, e ascrivibile nel discorso. Lo spazio dell’apparire si definisce, dunque, come la dimensione in cui uomini e donne si incontrano nel discorso e nell’azione, un luogo non esclusivamente fisico, che sorge nel collettivo e svanisce nella dispersione.
Quando l’azione cessa, gli individui si ritirano nell’isolamento - o più comunemente sono costretti a farlo - e quello spazio si estingue. La libertà è però, sempre secondo Arendt, inseparabile dall’esistenza di questo spazio visibile e comunitario, in cui l’uomo può mostrarsi, essere ascoltato, domandare, rispondere, farsi responsabile della propria autorealizzazione. Il suo opposto nasce nel momento in cui la pluralità si spegne - per paura, censura o dominio - lo spazio pubblico viene dissolto, il linguaggio si fa trasgressione, la visibilità diventa colpa. E’ in queste condizioni che il semplice atto di apparire diventa politico.

Panahi vince la Palma d'Oro al Festival di Cannes 2025
Com’è noto, il 2 marzo del 2010, a Teheran, il regista iraniano Jafar Panahi venne arrestato e incriminato per propaganda contro il regime. Gli fu proibito di lasciare il Paese, dirigere film, rilasciare interviste. La condanna era quella di un’esistenza silenziosa, lontana dalla visibilità pubblica, la prescrizione di accettare un ruolo sociale più consono, l’anonimo cittadino. Eppure, lo scorso Maggio 2025 l’ultima opera del regista - Un semplice incidente - è stata insignita della Palma d’Oro al più rinomato festival cinematografico internazionale, il 78° Cannes Film Festival. Non è così inaspettato, considerato come, per più di un decennio, l’autore sia di fatto “persistito nell’apparire”, rendendosi noto come il regista clandestino per antonomasia. Ed è infatti forse inflazionato (per quanto mai sufficiente) discuterne nuovamente il percorso, nonché la portata (artistica e politica) come figura che potrebbe rappresentare il creativo per eccellenza, quello a cui è stato negato di fare arte, ma che, per obbligo personale e necessità, ha continuato a creare.
Per quanto sia dunque inevitabile citare aspetti della sua carriera quali la logistica della costrizione alla clandestinità, la riduzione in spazi minimi, il taglio a budget e mezzi di fortuna, è altrettanto urgente evidenziare cosa ha inevitabilmente rappresentato il cinema che ne è conseguito. Il cinema di Panahi, non solo costituisce la conversione dell’interdizione in linguaggio, ma la vera e propria configurazione dello spazio filmico come nuovo spazio comunitario, ovvero di ciò che, nella filosofia di Hannah Arendt, si potrebbe intendere come uno spazio di apparenza astratto. Nel corso della sua carriera, le sue opere non si sono mai limitate a parlare di libertà, ma la hanno esercitata nel loro semplice esistere. Ogni suo film ha ricreato, entro i limiti dell’immagine, quel luogo di relazione e pluralità che è stato sottratto e oppresso dalla realtà dei fatti.

Taxi Teheran (2015)
In This Is Not a Film (2011), girato interamente nel suo appartamento durante gli arresti domiciliari, è la casa a divenire un'agorà di concetto. Panahi parla alla videocamera rivolgendosi a un interlocutore invisibile, racconta un film che non può girare, descrive scene che non vedremo mai. Nella solitudine domestica, il regista reinventa lo spazio pubblico come relazione immaginata: lo spettatore assente è presenza nell’atto di rivolgergli la parola. Quattro anni più tardi, in Taxi Teheran (2015), quello spazio contenuto si allarga e diventa mobile. La macchina diventa città, piazza, tribunale, confessionale. Seduto al volante, accoglie passeggeri che discutono di giustizia, censura, futuro. Ogni incontro genera un microcosmo relazionale in cui, per la durata di una corsa, il taxi è una società possibile.
Nella sua mobilità precaria, il film richiama l’idea di libertà di agire come atto transitorio, come una scelta più che una facoltà da concedere. Quando i passeggeri scendono e la portiera si richiude, lo spazio dell’apparire si disperde ancora una volta - ma la traccia dell’incontro resta. Con Gli orsi non esistono (2022), Panahi porta questa dialettica all’estremo. Si trova in un villaggio al limite della frontiera con la Turchia, sta dirigendo un film da remoto, il segnale è ritardato, la qualità video è scarsa. Nel mostrare la propria impossibilità di conoscere e di partecipare a ciò che avviene all’infuori della reclusione, Panahi rivendica un diritto - il relazionarsi - che dovrebbe essere inviolabile.

Gli orsi non esistono (2022)
In tutta la sua filmografia, la macchina da presa non è più uno strumento di rappresentazione, ma di presenza, il cinema un linguaggio etico. Filmare equivale ad agire, partecipare al mondo, testimoniare un’esistenza ufficialmente interdetta. L’azione, scrive ancora Arendt, è l’unica attività che non lascia dietro di sé un prodotto, ma rivela l’identità di chi la compie. E filmare, per Panahi, è la forma più essenziale di azione, un gesto di resistenza che è atto di cura. Di fronte alla libera espressione del sé, il sistema stesso rivela la propria inadeguatezza: uno Stato che esige l’invisibilità dei suoi cittadini rinuncia alla possibilità di farli prosperare. Così, nel momento in cui gli viene imposto di tacere, Panahi ha finito per rivelarsi.
Quando non possiamo più mostrarci, non possiamo più parlare; e quando non possiamo più parlare, smettiamo anche di esistere l’uno per l’altro. Ogni democrazia si fonda su questo principio elementare - la coesistenza degli sguardi, la libertà di riconoscersi non solo nell’isolamento, nella sottomissione, ma di essere nel mondo. È questo che l’opera di Panahi continua a ricordare: che il cinema è anche un esercizio di democrazia. È quindi emblematico come, dopo anni di isolamento e censura, il regista abbia ottenuto il massimo riconoscimento a Cannes, così come, lo scorso 22 Ottobre, la Festa del Cinema di Roma gli abbia conferito il Premio alla Carriera. Celebrazioni internazionali che, dal loro privilegio di visibilità, possono almeno sostenere quelle più intime e decisive: il riconoscimento, in Iran e non solo, della libertà di sguardo e di parola che il regista, contro ogni interdizione, continua ad affermare con ostinata lucidità.