NC-250
09.11.2024
«A differenza vostra non sono qui per il cinema. Se stasera sono qui è perché ritengo che il cinema sia il luogo più adatto per mostrare queste immagini». Così Catherine Libert saluta il pubblico accorso a Firenze per vedere To Gaza, documentario collettivo presentato in anteprima mondiale al Festival dei Popoli che ripercorre un anno di guerra tramite le testimonianze di donne e uomini palestinesi, alcuni dei quali hanno pagato con la vita il loro coraggio. Ideato e montato insieme a Fred Piet e Hana Al Bayaty, il film di Libert dichiara il suo intento fin dalla proposizione del titolo: superare qualsiasi filtro separi la distruzione di Gaza dalle nostre esistenze, guardare a Gaza con gli occhi dei gazawi per camminare tra le macerie di una terra annichilita, respirare il fumo delle bombe e fissare l’abisso in cui è precipitata l’umanità senza volgere altrove lo sguardo. Se il 7 ottobre dello scorso anno la Palestina si è disfatta, come viene detto all’inizio del film, To Gaza è l’impossibile tentativo di restituire forma all’orrore, confidando nella capacità delle immagini di dire l’indicibile, tracciare l’assurdo.
Cronaca di una tragedia e atto di resistenza, questo film interroga in modo radicale lo statuto del cinema in un’epoca in cui le immagini sono ovunque e da nessuna parte. A cosa serve un film se abbiamo migliaia di reel tra le mani, perché alzare il viso verso uno schermo in una sala buia invece di scrollare sdraiati sul divano? To Gaza ci ricorda che non tutte le immagini sono libere uguali e che avere a disposizione molte più immagini da guardare non significa per forza guardare meglio, più a fondo. Se è vero che senza i social media non avremmo avuto modo di conoscere la reale gravità di quel che accade in Palestina, film come questo fanno riflettere su come la visione permessa da queste piattaforme, per quanto potenzialmente sovversiva e sconfinata, sia in realtà distratta, ancora controllata da logiche di potere e algoritmi tutt’altro che neutri. In questo contesto il cinema è fragile e in ritardo ma può indicare dove è urgente posare lo sguardo, evitando di ridurre il dolore delle persone a oggetto di consumo, combattendo l’indifferenza e distinguendo ciò che è inferno da ciò che è propaganda, e questo inferno farlo durare più di quindici secondi, e dargli spazio.
La morte è oscena. Il cinema deve diventarlo se non vuole morire. To Gaza è un insieme di urti visivi, un succedersi di collisioni che irrompono sullo schermo senza preavvisi o mediazioni, in tutta la loro tremenda violenza. Dopo aver visto il primo piano di un bambino ucciso dai missili israeliani cosa rimane da vedere? Niente, forse, se non ancora quel bambino, quel sangue, quella morte, per sempre. Per raccontarla, questa morte, e da essa non farsi sopraffare, nel film si parlano due lingue lontane e complementari. Quella giornalistica, rappresentata dai corpi pericolanti dei gazawi che ogni giorno filmano e condividono online la loro quotidianità in modo che nessuno possa più dire di non aver visto, e quella poetica espressa dalla tregua del mare e dai versi di Refaat Alareer, il quale prima di morire sotto le bombe scrisse parole di speranza affinché nessuno potesse nei confronti della sofferenza del suo popolo più dirsi estraneo.
To Gaza si situa alla frontiera tra queste due lingue, esplorando i mezzi e le possibilità di entrambe ed eleggendo il cinema a luogo di incontro, contaminazione del reale e lotta politica. Il montaggio in questo senso segue una frammentarietà narrativa sempre sul punto di collassare ed esplodere: il racconto malfermo delle fotocamere cellulari corre e si arresta, fa i conti con il disastro, fugge dagli spari, piange le vittime e urla vendetta per poi scorgere all’improvviso istanti di bellezza e gioco tra gli edifici divelti. Siamo di fronte alla vertiginosa documentazione di cosa l’essere umano è capace di infliggere e sopportare. Un massacro che mette in crisi la capacità delle immagini di non perire, di essere credute e svelare la verità, resistendo al marketing dei guerrafondai, ai bias tecnologici dei social, alla miseria emotiva degli utenti, nonché alle scelte interessate di governi ed editori. Solo un cinema che si prenda il rischio di oltraggiare il profitto e le coscienze, sembra dire To Gaza, proprio perché tanto libero da unire poesia e reportage, denuncia e militanza, può chiamare la morte per nome senza chinare la testa.
Case, ospedali, strade, campi profughi. Le testimonianze che compongono il film mostrano chiaramente come in quest’anno di devastazione niente e nessuno sia stato risparmiato dalle armi israeliane, finanziate dall’Occidente e dall’Italia. Il film di Libert è uno shock e un invito a ricordarsi umani. Una spinta all’azione per far cessare il fuoco, rivoltarsi contro un genocidio oscurato o pubblicizzato come inevitabile, sostenere i sogni e le paure dei palestinesi intrappolati in una patria occupata.
To Gaza, allora, è un film infinito e non solo perché la regista ha già annunciato di star preparando una seconda parte, visionando altre centinaia di ore di contenuti realizzati da persone nella Striscia. Infinito perché simbolo di tutte le Palestine del mondo, di tutti i popoli oppressi, di tutte le immagini censurate, di tutti i bambini morti, di tutte le famiglie spezzate. Chi ha visto To Gaza al Festival dei Popoli, sperando in una distribuzione che permetta ad altri di vederlo presto, è come se avesse guardato di nuovo per la prima volta. Di questo abbacinante e inaudito spalancarsi dello sguardo, subito riempito dal dolore degli altri, sarebbe prezioso approfittare per rifondare la nostra postura verso il cinema e la vita.
Per supportare alcune delle persone presenti nel film, dare loro voce, conoscerne il lavoro e restare aggiornati sugli sviluppi della guerra in Palestina, aggiungiamo di seguito i loro account instagram: @ahmed.ys3, @sami97alsultan, @mahmoud_shammala, @mohammedharar2, @mariam_ryad_abu_dagga, @solbandgaza, @amirgharabawi, @basharzaanin, @lama_jamous9, @suhailnssar, @motaz_azaiza.
NC-250
09.11.2024
«A differenza vostra non sono qui per il cinema. Se stasera sono qui è perché ritengo che il cinema sia il luogo più adatto per mostrare queste immagini». Così Catherine Libert saluta il pubblico accorso a Firenze per vedere To Gaza, documentario collettivo presentato in anteprima mondiale al Festival dei Popoli che ripercorre un anno di guerra tramite le testimonianze di donne e uomini palestinesi, alcuni dei quali hanno pagato con la vita il loro coraggio. Ideato e montato insieme a Fred Piet e Hana Al Bayaty, il film di Libert dichiara il suo intento fin dalla proposizione del titolo: superare qualsiasi filtro separi la distruzione di Gaza dalle nostre esistenze, guardare a Gaza con gli occhi dei gazawi per camminare tra le macerie di una terra annichilita, respirare il fumo delle bombe e fissare l’abisso in cui è precipitata l’umanità senza volgere altrove lo sguardo. Se il 7 ottobre dello scorso anno la Palestina si è disfatta, come viene detto all’inizio del film, To Gaza è l’impossibile tentativo di restituire forma all’orrore, confidando nella capacità delle immagini di dire l’indicibile, tracciare l’assurdo.
Cronaca di una tragedia e atto di resistenza, questo film interroga in modo radicale lo statuto del cinema in un’epoca in cui le immagini sono ovunque e da nessuna parte. A cosa serve un film se abbiamo migliaia di reel tra le mani, perché alzare il viso verso uno schermo in una sala buia invece di scrollare sdraiati sul divano? To Gaza ci ricorda che non tutte le immagini sono libere uguali e che avere a disposizione molte più immagini da guardare non significa per forza guardare meglio, più a fondo. Se è vero che senza i social media non avremmo avuto modo di conoscere la reale gravità di quel che accade in Palestina, film come questo fanno riflettere su come la visione permessa da queste piattaforme, per quanto potenzialmente sovversiva e sconfinata, sia in realtà distratta, ancora controllata da logiche di potere e algoritmi tutt’altro che neutri. In questo contesto il cinema è fragile e in ritardo ma può indicare dove è urgente posare lo sguardo, evitando di ridurre il dolore delle persone a oggetto di consumo, combattendo l’indifferenza e distinguendo ciò che è inferno da ciò che è propaganda, e questo inferno farlo durare più di quindici secondi, e dargli spazio.
La morte è oscena. Il cinema deve diventarlo se non vuole morire. To Gaza è un insieme di urti visivi, un succedersi di collisioni che irrompono sullo schermo senza preavvisi o mediazioni, in tutta la loro tremenda violenza. Dopo aver visto il primo piano di un bambino ucciso dai missili israeliani cosa rimane da vedere? Niente, forse, se non ancora quel bambino, quel sangue, quella morte, per sempre. Per raccontarla, questa morte, e da essa non farsi sopraffare, nel film si parlano due lingue lontane e complementari. Quella giornalistica, rappresentata dai corpi pericolanti dei gazawi che ogni giorno filmano e condividono online la loro quotidianità in modo che nessuno possa più dire di non aver visto, e quella poetica espressa dalla tregua del mare e dai versi di Refaat Alareer, il quale prima di morire sotto le bombe scrisse parole di speranza affinché nessuno potesse nei confronti della sofferenza del suo popolo più dirsi estraneo.
To Gaza si situa alla frontiera tra queste due lingue, esplorando i mezzi e le possibilità di entrambe ed eleggendo il cinema a luogo di incontro, contaminazione del reale e lotta politica. Il montaggio in questo senso segue una frammentarietà narrativa sempre sul punto di collassare ed esplodere: il racconto malfermo delle fotocamere cellulari corre e si arresta, fa i conti con il disastro, fugge dagli spari, piange le vittime e urla vendetta per poi scorgere all’improvviso istanti di bellezza e gioco tra gli edifici divelti. Siamo di fronte alla vertiginosa documentazione di cosa l’essere umano è capace di infliggere e sopportare. Un massacro che mette in crisi la capacità delle immagini di non perire, di essere credute e svelare la verità, resistendo al marketing dei guerrafondai, ai bias tecnologici dei social, alla miseria emotiva degli utenti, nonché alle scelte interessate di governi ed editori. Solo un cinema che si prenda il rischio di oltraggiare il profitto e le coscienze, sembra dire To Gaza, proprio perché tanto libero da unire poesia e reportage, denuncia e militanza, può chiamare la morte per nome senza chinare la testa.
Case, ospedali, strade, campi profughi. Le testimonianze che compongono il film mostrano chiaramente come in quest’anno di devastazione niente e nessuno sia stato risparmiato dalle armi israeliane, finanziate dall’Occidente e dall’Italia. Il film di Libert è uno shock e un invito a ricordarsi umani. Una spinta all’azione per far cessare il fuoco, rivoltarsi contro un genocidio oscurato o pubblicizzato come inevitabile, sostenere i sogni e le paure dei palestinesi intrappolati in una patria occupata.
To Gaza, allora, è un film infinito e non solo perché la regista ha già annunciato di star preparando una seconda parte, visionando altre centinaia di ore di contenuti realizzati da persone nella Striscia. Infinito perché simbolo di tutte le Palestine del mondo, di tutti i popoli oppressi, di tutte le immagini censurate, di tutti i bambini morti, di tutte le famiglie spezzate. Chi ha visto To Gaza al Festival dei Popoli, sperando in una distribuzione che permetta ad altri di vederlo presto, è come se avesse guardato di nuovo per la prima volta. Di questo abbacinante e inaudito spalancarsi dello sguardo, subito riempito dal dolore degli altri, sarebbe prezioso approfittare per rifondare la nostra postura verso il cinema e la vita.
Per supportare alcune delle persone presenti nel film, dare loro voce, conoscerne il lavoro e restare aggiornati sugli sviluppi della guerra in Palestina, aggiungiamo di seguito i loro account instagram: @ahmed.ys3, @sami97alsultan, @mahmoud_shammala, @mohammedharar2, @mariam_ryad_abu_dagga, @solbandgaza, @amirgharabawi, @basharzaanin, @lama_jamous9, @suhailnssar, @motaz_azaiza.