
INT-104
09.10.2025
La serata di premiazione alla Mostra del Cinema di Venezia è stata segnata da diverse decisioni controverse da parte della giuria, sia in Concorso che, forse ancor più, nella sezione Orizzonti. In quest’ultima, la giuria presieduta da Julia Ducournau ha scelto di premiare un tipo di cinema privo di veri rischi, ignorando opere di notevole qualità come Rose of Nevada di Mark Jenkin, Pin de Fartie di Alejo Moguillansky e, soprattutto, Funeral Casino Blues di Roderick Warich.
Quest’ultimo, vero outsider della selezione, si è distinto per l’intensità melodrammatica, la struttura narrativa in costante mutamento e un inconfondibile spirito cinefilo, ricco di omaggi e riferimenti ai grandi film del passato. Diviso in tre capitoli, il film segue la storia di Jen, una receptionist a Bangkok che, per sostenere economicamente la propria famiglia, si offre come “fidanzata a noleggio” per visitatori stranieri di passaggio in città. Quando uno di questi incontri si trasforma in violenza, Jen viene salvata da Wason, un barista sommerso dai debiti, con cui instaura un legame delicato. Ma all’improvviso, Jen scompare nel nulla. Insieme alla sua coinquilina Pim, Wason intraprende una ricerca che li conduce dalle ombre di Bangkok fino al confine con la Cambogia.
Quello che inizia come un melodramma classico si trasforma gradualmente in un sogno/incubo lynchiano, dove Twin Peaks diviene un riferimento esplicito, intrecciato a elementi del folklore thailandese legato ai fantasmi. Il risultato è un universo narrativo perturbante, in cui il confine tra realtà e illusione si fa sempre più sottile, e la storia assume i contorni febbrili di una visione sospesa tra memoria, perdita e apparizione.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Roderick Warich per parlare del suo legame con la Thailandia, dei numerosi omaggi cinematografici che attraversano la sua opera e degli elementi chiave di Funeral Casino Blues, tra cui la costante presenza della musica e il potente linguaggio visivo del film.

Il team di Funeral Casino Blues (2025) con Alberto Barbera al Festival di Venezia
Come ti sei sentito nel tornare alla Mostra del Cinema di Venezia? Eri già stato qui qualche anno fa, giusto?
In realtà dieci anni fa. Non ero presente quando è stato presentato il film che ho scritto insieme a Timm Kröger (The Universal Theory, 2023), ero a Bangkok in quel periodo, stavo preparando Funeral Casino Blues. Avevo pensato di concentrarmi un po’ sulla regia laggiù, invece di venire solo come co-sceneggiatore. Ma è bello essere tornato. Devo ammettere che sono un po’… non direi che ho ansia sociale, sarebbe esagerato, ma c’è tanta gente. E non mi sento proprio a mio agio tra le folle.
Hai lavorato sia come sceneggiatore che come regista. E hai appena detto che ora vuoi concentrarti di più sulla regia?
Sì, iniziare come sceneggiatore è stato un modo per entrare nel settore senza bisogno di grossi investimenti. Puoi scrivere in qualsiasi momento, e l’unica persona che sfrutti sei te stesso. È così che ho pensato di iniziare, anche perché non avevo alcun contatto nell’ambiente. Ma questo significa anche che devi lavorare molto più duramente degli altri, perché se non conosci nessuno, devi essere davvero bravo. Poi, in un certo senso, sono rimasto bloccato in quella posizione. Durante la scuola di cinema lavoravo a dei cortometraggi e ho provato a ri-iscrivermi come regista, ma mi hanno detto “No, grazie”. Che, a dire il vero, adesso mi fa anche un certo effetto, perché proprio ieri ho incontrato uno dei tutor e gliel’ho detto. È stato un po’ gratificante, sì. Anche se quelli che hanno preso quella decisione non ci sono più, erano anziani. Quindi non è proprio una vendetta se non c’è più nessuno a cui dimostrarlo. Però comunque, fanculo l’istituzione. Poi ho scritto per Timm e Sandra Wollner, i progetti più importanti sono stati The Trouble with Being Born (2018) e… non ricordo il titolo inglese del primo. In tedesco era Der Rat der Vögel.
The Council of Birds. Era a Venezia nel 2014, giusto?
Esatto. E poi l’ultimo che abbiamo fatto, credo che il titolo inglese fosse The Theory of Everything.
Ma ora si chiama The Universal Theory, perché c’è già il film di James Marsh, quello su Stephen Hawking.
Sì, l’avevo detto a Timm all’epoca. Ma voglio dire, non è che qualcuno abbia il copyright su “la teoria del tutto”. Se cerchi su Wikipedia, è solo un concetto. Pazienza. Comunque, prima di quello, avevo fatto un film subito dopo la scuola. Era auto-finanziato, tenuto insieme con dei chewing gum, praticamente. Però ha aperto qualche porta e ha aiutato a finanziare questo nuovo progetto. L’ho realizzato con una casa di produzione che ho co-fondato con un amico, Dominik Rockermeyer. Abbiamo fondato insieme 2557 Films, e anche il nostro primo film l’abbiamo fatto così. Contemporaneamente, Viktoria Stolper, che aveva prodotto gli altri film con Timm e Sandra, ha avviato una nuova società con loro. Ora ci sono due società: The Barricades e 2557 Films. E io faccio parte di entrambe. Quindi sì, forse ora è un po’ più facile parlare con le produzioni. Ma comunque bisogna trovare i finanziamenti. E in Europa il tipo di cinema che ci interessa è ancora difficile da vendere…a volte.

Hai girato questo film a Bangkok, ma anche il precedente, 2557 (2017). Cosa ti attira di questo luogo? Le persone? La città stessa?
È un po’ tutto, in realtà. Con 2557, il punto di partenza era piuttosto personale; Dominik, il mio collaboratore, è da tempo in una relazione con una donna thailandese. Siamo entrambi grandi fan del cinema di Hong Kong, e a un certo punto ci siamo detti: facciamo qualcosa di piccolo, quasi come un esperimento. Oggi, con le videocamere digitali, nessuno può davvero impedirti di girare un film, soprattutto se è a basso budget. E proprio perché avevamo pochissimi soldi, il linguaggio visivo è diventato un modo per aggirare i limiti. Alcune scelte estetiche ti aiutano a far sembrare qualcosa più grande di quello che è. In 2557, la narrazione visiva, e non voglio dire “linguaggio cinematografico” in modo pretenzioso, ma l’atmosfera, il tono, hanno sostenuto il film più del dialogo o della trama tradizionale. Molte cose sono rimaste non dette, non solo per il budget, ma anche per l’ambiente in cui lavoravamo. Non è stato un film facile da realizzare. Ma al di là di questo, mi piacciono molto le persone. Mi interessano e sono attratto dalla vita rurale, dalle mentalità operaie, da quello spirito combattivo. E tematicamente, mi affascina anche l’intersezione tra tardo capitalismo e spiritualità. So che “tardo capitalismo” è un termine abusato, dopo Mark Fisher quel discorso è stato sviscerato in ogni modo, ma resta qualcosa di reale in quell’incontro. Ti faccio un esempio che cito spesso, a Bangkok vedi questi grattacieli futuristici, tipo Blade Runner (1982), e proprio davanti, ci sono queste piccole case degli spiriti. La gente lascia bottiglie di Fanta rossa per gli spiriti locali. Quella coesistenza tra ultramodernità e credenze antiche, profondamente radicate, non la trovi dappertutto. E poi c’è la posizione storica unica della Thailandia. A differenza di altri paesi del Sud-est asiatico, la Thailandia non è mai stata colonizzata, ha mantenuto la sua indipendenza all’interno di un contesto coloniale. Quindi non vedi lo stesso tipo di influenza occidentale che trovi, ad esempio, in Vietnam con i resti della colonizzazione francese. Questo dà al luogo una dinamica culturale davvero unica, soprattutto quando le persone provenienti dall’Europa o dall’Occidente entrano in contatto con essa. E quel contatto… può essere complicato. C’è di tutto; da chi va lì per drogarsi o “ritrovare se stesso spiritualmente” - cosa che, onestamente, forse non è proprio l’idea migliore - al lato più oscuro, come il turismo sessuale. Ogni volta che questi due mondi si incontrano, c’è attrito. C’è tensione. E quella scintilla tra culture mi interessa moltissimo. Allo stesso tempo, penso che troppi registi europei raccontino solo quanto è incasinato l’Occidente, ma mettendo in scena solo personaggi occidentali. Qualcuno online l’ha chiamato “nichilismo in smoking”, sai, quel genere eat the rich, dove si prende in giro l’élite ma alla fine si fanno film per l’élite. Io volevo fare qualcosa di diverso. Un film che rappresentasse davvero le persone della classe lavoratrice, non solo in Occidente, ma a livello globale.
Il tuo film è diviso in tre capitoli. È interessante che ognuno abbia una distinzione visiva e narrativa rispetto agli altri. Come hai strutturato il film usando queste tre parti?
Sono sempre stato interessato a "passare del tempo con i personaggi". Non lo chiamerei proprio “slow cinema”, non è Tsai Ming-liang, ma quell’influenza si sente sicuramente nel film. Diciamo che ha più l’atmosfera di un hangout movie all’americana. Ma per spiegare bene come l’ho strutturato, devo parlare dei riferimenti, non perché citi film in modo diretto, ma perché quei film rappresentano il linguaggio con cui penso. Ce li ho dentro, e quando cerco di raccontare una certa storia, far riferimento a loro è il modo più veloce per esprimere un tono o un’intenzione. Quindi, il primo capitolo è decisamente un hangout movie. Si ispira all’idea di film “da compagnia” di Tarantino, ma anche a Dazed and Confused (1993) di Richard Linklater. E ovviamente al modo in cui Wong Kar-wai "sta" con i suoi personaggi, semplicemente passando del tempo con loro. C’è anche una forte influenza di Hou Hsiao-hsien, soprattutto Millennium Mambo (2001).
L’ho pensato anch’io, soprattutto nella scena del club. Jen mi ricordava un po’ il personaggio di Shu Qi in Millennium Mambo.
Shu Qi in Millennium Mambo c’è sicuramente, è un riferimento diretto. Onestamente, è una delle poche persone con cui vorrei davvero farmi un selfie, se la vedessi qui al Festival. Ma sì, quel film, e anche Goodbye South, Goodbye (1996), i film più urbani e moderni di Hou Hsiao-hsien, non quelli rurali tipo Dust in the Wind, sono riferimenti fondamentali per me. E naturalmente tutta la Taiwanese New Wave, come i primi film di Edward Yang o Rebels of the Neon God (1992) di Tsai. Tutti quei film dove si sta insieme ai personaggi, c’è realismo sociale ma anche una forte estetica visiva ed emotiva. La prima parte di Funeral Casino Blues è influenzata anche da film come The Long Goodbye (1973) di Robert Altman o Fat City (1972) di John Huston, ma poi il tutto è mescolato con tanti altri elementi. Quindi sì, il primo capitolo è una specie di melodramma asiatico che incontra l’energia del cinema indipendente americano degli anni ’70 o ’90. E, ovviamente, anche il cinema di Hong Kong.
Stavo per dirlo, si sente chiaramente anche quello.
Il cinema di Hong Kong è come il DNA di tutto quello che faccio. È sempre lì sotto, a livello strutturale ed emotivo, fa parte delle fondamenta.
E il titolo, Funeral Casino Blues, è magari un riferimento velato a Peking Opera Blues (1986)? Un mio collega ha anche notato che ci sono tanti film che finiscono con “blues”.
Potrebbe essere un’ispirazione subconscia. Ma sinceramente, “Funeral Casino” da solo suonava troppo come un film horror o un’opera d’arte concettuale, tipo Under the Skin (2013) o qualcosa di più astratto, e questo film non lo è. Aggiungere “Blues” gli ha dato quell’atmosfera da hangout, gli ha aggiunto un tocco umano, un senso di ritmo e malinconia. Inoltre, stavo riguardando Cowboy Bebop, dove ci sono tanti episodi che finiscono con “blues”. Quindi sì, sì è un po’ formato tutto insieme. Il secondo capitolo, direi, ha un tono diverso. È più psicologico. Le grandi ispirazioni lì sono la Trilogia dell’appartamento di Polanski, e sicuramente Perfect Blue (1997) di Satoshi Kon, anche se voglio essere chiaro: non lo sto copiando. Ma l’influenza di Kon è enorme. E poi, quando ci spostiamo in campagna, cambiamo di nuovo tono, verso un realismo sociale, con tracce dei primi lavori di Terrence Malick. Ci sono anche sequenze oniriche, da sogno. Ma nel profondo, quella parte è ancora radicata nella realtà, solo vista attraverso una lente poetica. Il terzo capitolo, invece, ci porta in qualcosa di più spettrale. C’è un elemento soprannaturale.

Wason (Wason Dokkathum) e Jen (Jutamat Lamoon) in Funeral Casino Blues (2025)
Il personaggio è intrappolato, e questo richiama chiaramente Twin Peaks, soprattutto la Black Lodge, quell’idea di essere bloccati in uno spazio psicologico o metafisico.
Sì, c’entra qualcosa con quello, ma anche con il luogo in cui è intrappolata. Non voglio dire troppo per non rovinare la visione, ma sì, quel posto dove lei resta bloccata diventa un simbolo. Rappresenta una specie di purgatorio capitalistico, l’essere intrappolati nello stesso hotel in cui prima lavoravi come sex worker. È l’inferno da cui non riesce a uscire. Forse è perché ho letto troppo Murakami - nei suoi romanzi c’è sempre una donna bloccata in un hotel, o una che scompare. E quell’idea di assenza, di sparizione, mi è sempre rimasta. Quando avevo circa 14 anni ho visto L’Avventura (1960) di Antonioni, e mi ha colpito tantissimo. Probabilmente perché ero un adolescente un po’ pretenzioso (il regista ride n.d.r.), ma quel tema dell’assenza mi ha segnato. È qualcosa a cui penso ancora. Quindi sì, forse è un’influenza più grande di quanto mi renda conto, questo motivo antonioniano delle persone che spariscono. Ma mi piace pensare che la mia versione sia un po’ più intrattenente.
Restando sul tema del mondo dei fantasmi, mi ha colpito molto come hai usato le inquadrature delle telecamere di sorveglianza nei primi due capitoli. All’inizio mi chiedevo cosa volessero dire, e poi, poco prima del terzo capitolo, vediamo la figura del fantasma, e tutto prende senso. L’ho trovata un’idea davvero originale.
Ultimamente penso molto al mondo in cui viviamo, dove tutto è filmato, continuamente. Ma la maggior parte di quelle riprese non viene mai vista. Immagini di sorveglianza, video medici… si vedono solo quando succede qualcosa di terribile. Oppure, all’opposto, quando un gatto fa qualcosa di divertente. Capisci cosa intendo? Quindi c’è qualcosa di intrinsecamente spettrale nelle immagini di sorveglianza. Siamo abituati a pensare che, quando vediamo riprese da telecamere di sicurezza o da dashcam, qualcosa di brutto stia per accadere. Quelle immagini sembrano una finestra su un altro strato di realtà, uno in cui la violenza è già presente, o sta per manifestarsi. Ecco perché, anche nelle scene romantiche dove tutto sembra sicuro, c’è questa sensazione latente di minaccia, come se qualcosa stesse osservando, e non finirà bene. Per me è anche un commento sul voyeurismo, che è molto presente nella storia. Il protagonista guida lei ai lavori come sex worker, e poi resta fuori, guardando le finestre. C’è un voyeurismo alla Hitchcock in tutto ciò, e abbiamo giocato molto con quell’idea, usando inquadrature alla Kuleshov, alternando POV e reazioni, per evocare quella tensione, quell’incertezza. E poi c’è l’idea che ci sia qualcun altro che osserva. Una presenza più grande. Non voglio dire “Dio” o “destino”, ma qualcosa di superiore che è consapevole di tutto. C’è una citazione di Cormac McCarthy, sto parafrasando, che dice qualcosa tipo “C’è qualcosa che osserva, e sa della tua esistenza.” È quella la sensazione che cercavamo. La prima volta che abbiamo usato il punto di vista della sorveglianza, era in realtà più comico, con i due personaggi seduti al piano di sotto a guardare verso l’alto. Sono curiosi di sapere cosa succede sopra, proprio come il pubblico. È un piccolo omaggio alle soap opera thailandesi, dove c’è questo vecchio cliché narrativo, slap and kiss, dove un uomo schiaffeggia una donna e poi la bacia. Per fortuna oggi quel tipo di narrazione sta sparendo. Ma noi l’abbiamo ribaltato, nella nostra versione, è lei che lo schiaffeggia, e poi lo bacia. Ma non lo mostriamo mai, perché il pubblico, come i personaggi al piano di sotto, se lo perde. Stavano guardando altrove. È una specie di meta-commento sullo spettatore e sul guardare.
Anche l’uso dei telefoni e dei dispositivi digitali nel film mi ha colpito molto. Mostri adesivi, loghi, interfacce… E spicca, perché oggi la maggior parte dei film evita di mostrare gli smartphone, oppure lo fa male. Nel tuo film invece sembrano parte integrante dell’atmosfera.
Credo che molti registi cerchino di aggirare il problema degli smartphone, perché sono un po’ deleteri per la narrazione, soprattutto nei thriller o nei misteri, dove avere accesso immediato alle informazioni può rovinare la tensione. Ma per me, questi dispositivi fanno talmente parte della nostra vita che devi affrontarli, o almeno riconoscerli. Noi abbiamo cercato di usarli in modo astratto, per far sì che il pubblico sentisse qualcosa, invece di limitarsi a elaborare informazioni. Invece del classico inserto dove qualcuno scrive un messaggio, abbiamo creato delle grafiche a tutto schermo, quasi come i cartelli del cinema muto. Paradossalmente, questo ha reso l’esperienza più immersiva, non meno. Perché ti fa riflettere su come comunichiamo oggi e su quanto possa essere alienante. Quando parli con qualcuno dal vivo, indossi una sorta di maschera sociale, fai una performance. Ma attraverso uno schermo, quella maschera diventa letterale. Interagisci con un’idea della persona, non con la persona. Quell’astrazione l’abbiamo visualizzata nel modo in cui abbiamo girato i messaggi sul telefono. Inoltre, non volevo mostrare i clienti occidentali, gli stranieri. Era importante mantenerli ambigui. Quindi abbiamo cambiato apposta gli attori che li interpretano, un po’ come fece William Friedkin in Cruising (1980), dove usava attori diversi per tenere incerta l’identità del killer. Quella confusione, quel confine sfocato dell’identità, rafforza il tema delle maschere. Anche il sex work è pieno di maschere, di ruoli, di proiezioni che gli altri ti impongono. E a un livello più ampio, credo che lo facciamo tutti continuamente, in questa società. Fingiamo che questi strumenti digitali siano estensioni di noi stessi, ma in realtà sono estensioni della Silicon Valley. Viviamo dentro un’illusione creata da loro. E volevo che il pubblico sentisse tutto questo. Mi sembra che per te sia stato così, ed è molto gratificante da sapere.
Mi piacerebbe ora parlare del modo in cui adoperi la musica. Non direi che la colonna sonora è “invadente”, ma c’è sicuramente molta musica, soprattutto sonorità ambient e underground, molto presenti. Era già nei tuoi piani dall’inizio, o è qualcosa che è emerso in fase di montaggio?
Era già nella sceneggiatura. C’era scritto letteralmente: “musica di sottofondo da qui fino al minuto 50.” In realtà, inizialmente doveva esserci ancora più musica di quella che è rimasta nel film. Oggi ho letto che Barrio Triste sarà proiettato al Festival di Venezia, e ha una colonna sonora di Arca, che è una delle mie musiciste preferite in assoluto. Quel film ha musica dall’inizio alla fine. Mi ha ricordato quello che Korine ha fatto con Baby Invasion (2024), o quello che fa Burial, creare un’atmosfera sonora totale. Mi affascina molto quella che chiamo la boiler roomification del cinema, cioè film che potrebbero quasi essere trasmessi durante un DJ set. Nel nostro caso, pensavo anche alla musica nei videogiochi, è ripetitiva, ma non annoia mai. Continuavo a pensare a Sátántangó (1994)...ma con il mondo sonoro di Shenmue, un vecchio videogioco di kung fu ambientato a Hong Kong.
Ora mi immagino Béla Tarr che dirige un adattamento di quel gioco.
Immagina un film di Béla Tarr proiettato nella Boiler Room, con DJ dal vivo (il regista scoppia a ridere n.d.r.).
Nei melodrammi, di solito c’è un unico tema musicale che viene ripetuto. In Funeral Casino Blues, invece, la colonna sonora cambia di continuo, soprattutto nella prima parte. Passa dal melodramma, al thriller, alla tensione. Quella varietà musicale per me ha aggiunto un ulteriore livello. Non direi “spirituale”, ma sicuramente ha aiutato a connettersi emotivamente con la storia. Come hai lavorato con il compositore? Hai dato indicazioni precise, o gli hai lasciato libertà?
Un po’ entrambe le cose. All’inizio abbiamo parlato del tipo di musica che volevo, anche se il film non era ancora girato. Abbiamo parlato molto di cinema asiatico. La prima cosa importante era: volevo delle melodie. Penso che oggi la musica nei film moderni tenda a essere troppo di sottofondo, piena di drone. Anche noi abbiamo dei droni, ma... non so, ormai non si sente più quella vibrazione alla Morricone, Badalamenti o Sakamoto, dove c’era una grande melodia che diventava il tema del film. E a me manca molto. Allo stesso tempo parlavamo anche di musica ambient, in particolare quella da videogiochi, che dovrebbe andare avanti all’infinito per creare atmosfera. Perché per me il mood è fondamentale, soprattutto lavorando ai confini del cinema commerciale. Ma se pensi alla musica, anche se è astratta, è sempre in qualche modo commerciale. Quelle distinzioni rigide tra “arthouse” e “commerciale” esistono più nel cinema che nella musica. Quindi parlavamo di grandi melodie, per invitare il pubblico dentro il mondo del film, per farlo “stare” lì. Lui ha creato circa 20 bozze, poi abbiamo parlato di cosa c’era di interessante in ognuna. È stato un processo di ping pong. La parte più difficile era trovare qualcosa di semplice, ma che non fosse ripetitivo. Una melodia che scorresse. Per le melodie principali, parlavamo più del vibe, dell’atmosfera e dell’orchestrazione, molta roba con sintetizzatori anni ‘80, per esempio. Il difficile era trovare suoni che non fossero troppo vicini alle influenze, che fossero abbastanza diversi da funzionare come qualcosa di autonomo. Ogni volta che ricevevo una bozza in cui percepivo che lui stava davvero sentendo quello che stava facendo, la inserivo subito nel film. E lui mi ha detto che, nella maggior parte dei casi, sceglievo proprio quelle che per lui erano più ispirate. Quindi arrivare a quel livello, in cui senti che è reale, è stato bellissimo.

Un'immagine dal film
E per quanto riguarda il lato visivo, hai lavorato nello stesso modo con il direttore della fotografia?
Sì, in effetti gli ho mandato un PDF, tipo un libro di 400 pagine con riferimenti fotografici. Abbiamo parlato anche di alcuni film specifici, ma ormai ci conosciamo da così tanto che lavoriamo in modo molto intuitivo. Quando cito riferimenti cinematografici può sembrare che ne parliamo tanto, ma in realtà no. Parliamo più di cose pratiche: quale lente usare, dove mettere la camera. La cosa più importante era trovare location con condizioni di luce adatte. A Bangkok il problema è che c’è troppa luce, ovunque vai, proietti un’ombra. E siccome volevamo usare il più possibile luce naturale, non per uno stile visivo specifico, ma per mantenere uno stile di lavoro da documentario, dovevamo trovare posti in cui fosse fattibile. Molte decisioni erano istintive. Ci chiedevamo “cosa serve a questa scena?” Non volevamo fare più del necessario. Non andavamo a caccia di reazioni facili, diciamo. Cercavamo di usare il minimo indispensabile, ma quanto basta. Non è minimalismo per il gusto del minimalismo. È più un "ragionarci bene”, se non serve fare tanto, allora non farlo. Parlavamo quindi soprattutto di lenti, di luce, di quanto potevamo avvicinarci agli attori. Il nostro direttore della fotografia (Roland Stuprich, n.d.r.) è molto bravo a illuminare, ma qui non l’abbiamo fatto davvero. La sua forza è anche leggere il corpo degli attori, soprattutto quando giri a mano. Ha questa capacità di anticipare i loro movimenti, come in una danza. Ecco, è questo il tipo di cose di cui parlavamo. Non eravamo troppo concettuali. Era più tipo: “Ok, siamo in questa location. Dove mettiamo la camera? Lì? Che lente usiamo? Quella? Ok, va bene.” E siccome lavoravamo anche con attori alla prima esperienza, non tutti, ma alcuni, non puoi andare troppo vicino. Ma allo stesso tempo, non puoi nemmeno andare troppo largo, perché voglio vedere i volti. Se usi una lente larga, finisci troppo vicino. Avevamo parlato anche di usare lenti lunghe, ma in una città caotica come Bangkok, gli attori si perdono nell’inquadratura. Non sei più vicino a loro. Quindi queste decisioni pratiche hanno davvero plasmato il modo in cui abbiamo girato le scene esterne.
Hai menzionato gli attori. Erano tutti non professionisti, giusto? Com’è stato lavorare con loro? Come li hai trovati?
In vari modi. La protagonista, Jutamat Lamoon, è arrivata da un casting aperto. Wason Dokkathum, che aveva già lavorato con 2557 Films, era amico del produttore Dominik. È stato lui a trovare anche l’attrice che interpreta Pim, tramite Instagram. Altri sono arrivati tramite amici di amici. Per esempio, il ragazzo che interpreta Iceman alla reception era in realtà il nostro produttore vendite. Mi sembrava accogliente, divertente, e pensavo potesse aiutare a mettere gli altri a proprio agio sul set, così l’abbiamo messo nella scena. Poi c’erano le ragazze della campagna, che erano amiche o parenti della compagna di Dominik. Lavorare con attori non professionisti è stato abbastanza semplice. Più sono giovani, o meglio, più sono cresciuti con i social, meno paura hanno della camera. È più facile oggi trovare persone con un’energia aperta e naturale rispetto a vent’anni fa. La sceneggiatura era scritta e strutturata, ovviamente, ma all’interno di ogni scena volevo che gli attori portassero le proprie idee e sensazioni. Chiedevo loro: “Cosa faresti in questa situazione? Come ti sentiresti?” E poi facevo un passo indietro. Come regista non-thailandese che scrive personaggi thailandesi, dovevo lasciare spazio perché fossero loro a insegnare qualcosa a me. Quindi la scrittura riguardava più la struttura; il lavoro sui personaggi è avvenuto in collaborazione. Soprattutto per le scene sui messaggi, spesso comunicavo le emozioni in modo informale, a volte mandando gif o video buffi, oppure spiegando cosa succede nella storia nei prossimi 15 minuti. Questo approccio ci ha aiutato a trovare il tono giusto.
Ci sono state grosse difficoltà durante le riprese?
Tante. Non posso elencarle tutte. Una grande è stato il caldo. Nella prima parte delle riprese faceva 42°C di notte, con umidità quasi al 100%. Condizioni durissime. Ma oltre a quello, la difficoltà era l’imprevedibilità. C’era sempre qualcosa che andava storto. E quando non hai molti soldi, devi trovare soluzioni. Qualcuno si ammala? Ok, non possiamo girare quella scena. È fondamentale? Posso combinarla con un’altra? Così mi ritrovavo alle 5 del mattino a riscrivere il piano di produzione, perché qualcuno non era disponibile. Nella seconda metà delle riprese era così ogni giorno. Se non hai soldi ma il tempo scorre, devi essere creativo. Devi. Ed è dura, perché la creatività non è solo narrativa, diventa risolvere problemi di produzione. A volte sembrava davvero che stessimo improvvisando tutto. Il film era preparato, ma non puoi pianificare tutto il caos. Devi buttarti in acqua e cercare di non affogare. Lasciarti guidare dal fiume.
È interessante, perché guardando il film non ho mai avuto l’impressione che fosse a basso budget. È ricco, sia visivamente che narrativamente. Quindi mi sorprende un po’ sentire tutto questo.
Sì, non mi piace parlare troppo del budget, perché può diventare o un punto di forza, o un ostacolo, a seconda di come lo percepisce il pubblico. Ma come dice Sean Baker, quando si fanno film a basso budget, spesso si finisce a raccontare due persone che parlano in una stanza. Ma non è obbligatorio. Se lavori con una troupe piccola e senza un apparato tecnico gigantesco, puoi essere flessibile. Per me, usare tanti attori e tante location, anche con pochi mezzi, arricchisce il film. Fa dimenticare che non avevamo soldi, che era l’obiettivo fin dall’inizio. E onestamente, non ho nessun interesse a fare un film con due persone che parlano in una stanza. Posso guardarlo, forse anche scriverlo. Ma come regista? Non mi interessa affatto.
INT-104
09.10.2025
La serata di premiazione alla Mostra del Cinema di Venezia è stata segnata da diverse decisioni controverse da parte della giuria, sia in Concorso che, forse ancor più, nella sezione Orizzonti. In quest’ultima, la giuria presieduta da Julia Ducournau ha scelto di premiare un tipo di cinema privo di veri rischi, ignorando opere di notevole qualità come Rose of Nevada di Mark Jenkin, Pin de Fartie di Alejo Moguillansky e, soprattutto, Funeral Casino Blues di Roderick Warich.
Quest’ultimo, vero outsider della selezione, si è distinto per l’intensità melodrammatica, la struttura narrativa in costante mutamento e un inconfondibile spirito cinefilo, ricco di omaggi e riferimenti ai grandi film del passato. Diviso in tre capitoli, il film segue la storia di Jen, una receptionist a Bangkok che, per sostenere economicamente la propria famiglia, si offre come “fidanzata a noleggio” per visitatori stranieri di passaggio in città. Quando uno di questi incontri si trasforma in violenza, Jen viene salvata da Wason, un barista sommerso dai debiti, con cui instaura un legame delicato. Ma all’improvviso, Jen scompare nel nulla. Insieme alla sua coinquilina Pim, Wason intraprende una ricerca che li conduce dalle ombre di Bangkok fino al confine con la Cambogia.
Quello che inizia come un melodramma classico si trasforma gradualmente in un sogno/incubo lynchiano, dove Twin Peaks diviene un riferimento esplicito, intrecciato a elementi del folklore thailandese legato ai fantasmi. Il risultato è un universo narrativo perturbante, in cui il confine tra realtà e illusione si fa sempre più sottile, e la storia assume i contorni febbrili di una visione sospesa tra memoria, perdita e apparizione.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Roderick Warich per parlare del suo legame con la Thailandia, dei numerosi omaggi cinematografici che attraversano la sua opera e degli elementi chiave di Funeral Casino Blues, tra cui la costante presenza della musica e il potente linguaggio visivo del film.

Il team di Funeral Casino Blues (2025) con Alberto Barbera al Festival di Venezia
Come ti sei sentito nel tornare alla Mostra del Cinema di Venezia? Eri già stato qui qualche anno fa, giusto?
In realtà dieci anni fa. Non ero presente quando è stato presentato il film che ho scritto insieme a Timm Kröger (The Universal Theory, 2023), ero a Bangkok in quel periodo, stavo preparando Funeral Casino Blues. Avevo pensato di concentrarmi un po’ sulla regia laggiù, invece di venire solo come co-sceneggiatore. Ma è bello essere tornato. Devo ammettere che sono un po’… non direi che ho ansia sociale, sarebbe esagerato, ma c’è tanta gente. E non mi sento proprio a mio agio tra le folle.
Hai lavorato sia come sceneggiatore che come regista. E hai appena detto che ora vuoi concentrarti di più sulla regia?
Sì, iniziare come sceneggiatore è stato un modo per entrare nel settore senza bisogno di grossi investimenti. Puoi scrivere in qualsiasi momento, e l’unica persona che sfrutti sei te stesso. È così che ho pensato di iniziare, anche perché non avevo alcun contatto nell’ambiente. Ma questo significa anche che devi lavorare molto più duramente degli altri, perché se non conosci nessuno, devi essere davvero bravo. Poi, in un certo senso, sono rimasto bloccato in quella posizione. Durante la scuola di cinema lavoravo a dei cortometraggi e ho provato a ri-iscrivermi come regista, ma mi hanno detto “No, grazie”. Che, a dire il vero, adesso mi fa anche un certo effetto, perché proprio ieri ho incontrato uno dei tutor e gliel’ho detto. È stato un po’ gratificante, sì. Anche se quelli che hanno preso quella decisione non ci sono più, erano anziani. Quindi non è proprio una vendetta se non c’è più nessuno a cui dimostrarlo. Però comunque, fanculo l’istituzione. Poi ho scritto per Timm e Sandra Wollner, i progetti più importanti sono stati The Trouble with Being Born (2018) e… non ricordo il titolo inglese del primo. In tedesco era Der Rat der Vögel.
The Council of Birds. Era a Venezia nel 2014, giusto?
Esatto. E poi l’ultimo che abbiamo fatto, credo che il titolo inglese fosse The Theory of Everything.
Ma ora si chiama The Universal Theory, perché c’è già il film di James Marsh, quello su Stephen Hawking.
Sì, l’avevo detto a Timm all’epoca. Ma voglio dire, non è che qualcuno abbia il copyright su “la teoria del tutto”. Se cerchi su Wikipedia, è solo un concetto. Pazienza. Comunque, prima di quello, avevo fatto un film subito dopo la scuola. Era auto-finanziato, tenuto insieme con dei chewing gum, praticamente. Però ha aperto qualche porta e ha aiutato a finanziare questo nuovo progetto. L’ho realizzato con una casa di produzione che ho co-fondato con un amico, Dominik Rockermeyer. Abbiamo fondato insieme 2557 Films, e anche il nostro primo film l’abbiamo fatto così. Contemporaneamente, Viktoria Stolper, che aveva prodotto gli altri film con Timm e Sandra, ha avviato una nuova società con loro. Ora ci sono due società: The Barricades e 2557 Films. E io faccio parte di entrambe. Quindi sì, forse ora è un po’ più facile parlare con le produzioni. Ma comunque bisogna trovare i finanziamenti. E in Europa il tipo di cinema che ci interessa è ancora difficile da vendere…a volte.

Hai girato questo film a Bangkok, ma anche il precedente, 2557 (2017). Cosa ti attira di questo luogo? Le persone? La città stessa?
È un po’ tutto, in realtà. Con 2557, il punto di partenza era piuttosto personale; Dominik, il mio collaboratore, è da tempo in una relazione con una donna thailandese. Siamo entrambi grandi fan del cinema di Hong Kong, e a un certo punto ci siamo detti: facciamo qualcosa di piccolo, quasi come un esperimento. Oggi, con le videocamere digitali, nessuno può davvero impedirti di girare un film, soprattutto se è a basso budget. E proprio perché avevamo pochissimi soldi, il linguaggio visivo è diventato un modo per aggirare i limiti. Alcune scelte estetiche ti aiutano a far sembrare qualcosa più grande di quello che è. In 2557, la narrazione visiva, e non voglio dire “linguaggio cinematografico” in modo pretenzioso, ma l’atmosfera, il tono, hanno sostenuto il film più del dialogo o della trama tradizionale. Molte cose sono rimaste non dette, non solo per il budget, ma anche per l’ambiente in cui lavoravamo. Non è stato un film facile da realizzare. Ma al di là di questo, mi piacciono molto le persone. Mi interessano e sono attratto dalla vita rurale, dalle mentalità operaie, da quello spirito combattivo. E tematicamente, mi affascina anche l’intersezione tra tardo capitalismo e spiritualità. So che “tardo capitalismo” è un termine abusato, dopo Mark Fisher quel discorso è stato sviscerato in ogni modo, ma resta qualcosa di reale in quell’incontro. Ti faccio un esempio che cito spesso, a Bangkok vedi questi grattacieli futuristici, tipo Blade Runner (1982), e proprio davanti, ci sono queste piccole case degli spiriti. La gente lascia bottiglie di Fanta rossa per gli spiriti locali. Quella coesistenza tra ultramodernità e credenze antiche, profondamente radicate, non la trovi dappertutto. E poi c’è la posizione storica unica della Thailandia. A differenza di altri paesi del Sud-est asiatico, la Thailandia non è mai stata colonizzata, ha mantenuto la sua indipendenza all’interno di un contesto coloniale. Quindi non vedi lo stesso tipo di influenza occidentale che trovi, ad esempio, in Vietnam con i resti della colonizzazione francese. Questo dà al luogo una dinamica culturale davvero unica, soprattutto quando le persone provenienti dall’Europa o dall’Occidente entrano in contatto con essa. E quel contatto… può essere complicato. C’è di tutto; da chi va lì per drogarsi o “ritrovare se stesso spiritualmente” - cosa che, onestamente, forse non è proprio l’idea migliore - al lato più oscuro, come il turismo sessuale. Ogni volta che questi due mondi si incontrano, c’è attrito. C’è tensione. E quella scintilla tra culture mi interessa moltissimo. Allo stesso tempo, penso che troppi registi europei raccontino solo quanto è incasinato l’Occidente, ma mettendo in scena solo personaggi occidentali. Qualcuno online l’ha chiamato “nichilismo in smoking”, sai, quel genere eat the rich, dove si prende in giro l’élite ma alla fine si fanno film per l’élite. Io volevo fare qualcosa di diverso. Un film che rappresentasse davvero le persone della classe lavoratrice, non solo in Occidente, ma a livello globale.
Il tuo film è diviso in tre capitoli. È interessante che ognuno abbia una distinzione visiva e narrativa rispetto agli altri. Come hai strutturato il film usando queste tre parti?
Sono sempre stato interessato a "passare del tempo con i personaggi". Non lo chiamerei proprio “slow cinema”, non è Tsai Ming-liang, ma quell’influenza si sente sicuramente nel film. Diciamo che ha più l’atmosfera di un hangout movie all’americana. Ma per spiegare bene come l’ho strutturato, devo parlare dei riferimenti, non perché citi film in modo diretto, ma perché quei film rappresentano il linguaggio con cui penso. Ce li ho dentro, e quando cerco di raccontare una certa storia, far riferimento a loro è il modo più veloce per esprimere un tono o un’intenzione. Quindi, il primo capitolo è decisamente un hangout movie. Si ispira all’idea di film “da compagnia” di Tarantino, ma anche a Dazed and Confused (1993) di Richard Linklater. E ovviamente al modo in cui Wong Kar-wai "sta" con i suoi personaggi, semplicemente passando del tempo con loro. C’è anche una forte influenza di Hou Hsiao-hsien, soprattutto Millennium Mambo (2001).
L’ho pensato anch’io, soprattutto nella scena del club. Jen mi ricordava un po’ il personaggio di Shu Qi in Millennium Mambo.
Shu Qi in Millennium Mambo c’è sicuramente, è un riferimento diretto. Onestamente, è una delle poche persone con cui vorrei davvero farmi un selfie, se la vedessi qui al Festival. Ma sì, quel film, e anche Goodbye South, Goodbye (1996), i film più urbani e moderni di Hou Hsiao-hsien, non quelli rurali tipo Dust in the Wind, sono riferimenti fondamentali per me. E naturalmente tutta la Taiwanese New Wave, come i primi film di Edward Yang o Rebels of the Neon God (1992) di Tsai. Tutti quei film dove si sta insieme ai personaggi, c’è realismo sociale ma anche una forte estetica visiva ed emotiva. La prima parte di Funeral Casino Blues è influenzata anche da film come The Long Goodbye (1973) di Robert Altman o Fat City (1972) di John Huston, ma poi il tutto è mescolato con tanti altri elementi. Quindi sì, il primo capitolo è una specie di melodramma asiatico che incontra l’energia del cinema indipendente americano degli anni ’70 o ’90. E, ovviamente, anche il cinema di Hong Kong.
Stavo per dirlo, si sente chiaramente anche quello.
Il cinema di Hong Kong è come il DNA di tutto quello che faccio. È sempre lì sotto, a livello strutturale ed emotivo, fa parte delle fondamenta.
E il titolo, Funeral Casino Blues, è magari un riferimento velato a Peking Opera Blues (1986)? Un mio collega ha anche notato che ci sono tanti film che finiscono con “blues”.
Potrebbe essere un’ispirazione subconscia. Ma sinceramente, “Funeral Casino” da solo suonava troppo come un film horror o un’opera d’arte concettuale, tipo Under the Skin (2013) o qualcosa di più astratto, e questo film non lo è. Aggiungere “Blues” gli ha dato quell’atmosfera da hangout, gli ha aggiunto un tocco umano, un senso di ritmo e malinconia. Inoltre, stavo riguardando Cowboy Bebop, dove ci sono tanti episodi che finiscono con “blues”. Quindi sì, sì è un po’ formato tutto insieme. Il secondo capitolo, direi, ha un tono diverso. È più psicologico. Le grandi ispirazioni lì sono la Trilogia dell’appartamento di Polanski, e sicuramente Perfect Blue (1997) di Satoshi Kon, anche se voglio essere chiaro: non lo sto copiando. Ma l’influenza di Kon è enorme. E poi, quando ci spostiamo in campagna, cambiamo di nuovo tono, verso un realismo sociale, con tracce dei primi lavori di Terrence Malick. Ci sono anche sequenze oniriche, da sogno. Ma nel profondo, quella parte è ancora radicata nella realtà, solo vista attraverso una lente poetica. Il terzo capitolo, invece, ci porta in qualcosa di più spettrale. C’è un elemento soprannaturale.

Wason (Wason Dokkathum) e Jen (Jutamat Lamoon) in Funeral Casino Blues (2025)
Il personaggio è intrappolato, e questo richiama chiaramente Twin Peaks, soprattutto la Black Lodge, quell’idea di essere bloccati in uno spazio psicologico o metafisico.
Sì, c’entra qualcosa con quello, ma anche con il luogo in cui è intrappolata. Non voglio dire troppo per non rovinare la visione, ma sì, quel posto dove lei resta bloccata diventa un simbolo. Rappresenta una specie di purgatorio capitalistico, l’essere intrappolati nello stesso hotel in cui prima lavoravi come sex worker. È l’inferno da cui non riesce a uscire. Forse è perché ho letto troppo Murakami - nei suoi romanzi c’è sempre una donna bloccata in un hotel, o una che scompare. E quell’idea di assenza, di sparizione, mi è sempre rimasta. Quando avevo circa 14 anni ho visto L’Avventura (1960) di Antonioni, e mi ha colpito tantissimo. Probabilmente perché ero un adolescente un po’ pretenzioso (il regista ride n.d.r.), ma quel tema dell’assenza mi ha segnato. È qualcosa a cui penso ancora. Quindi sì, forse è un’influenza più grande di quanto mi renda conto, questo motivo antonioniano delle persone che spariscono. Ma mi piace pensare che la mia versione sia un po’ più intrattenente.
Restando sul tema del mondo dei fantasmi, mi ha colpito molto come hai usato le inquadrature delle telecamere di sorveglianza nei primi due capitoli. All’inizio mi chiedevo cosa volessero dire, e poi, poco prima del terzo capitolo, vediamo la figura del fantasma, e tutto prende senso. L’ho trovata un’idea davvero originale.
Ultimamente penso molto al mondo in cui viviamo, dove tutto è filmato, continuamente. Ma la maggior parte di quelle riprese non viene mai vista. Immagini di sorveglianza, video medici… si vedono solo quando succede qualcosa di terribile. Oppure, all’opposto, quando un gatto fa qualcosa di divertente. Capisci cosa intendo? Quindi c’è qualcosa di intrinsecamente spettrale nelle immagini di sorveglianza. Siamo abituati a pensare che, quando vediamo riprese da telecamere di sicurezza o da dashcam, qualcosa di brutto stia per accadere. Quelle immagini sembrano una finestra su un altro strato di realtà, uno in cui la violenza è già presente, o sta per manifestarsi. Ecco perché, anche nelle scene romantiche dove tutto sembra sicuro, c’è questa sensazione latente di minaccia, come se qualcosa stesse osservando, e non finirà bene. Per me è anche un commento sul voyeurismo, che è molto presente nella storia. Il protagonista guida lei ai lavori come sex worker, e poi resta fuori, guardando le finestre. C’è un voyeurismo alla Hitchcock in tutto ciò, e abbiamo giocato molto con quell’idea, usando inquadrature alla Kuleshov, alternando POV e reazioni, per evocare quella tensione, quell’incertezza. E poi c’è l’idea che ci sia qualcun altro che osserva. Una presenza più grande. Non voglio dire “Dio” o “destino”, ma qualcosa di superiore che è consapevole di tutto. C’è una citazione di Cormac McCarthy, sto parafrasando, che dice qualcosa tipo “C’è qualcosa che osserva, e sa della tua esistenza.” È quella la sensazione che cercavamo. La prima volta che abbiamo usato il punto di vista della sorveglianza, era in realtà più comico, con i due personaggi seduti al piano di sotto a guardare verso l’alto. Sono curiosi di sapere cosa succede sopra, proprio come il pubblico. È un piccolo omaggio alle soap opera thailandesi, dove c’è questo vecchio cliché narrativo, slap and kiss, dove un uomo schiaffeggia una donna e poi la bacia. Per fortuna oggi quel tipo di narrazione sta sparendo. Ma noi l’abbiamo ribaltato, nella nostra versione, è lei che lo schiaffeggia, e poi lo bacia. Ma non lo mostriamo mai, perché il pubblico, come i personaggi al piano di sotto, se lo perde. Stavano guardando altrove. È una specie di meta-commento sullo spettatore e sul guardare.
Anche l’uso dei telefoni e dei dispositivi digitali nel film mi ha colpito molto. Mostri adesivi, loghi, interfacce… E spicca, perché oggi la maggior parte dei film evita di mostrare gli smartphone, oppure lo fa male. Nel tuo film invece sembrano parte integrante dell’atmosfera.
Credo che molti registi cerchino di aggirare il problema degli smartphone, perché sono un po’ deleteri per la narrazione, soprattutto nei thriller o nei misteri, dove avere accesso immediato alle informazioni può rovinare la tensione. Ma per me, questi dispositivi fanno talmente parte della nostra vita che devi affrontarli, o almeno riconoscerli. Noi abbiamo cercato di usarli in modo astratto, per far sì che il pubblico sentisse qualcosa, invece di limitarsi a elaborare informazioni. Invece del classico inserto dove qualcuno scrive un messaggio, abbiamo creato delle grafiche a tutto schermo, quasi come i cartelli del cinema muto. Paradossalmente, questo ha reso l’esperienza più immersiva, non meno. Perché ti fa riflettere su come comunichiamo oggi e su quanto possa essere alienante. Quando parli con qualcuno dal vivo, indossi una sorta di maschera sociale, fai una performance. Ma attraverso uno schermo, quella maschera diventa letterale. Interagisci con un’idea della persona, non con la persona. Quell’astrazione l’abbiamo visualizzata nel modo in cui abbiamo girato i messaggi sul telefono. Inoltre, non volevo mostrare i clienti occidentali, gli stranieri. Era importante mantenerli ambigui. Quindi abbiamo cambiato apposta gli attori che li interpretano, un po’ come fece William Friedkin in Cruising (1980), dove usava attori diversi per tenere incerta l’identità del killer. Quella confusione, quel confine sfocato dell’identità, rafforza il tema delle maschere. Anche il sex work è pieno di maschere, di ruoli, di proiezioni che gli altri ti impongono. E a un livello più ampio, credo che lo facciamo tutti continuamente, in questa società. Fingiamo che questi strumenti digitali siano estensioni di noi stessi, ma in realtà sono estensioni della Silicon Valley. Viviamo dentro un’illusione creata da loro. E volevo che il pubblico sentisse tutto questo. Mi sembra che per te sia stato così, ed è molto gratificante da sapere.
Mi piacerebbe ora parlare del modo in cui adoperi la musica. Non direi che la colonna sonora è “invadente”, ma c’è sicuramente molta musica, soprattutto sonorità ambient e underground, molto presenti. Era già nei tuoi piani dall’inizio, o è qualcosa che è emerso in fase di montaggio?
Era già nella sceneggiatura. C’era scritto letteralmente: “musica di sottofondo da qui fino al minuto 50.” In realtà, inizialmente doveva esserci ancora più musica di quella che è rimasta nel film. Oggi ho letto che Barrio Triste sarà proiettato al Festival di Venezia, e ha una colonna sonora di Arca, che è una delle mie musiciste preferite in assoluto. Quel film ha musica dall’inizio alla fine. Mi ha ricordato quello che Korine ha fatto con Baby Invasion (2024), o quello che fa Burial, creare un’atmosfera sonora totale. Mi affascina molto quella che chiamo la boiler roomification del cinema, cioè film che potrebbero quasi essere trasmessi durante un DJ set. Nel nostro caso, pensavo anche alla musica nei videogiochi, è ripetitiva, ma non annoia mai. Continuavo a pensare a Sátántangó (1994)...ma con il mondo sonoro di Shenmue, un vecchio videogioco di kung fu ambientato a Hong Kong.
Ora mi immagino Béla Tarr che dirige un adattamento di quel gioco.
Immagina un film di Béla Tarr proiettato nella Boiler Room, con DJ dal vivo (il regista scoppia a ridere n.d.r.).
Nei melodrammi, di solito c’è un unico tema musicale che viene ripetuto. In Funeral Casino Blues, invece, la colonna sonora cambia di continuo, soprattutto nella prima parte. Passa dal melodramma, al thriller, alla tensione. Quella varietà musicale per me ha aggiunto un ulteriore livello. Non direi “spirituale”, ma sicuramente ha aiutato a connettersi emotivamente con la storia. Come hai lavorato con il compositore? Hai dato indicazioni precise, o gli hai lasciato libertà?
Un po’ entrambe le cose. All’inizio abbiamo parlato del tipo di musica che volevo, anche se il film non era ancora girato. Abbiamo parlato molto di cinema asiatico. La prima cosa importante era: volevo delle melodie. Penso che oggi la musica nei film moderni tenda a essere troppo di sottofondo, piena di drone. Anche noi abbiamo dei droni, ma... non so, ormai non si sente più quella vibrazione alla Morricone, Badalamenti o Sakamoto, dove c’era una grande melodia che diventava il tema del film. E a me manca molto. Allo stesso tempo parlavamo anche di musica ambient, in particolare quella da videogiochi, che dovrebbe andare avanti all’infinito per creare atmosfera. Perché per me il mood è fondamentale, soprattutto lavorando ai confini del cinema commerciale. Ma se pensi alla musica, anche se è astratta, è sempre in qualche modo commerciale. Quelle distinzioni rigide tra “arthouse” e “commerciale” esistono più nel cinema che nella musica. Quindi parlavamo di grandi melodie, per invitare il pubblico dentro il mondo del film, per farlo “stare” lì. Lui ha creato circa 20 bozze, poi abbiamo parlato di cosa c’era di interessante in ognuna. È stato un processo di ping pong. La parte più difficile era trovare qualcosa di semplice, ma che non fosse ripetitivo. Una melodia che scorresse. Per le melodie principali, parlavamo più del vibe, dell’atmosfera e dell’orchestrazione, molta roba con sintetizzatori anni ‘80, per esempio. Il difficile era trovare suoni che non fossero troppo vicini alle influenze, che fossero abbastanza diversi da funzionare come qualcosa di autonomo. Ogni volta che ricevevo una bozza in cui percepivo che lui stava davvero sentendo quello che stava facendo, la inserivo subito nel film. E lui mi ha detto che, nella maggior parte dei casi, sceglievo proprio quelle che per lui erano più ispirate. Quindi arrivare a quel livello, in cui senti che è reale, è stato bellissimo.

Un'immagine dal film
E per quanto riguarda il lato visivo, hai lavorato nello stesso modo con il direttore della fotografia?
Sì, in effetti gli ho mandato un PDF, tipo un libro di 400 pagine con riferimenti fotografici. Abbiamo parlato anche di alcuni film specifici, ma ormai ci conosciamo da così tanto che lavoriamo in modo molto intuitivo. Quando cito riferimenti cinematografici può sembrare che ne parliamo tanto, ma in realtà no. Parliamo più di cose pratiche: quale lente usare, dove mettere la camera. La cosa più importante era trovare location con condizioni di luce adatte. A Bangkok il problema è che c’è troppa luce, ovunque vai, proietti un’ombra. E siccome volevamo usare il più possibile luce naturale, non per uno stile visivo specifico, ma per mantenere uno stile di lavoro da documentario, dovevamo trovare posti in cui fosse fattibile. Molte decisioni erano istintive. Ci chiedevamo “cosa serve a questa scena?” Non volevamo fare più del necessario. Non andavamo a caccia di reazioni facili, diciamo. Cercavamo di usare il minimo indispensabile, ma quanto basta. Non è minimalismo per il gusto del minimalismo. È più un "ragionarci bene”, se non serve fare tanto, allora non farlo. Parlavamo quindi soprattutto di lenti, di luce, di quanto potevamo avvicinarci agli attori. Il nostro direttore della fotografia (Roland Stuprich, n.d.r.) è molto bravo a illuminare, ma qui non l’abbiamo fatto davvero. La sua forza è anche leggere il corpo degli attori, soprattutto quando giri a mano. Ha questa capacità di anticipare i loro movimenti, come in una danza. Ecco, è questo il tipo di cose di cui parlavamo. Non eravamo troppo concettuali. Era più tipo: “Ok, siamo in questa location. Dove mettiamo la camera? Lì? Che lente usiamo? Quella? Ok, va bene.” E siccome lavoravamo anche con attori alla prima esperienza, non tutti, ma alcuni, non puoi andare troppo vicino. Ma allo stesso tempo, non puoi nemmeno andare troppo largo, perché voglio vedere i volti. Se usi una lente larga, finisci troppo vicino. Avevamo parlato anche di usare lenti lunghe, ma in una città caotica come Bangkok, gli attori si perdono nell’inquadratura. Non sei più vicino a loro. Quindi queste decisioni pratiche hanno davvero plasmato il modo in cui abbiamo girato le scene esterne.
Hai menzionato gli attori. Erano tutti non professionisti, giusto? Com’è stato lavorare con loro? Come li hai trovati?
In vari modi. La protagonista, Jutamat Lamoon, è arrivata da un casting aperto. Wason Dokkathum, che aveva già lavorato con 2557 Films, era amico del produttore Dominik. È stato lui a trovare anche l’attrice che interpreta Pim, tramite Instagram. Altri sono arrivati tramite amici di amici. Per esempio, il ragazzo che interpreta Iceman alla reception era in realtà il nostro produttore vendite. Mi sembrava accogliente, divertente, e pensavo potesse aiutare a mettere gli altri a proprio agio sul set, così l’abbiamo messo nella scena. Poi c’erano le ragazze della campagna, che erano amiche o parenti della compagna di Dominik. Lavorare con attori non professionisti è stato abbastanza semplice. Più sono giovani, o meglio, più sono cresciuti con i social, meno paura hanno della camera. È più facile oggi trovare persone con un’energia aperta e naturale rispetto a vent’anni fa. La sceneggiatura era scritta e strutturata, ovviamente, ma all’interno di ogni scena volevo che gli attori portassero le proprie idee e sensazioni. Chiedevo loro: “Cosa faresti in questa situazione? Come ti sentiresti?” E poi facevo un passo indietro. Come regista non-thailandese che scrive personaggi thailandesi, dovevo lasciare spazio perché fossero loro a insegnare qualcosa a me. Quindi la scrittura riguardava più la struttura; il lavoro sui personaggi è avvenuto in collaborazione. Soprattutto per le scene sui messaggi, spesso comunicavo le emozioni in modo informale, a volte mandando gif o video buffi, oppure spiegando cosa succede nella storia nei prossimi 15 minuti. Questo approccio ci ha aiutato a trovare il tono giusto.
Ci sono state grosse difficoltà durante le riprese?
Tante. Non posso elencarle tutte. Una grande è stato il caldo. Nella prima parte delle riprese faceva 42°C di notte, con umidità quasi al 100%. Condizioni durissime. Ma oltre a quello, la difficoltà era l’imprevedibilità. C’era sempre qualcosa che andava storto. E quando non hai molti soldi, devi trovare soluzioni. Qualcuno si ammala? Ok, non possiamo girare quella scena. È fondamentale? Posso combinarla con un’altra? Così mi ritrovavo alle 5 del mattino a riscrivere il piano di produzione, perché qualcuno non era disponibile. Nella seconda metà delle riprese era così ogni giorno. Se non hai soldi ma il tempo scorre, devi essere creativo. Devi. Ed è dura, perché la creatività non è solo narrativa, diventa risolvere problemi di produzione. A volte sembrava davvero che stessimo improvvisando tutto. Il film era preparato, ma non puoi pianificare tutto il caos. Devi buttarti in acqua e cercare di non affogare. Lasciarti guidare dal fiume.
È interessante, perché guardando il film non ho mai avuto l’impressione che fosse a basso budget. È ricco, sia visivamente che narrativamente. Quindi mi sorprende un po’ sentire tutto questo.
Sì, non mi piace parlare troppo del budget, perché può diventare o un punto di forza, o un ostacolo, a seconda di come lo percepisce il pubblico. Ma come dice Sean Baker, quando si fanno film a basso budget, spesso si finisce a raccontare due persone che parlano in una stanza. Ma non è obbligatorio. Se lavori con una troupe piccola e senza un apparato tecnico gigantesco, puoi essere flessibile. Per me, usare tanti attori e tante location, anche con pochi mezzi, arricchisce il film. Fa dimenticare che non avevamo soldi, che era l’obiettivo fin dall’inizio. E onestamente, non ho nessun interesse a fare un film con due persone che parlano in una stanza. Posso guardarlo, forse anche scriverlo. Ma come regista? Non mi interessa affatto.