INT-85
31.01.2025
Il 13 settembre del 2022, Masha Amini, giovane ragazza ventiduenne, fu arrestata dalla polizia morale iraniana con l’accusa di non aver indossato l’hijab (il velo islamico), non rispettando le norme governative. Dopo solo tre giorni, le autorità annunciarono la sua morte per via di un attacco cardiaco, notizia che insospettì l’opinione pubblica e che in seguito fù smentita da alcuni testimoni che avevano visto cosa era realmente accaduto a Masha. La Amini era stata aggredita violentemente dalle forze dell’ordine ed era deceduta a causa di un'emorragia cerebrale dovuta alle percosse subite. Una serie di proteste contro le autorità iraniane iniziarono poche ore dopo il tragico evento, inneggiando lo slogan Woman, Life, Freedom. Diversi artisti si unirono alla causa, tra cui l’attrice Taraneh Alidoosti, che fu detenuta in prigione per tre settimane. Insieme a lei, anche Jafar Panahi, Mostafa Al-Ahmad e Mohammad Rasoulof vennero arrestati dopo aver mostrato il loro supporto al movimento femminista, oltre ad aver siglato la petizione “Lay Down Your Arms” che condanna la violenza delle forze dell’ordine durante le proteste. I tre cineasti scontarono sei mesi nella Evin Prison, periodo nel quale Rasoulof conobbe diversi giovani che condivisero con lui diversi dettagli su come le autorità reprimevano violentemente le proteste politiche.
Nei mesi seguenti, Rasoulof giró clandestinamente il suo nuovo film, The Seed of the Sacred Fig, selezionato al Festival di Cannes 2024. Qualche settimana prima della première, l’avvocato del regista divulgò un comunicato nel quale annunciava che Rasoulof era stato condannato ad otto anni di prigione, alla fustigazione e al ritiro delle sue proprietà. Dopo meno di una settimana, Rasoulof rilasciò una dichiarazione nella quale condannava, ancora una volta, la tirannia e l'oppressione del Regime, annunciando che era riuscito a fuggire dall’Iran ed era in grado di partecipare alla presentazione mondiale della sua opera.
The Seed of the Sacred Fig analizza la dinamica di un piccolo nucleo famigliare dove il padre, Iman (Misagh Zare), è stato appena promosso come giudice istruttore presso il tribunale rivoluzionario di Teheran. Il pesante fardello di questa nuova carica e le costanti proteste nazionali creeranno un clima sempre più teso all’interno della famiglia. Sarà in seguito alla sparizione della sua pistola d’ordinanza che la paranoia di Iman diventerà incontrollabile, spingendo l’uomo a sospettare di sua moglie Najmeh (Shaila Golestank) e delle sue figlie Rezvan (Setareh Maleki) e Sana (Masha Rostami), costrette a “misure restrittive” sempre più severe, fino a quando la verità non salirà a galla.
Il film negli ultimi mesi ha ricevuto un serie di importanti riconoscimenti, tra cui un Premio Speciale al Festival di Cannes, tre nomination agli European Film Awards e la candidatura all’Oscar per Miglior Film straniero. The Seed of the Sacred Fig (Il seme del fico sacro) uscirà nelle sale italiane a partire dal 20 febbraio grazie a Lucky Red.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Mohammad Rasoulof, che ci ha raccontato delle origini del progetto, regalandoci una panoramica su come è riuscito a girare e completare il film e condividendo con noi alcuni aneddoti personali sulla sua “esperienza internazionale” degli ultimi mesi. Vogliamo inoltre ringraziare Iante Roach, interprete del regista, per il suo fondamentale contributo in questa intervista.
The Seed of the Sacred Fig (Il seme del fico sacro, 2024)
Avevi già in mente di girare questa storia prima delle proteste del 2022 o sono state proprio queste a spingerti a realizzare il film?
Nessuna delle due a dire il vero. Sono ormai diciannove anni che sono in contatto con la censura e le forze di sicurezza iraniane, come poliziotti, interrogatori, persecutori. Mi sono sempre chiesto “Cosa spinge queste persone a fare questo lavoro e ad appoggiare il Regime? Hanno qualche differenza biologica rispetto agli altri?”. Sono rimasto per anni senza una risposta ai miei quesiti, ma un giorno, quando ero in prigione durante il “picco” del movimento Woman, Life, Freedom, ho incontrato una guardia carceraria che mi ha raccontato in segreto la sua esperienza, di come si vergognava della sua esistenza per via di quello che aveva fatto e di come aveva contemplato più volte l’idea di togliersi la vita. I suoi stessi figli lo mettevano in questo costante stato di “pressione” perché non riuscivano a capire perché lavorasse per il Regime e il sistema carcerario. Ho pensato che questo fosse uno spunto interessante per raccontare le vicende di un nucleo famigliare, la cui esistenza viene condizionata dal lavoro del padre… e finalmente ho potuto analizzare quelle domande che avevo in testa da anni.
Nei tuoi film affronti sempre tematiche che ovviamente riflettono la contemporaneità iraniana, come l’oppressione del regime, il ruolo del patriarcato nella società e le più recenti proteste a seguito dell’uccisione di Masha Amini. A livello di sceneggiatura, mi ha colpito l’equilibrio con cui ha maneggiato ogni singola tematica, volevo chiederti del tuo processo di scrittura e del modo con cui hai integrato questi elementi vicini alla nostra realtà per creare un racconto di finzione.
Sono sempre stato affascinato dal mondo del documentario e, non a caso, il mio primo lungometraggio è un ibrido tra documentario e dramma. Ho sempre preso ispirazione da ciò che mi circonda, le mie esperienze personali entrano sempre in gioco. Sono grato che ti sia piaciuta la sceneggiatura, è il mio film più personale, rispecchia il travagliato vissuto che ho avuto per via della censura e del regime. Le scene presenti nel lungometraggio mi hanno impressionato, le immagini sono piuttosto crude e credo che siano state anche quelle a spingermi a continuare con questo lavoro. Mi sono ritrovato con tutti questi elementi a disposizione e ho avuto l’opportunità di creare un racconto dove esploro le tematiche che mi stanno più a cuore.
Il tuo cinema è sempre stato caratterizzato dalla presenza di forti metafore o allegorie, e credo ci sia stata un’evoluzione nel modo in cui le hai implementate nel corso della tua carriera. All’inizio queste erano più celate, mentre in The Seed of the Sacred Fig, il messaggio principale è piuttosto esplicito. Questo cambiamento riflette il tuo vissuto personale?
Esatto, credo che ci sia una forte correlazione con la mia vita. Ma allo stesso tempo, i miei primi film sono ispirati dalla poesia e dalla letteratura iraniana, due arti che sono state represse costantemente, le cui metafore erano adoperate come degli escamotage per esprimere determinati pensieri. Per questo i miei film sono pieni di allegorie, ma recentemente ho capito che le usavo per paura, perché ero pienamente conscio di quello che sarebbe successo se avessi detto le stesse cose in un’altra maniera. Ora però ho smesso di usare queste metafore e, nel caso mi fossero servite, queste non sarebbero comunque state dei device per scappare dalle mie paure. In The Seed of the Sacred Fig le metafore vengono adoperate in funzione della forma, non della narrativa, e sono un mezzo per esprimere la mia libertà artistica.
Le protagoniste femminili, Najmeh (Soheila Golestani), Rezvan (Masha Rostami) e Sana (Setareh Maleki), in una scena del film
Quando hai iniziato la tua carriera come regista, avevi già la consapevolezza che il cinema poteva essere considerato così pericoloso dal regime?
Non fino a questo punto, volevo essere solo un regista che avrebbe avuto un impatto sulla società.
In che senso?
Non volevo essere indifferente rispetto a ciò che mi circonda, i valori umani sono sempre stati importanti per me. Non ho mai voluto raccontare delle storie solo per "intrattenere" il pubblico. Già sapevo che il tipo di cinema in cui mi stavo imbarcando sarebbe stato di nicchia, per un’audience ristretta, ma non immaginavo che il regime avrebbe proiettato questa lunga ombra su di me e avrebbe ritenuto i miei film pericolosi.
Cosa significa fare un film “politico” in Iran? Riuscirai a fare lo stesso tipo di cinema sull’Iran anche fuori dalla Nazione?
Quando hai a che fare con un regime totalitarista l'aggettivo “politico” acquista un significato diverso, perché ogni cosa che si fa diventa una questione politica. Il Regime vuole controllare ogni aspetto della vita quotidiana e, per farti un esempio, già solo parlare del clima a Teheran è una questione politica. E lo stesso per i capelli delle donne, il loro colore e perfino cosa indossano. Tutto è politica. Se dovessi lavorare in circostanze più democratiche o dove ci sono meno restrizioni, la mia concezione di film politico cambierebbe e in futuro, se dovrò raccontare ancora dell’Iran, continuerò a girare film politici perché non mi è possibile fare altro, cercherò di realizzare film che sono in linea con la mia carriera. Ma in futuro vorrei concentrarmi anche su progetti che hanno uno scopo più ampio e che non riguardano per forza l’Iran.
The Seed of the Sacred Fig esplora anche il conflitto tra tradizione e modernità, il passato e il presente dell'Iran, come hai sviluppato questo aspetto all’interno del film? Mi viene in mente ad esempio la sequenza finale, ambientata tra queste rovine antiche, come se volessi mettere ancora più in risalto questo contrasto.
Alla base del film c’è questa spaccatura all’interno del nucleo familiare, ed io ero interessato ad analizzare le origini e le motivazioni dietro di essa. Ho voluto approfondire questo aspetto, studiare le diverse sfumature e ho capito che questo contrasto tra la modernità e l’islamismo sunnita ha sempre avuto un significato importante nella storia del Paese. Ho cercato di strutturare la dinamica familiare per rispecchiare la Storia iraniana. L’ultima parte segue, di fatto, queste due diverse linee temporali, e si può trovare una connessione attraverso il concetto di patriarcato. Ero interessato ad esplorare il suo impatto nella storia e nella società iraniana, ma allo stesso tempo volevo analizzare la vicenda di una famiglia e, più nello specifico, la situazione in cui si trova il personaggio di Iman. Il film mostra la scalata di quest’uomo nella gerarchia sociale, all’inizio si può capire che lavorava come guardia carceraria e che poi è diventato un interrogatore, un prosecutore ed infine un giudice. Quello che permette ad Iman questa evoluzione è la sua abilità nel sottomettersi al potere e all’ideologia del Regime. Per risaltare ancora di più il contrasto tra tradizione e modernità ho usato da una parte il simbolismo dietro alle rovine storiche (allegoria di un’antico, distrutto, ma comunque bellissimo, Iran) e dall’altra questo inseguimento costante tra Iman e il resto della famiglia, che è un ritratto della lotta continua per un cambiamento nella società.
Credi che le generazioni più giovani possano fare la differenza in Iran?
Questa generazione ha già portato grandi cambiamenti negli ultimi due anni, perché sono riusciti a “togliersi la maschera” che di solito bisogna indossare in un regime totalitarista. Devi sempre cercare di nascondere la tua identità per non avere problemi, ma ora le persone hanno smesso di fingere di essere chi non sono, e questo dimostra l'illegittimità del Regime. Questo comportamento è anche un forte messaggio per le generazioni passate, perché queste sono state sotto scacco per troppo tempo, ma oggi è chiaro quanto questa dittatura sia in fase discendente.
L’uso del colore in The Seed of the Sacred Fig (Il seme del fico sacro, 2024)
Ho notato che ogni volta che vediamo Iman nel film, c’è sempre un colore associato a lui, soprattutto il verde e il rosso, due tinte che hanno un significato specifico nella cultura islamica. All’inizio il verde prevale ma, con il proseguire del film, il rosso diventa sempre più costante. Cosa puoi dirmi di questa specifica scelta stilistica?
Questo è un punto molto interessante, perché la palette di colori che ho deciso di adoperare si basa sulla realtà in un certo senso. Il verde è un colore importante in Iran, è associato alla religione. All’inizio Iman si trova in questo santuario, e quello che vedi è una sfumatura di quel colore, che noi chiamiamo Sabz Sayyid, che significa “verde dei Sayyid”, ovvero coloro che discendono dal Profeta. Mentre la scelta di incorporare sempre più tinte rosse rispecchia la tensione emotiva e le sempre maggiori difficoltà all’interno della famiglia. Ho lavorato a lungo con il costumista e lo scenografo su questo aspetto, non volevamo allontanarci dalla realtà e usare queste sfumature in maniera simbolica, abbiamo semplicemente cercato di inserirle nella narrazione per avvicinarci alla realtà.
Il film ha avuto la sua première al Festival di Cannes e in questi mesi lo hai presentato ovunque nel mondo e hai vinto svariati premi. Come ti senti a vivere questa esperienza a contatto con l’industria cinematografica occidentale?
È una situazione complessa, perché mai mi sarei immaginato di dover affrontare una campagna pubblicitaria per gli Academy Awards, fare incontri con i votanti, partecipare alle proiezioni e altro... anche perché dentro di me ho sempre saputo che la Repubblica Islamica non avrebbe mai inviato i miei film a premi come gli Oscar. Negli ultimi mesi mi sono sentito catapultato in un mondo nuovo e sto imparando molto. Per dirti, trovo interessante il fatto che la Germania abbia scelto il film come rappresentante del Paese agli Oscar. Mi sono chiesto il perché non lo avessi fatto in precedenza, probabilmente ho sempre pensato a me stesso solo come iraniano. Tutto ciò è una fonte d’ispirazione, è un bellissimo gesto umano e spesso guardo i documenti che il governo tedesco mi ha donato, non è un passaporto ufficiale ovviamente, ma questo pezzo di carta mi ha regalato la possibilità di viaggiare per tutto il mondo in questa nuova fase della mia vita. Sono sicuro che il mio cinema farà lo stesso d’ora in avanti.
Ora stai vivendo liberamente in Germania, se non sbaglia ad Amburgo, come ti senti a riguardo?
Ti racconterò una storia per rispondere alla tua domanda. Nel 2005 avevo presentato il mio secondo lungometraggio all’ Hamburg Film Festival e mentre camminavo per le strade della città ho pensato che avrei potuto vivere in quel luogo (il regista ride, n.d.r.). Dopo qualche giorno ero andato in Turchia, ma siccome avevo ricevuto una chiamata dal festival perché avevo vinto un premio, sono dovuto ritornare in Germania. Stavo andando di fretta alla cerimonia perché ero in ritardo e, ad un certo punto, questa gentile signora mi ferma per dirmi che aveva apprezzato il mio film. Mi diede una mela verde e disse che l’aveva presa dal suo giardino (il regista ride, n.d.r.), non credo di dover raccontare il resto della storia… mi ritengo una persona fortunata.
Nella seconda parte di The Seed of the Sacred Fig, il film prende una svolta più verso il cinema di genere, cosa ti ha spinto ad intraprendere questa decisione?
Quando stavo scrivendo la sceneggiatura dentro di me ero piuttosto preoccupato, temevo che la stampa avrebbe distrutto il film… ed è proprio quello che i giornalisti iraniani stanno facendo in questo periodo. Ma ad un certo punto mi sono detto che se volevo così tanto la libertà nella vita di tutti giorni, dovevo cercare una certa libertà artistica dentro di me. Pensavo anche che non sarei mai riuscito a finire le riprese o a completare il film, quindi ho pensato che potevo divertirmi e sperimentare di più con la forma narrativa o i generi cinematografici.
Iman (Misagh Zareh) e Najmeh (Soheila Golestani)
Come hai gestito la fase delle riprese sapendo che non saresti stato presente fisicamente sul set per la maggior parte del tempo (il regista dirigeva il film dalla sua abitazione dal momento che si trovava agli arresti domiciliari n.d.r)? Conoscendo le restrizioni del regime, avevi in mente un’alternativa nel caso vi scoprissero?
Quasi tutti i miei film sono stati girati clandestinamente e con uno stile piuttosto underground, The Seed of the Sacred Fig più di tutti. Avevamo un piano preciso, la sceneggiatura era piuttosto dettagliata e abbiamo fatto tutto il possibile per rispettarla. Ma allo stesso tempo eravamo pronti nel caso ci sarebbero stati cambiamenti dell’ultimo minuto per via di terzi. Ci ho fatto l’abitudine e quando questo succede, un certo istinto creativo parte in me e cerca una soluzione rapidamente. A dire il vero, credo che questo approccio mi piaccia, quando qualcosa di inaspettato accade tutti entrano in confusione mente io sono del tipo “ma come?” (il regista scoppia a ridere, n.d.r.)
Come è avvenuta la fase di montaggio e di post production in Europa? Come hai coordinato il tutto sapendo che non saresti stato presente?
Quando abbiamo deciso di fare il film, sapevamo che alla fine di ogni giorno delle riprese avremmo dovuto nascondere ciò che avevamo girato e che la fase di montaggio doveva avvenire fuori dall’Iran. Montare il film lì sarebbe stato troppo rischioso. Ogni giorno inviavamo il materiale ad Andrew Bird, un montatore con cui avevo già collaborato in passato. Siccome le possibilità di completare le riprese erano piuttosto basse, non potevo stipulare contratti con nessuno, anche perché chi avrebbe accettato di lavorare a queste condizioni? Dal momento che non c’erano certezze, Jean-Christophe Simon (produttore e partner fondatore di Films Boutique, n.d.r.) e gli altri produttori in Germania hanno deciso di avere semplicemente fiducia in me… perché nessuno di noi era sicuro che sarei riuscito a terminare le riprese, dipendeva tutto dal completamento del film in poche parole. In questo accordo c’era anche il fatto che questo progetto doveva rimanere segreto e che non dovevano circolare notizie a riguardo per questioni di sicurezza. Ho avvisato Andrew che le riprese avrebbero potuto non avere un termine, ma nonostante ciò lui mi ha detto che avrebbe comunque lavorato al progetto. Aveva capito sin da subito la situazione vista la nostra collaborazione passata, ma nutrivo comunque qualche dubbio, soprattutto per la barriera linguistica che ci divide, e continuavo a chiedermi come avrebbe montato il film. Terminate le riprese gli inviai subito il materiale, lui iniziò subito a montarlo e, dopo una decina di giorni, mi fece vedere una sequenza. In quel momento ho capito che era la persona adatta per questo lavoro. In seguito gli ho chiesto come avesse fatto, lui rispose che non lo sapeva e scoppiò a ridere. Quando mi comunicarono della sentenza emessa contro di me mi misi in contatto con Andrew, gli dissi che dovevo lasciare l’Iran e che da quel momento non sarei più riuscito a parlare con lui. In quel momento il film era a buon punto, avevamo già una rough cut, ma gli ho ricordato che, qualunque cosa fosse successa, il mio lavoro era nelle sue mani e doveva terminarlo.
Vorrei concludere questa piacevole conversazione chiedendoti se, tra tutte queste presentazioni in giro per il mondo, c’è qualche aneddoto particolare che vorresti condividere.
Il momento più sorprendente è avvenuto forse durante un Q&A negli Stati Uniti, questa signora si avvicina a me con grande convinzione e mi dice “Penso che il padre avesse ragione. Perché le sue figlie non l’hanno ascoltato? Tutto quello che fa è per loro e per l’amore che ha verso la propria famiglia”.
Il trailer di The Seed of the Sacred Fig (Il seme del fico sacro, 2024)
INT-85
31.01.2025
Il 13 settembre del 2022, Masha Amini, giovane ragazza ventiduenne, fu arrestata dalla polizia morale iraniana con l’accusa di non aver indossato l’hijab (il velo islamico), non rispettando le norme governative. Dopo solo tre giorni, le autorità annunciarono la sua morte per via di un attacco cardiaco, notizia che insospettì l’opinione pubblica e che in seguito fù smentita da alcuni testimoni che avevano visto cosa era realmente accaduto a Masha. La Amini era stata aggredita violentemente dalle forze dell’ordine ed era deceduta a causa di un'emorragia cerebrale dovuta alle percosse subite. Una serie di proteste contro le autorità iraniane iniziarono poche ore dopo il tragico evento, inneggiando lo slogan Woman, Life, Freedom. Diversi artisti si unirono alla causa, tra cui l’attrice Taraneh Alidoosti, che fu detenuta in prigione per tre settimane. Insieme a lei, anche Jafar Panahi, Mostafa Al-Ahmad e Mohammad Rasoulof vennero arrestati dopo aver mostrato il loro supporto al movimento femminista, oltre ad aver siglato la petizione “Lay Down Your Arms” che condanna la violenza delle forze dell’ordine durante le proteste. I tre cineasti scontarono sei mesi nella Evin Prison, periodo nel quale Rasoulof conobbe diversi giovani che condivisero con lui diversi dettagli su come le autorità reprimevano violentemente le proteste politiche.
Nei mesi seguenti, Rasoulof giró clandestinamente il suo nuovo film, The Seed of the Sacred Fig, selezionato al Festival di Cannes 2024. Qualche settimana prima della première, l’avvocato del regista divulgò un comunicato nel quale annunciava che Rasoulof era stato condannato ad otto anni di prigione, alla fustigazione e al ritiro delle sue proprietà. Dopo meno di una settimana, Rasoulof rilasciò una dichiarazione nella quale condannava, ancora una volta, la tirannia e l'oppressione del Regime, annunciando che era riuscito a fuggire dall’Iran ed era in grado di partecipare alla presentazione mondiale della sua opera.
The Seed of the Sacred Fig analizza la dinamica di un piccolo nucleo famigliare dove il padre, Iman (Misagh Zare), è stato appena promosso come giudice istruttore presso il tribunale rivoluzionario di Teheran. Il pesante fardello di questa nuova carica e le costanti proteste nazionali creeranno un clima sempre più teso all’interno della famiglia. Sarà in seguito alla sparizione della sua pistola d’ordinanza che la paranoia di Iman diventerà incontrollabile, spingendo l’uomo a sospettare di sua moglie Najmeh (Shaila Golestank) e delle sue figlie Rezvan (Setareh Maleki) e Sana (Masha Rostami), costrette a “misure restrittive” sempre più severe, fino a quando la verità non salirà a galla.
Il film negli ultimi mesi ha ricevuto un serie di importanti riconoscimenti, tra cui un Premio Speciale al Festival di Cannes, tre nomination agli European Film Awards e la candidatura all’Oscar per Miglior Film straniero. The Seed of the Sacred Fig (Il seme del fico sacro) uscirà nelle sale italiane a partire dal 20 febbraio grazie a Lucky Red.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Mohammad Rasoulof, che ci ha raccontato delle origini del progetto, regalandoci una panoramica su come è riuscito a girare e completare il film e condividendo con noi alcuni aneddoti personali sulla sua “esperienza internazionale” degli ultimi mesi. Vogliamo inoltre ringraziare Iante Roach, interprete del regista, per il suo fondamentale contributo in questa intervista.
The Seed of the Sacred Fig (Il seme del fico sacro, 2024)
Avevi già in mente di girare questa storia prima delle proteste del 2022 o sono state proprio queste a spingerti a realizzare il film?
Nessuna delle due a dire il vero. Sono ormai diciannove anni che sono in contatto con la censura e le forze di sicurezza iraniane, come poliziotti, interrogatori, persecutori. Mi sono sempre chiesto “Cosa spinge queste persone a fare questo lavoro e ad appoggiare il Regime? Hanno qualche differenza biologica rispetto agli altri?”. Sono rimasto per anni senza una risposta ai miei quesiti, ma un giorno, quando ero in prigione durante il “picco” del movimento Woman, Life, Freedom, ho incontrato una guardia carceraria che mi ha raccontato in segreto la sua esperienza, di come si vergognava della sua esistenza per via di quello che aveva fatto e di come aveva contemplato più volte l’idea di togliersi la vita. I suoi stessi figli lo mettevano in questo costante stato di “pressione” perché non riuscivano a capire perché lavorasse per il Regime e il sistema carcerario. Ho pensato che questo fosse uno spunto interessante per raccontare le vicende di un nucleo famigliare, la cui esistenza viene condizionata dal lavoro del padre… e finalmente ho potuto analizzare quelle domande che avevo in testa da anni.
Nei tuoi film affronti sempre tematiche che ovviamente riflettono la contemporaneità iraniana, come l’oppressione del regime, il ruolo del patriarcato nella società e le più recenti proteste a seguito dell’uccisione di Masha Amini. A livello di sceneggiatura, mi ha colpito l’equilibrio con cui ha maneggiato ogni singola tematica, volevo chiederti del tuo processo di scrittura e del modo con cui hai integrato questi elementi vicini alla nostra realtà per creare un racconto di finzione.
Sono sempre stato affascinato dal mondo del documentario e, non a caso, il mio primo lungometraggio è un ibrido tra documentario e dramma. Ho sempre preso ispirazione da ciò che mi circonda, le mie esperienze personali entrano sempre in gioco. Sono grato che ti sia piaciuta la sceneggiatura, è il mio film più personale, rispecchia il travagliato vissuto che ho avuto per via della censura e del regime. Le scene presenti nel lungometraggio mi hanno impressionato, le immagini sono piuttosto crude e credo che siano state anche quelle a spingermi a continuare con questo lavoro. Mi sono ritrovato con tutti questi elementi a disposizione e ho avuto l’opportunità di creare un racconto dove esploro le tematiche che mi stanno più a cuore.
Il tuo cinema è sempre stato caratterizzato dalla presenza di forti metafore o allegorie, e credo ci sia stata un’evoluzione nel modo in cui le hai implementate nel corso della tua carriera. All’inizio queste erano più celate, mentre in The Seed of the Sacred Fig, il messaggio principale è piuttosto esplicito. Questo cambiamento riflette il tuo vissuto personale?
Esatto, credo che ci sia una forte correlazione con la mia vita. Ma allo stesso tempo, i miei primi film sono ispirati dalla poesia e dalla letteratura iraniana, due arti che sono state represse costantemente, le cui metafore erano adoperate come degli escamotage per esprimere determinati pensieri. Per questo i miei film sono pieni di allegorie, ma recentemente ho capito che le usavo per paura, perché ero pienamente conscio di quello che sarebbe successo se avessi detto le stesse cose in un’altra maniera. Ora però ho smesso di usare queste metafore e, nel caso mi fossero servite, queste non sarebbero comunque state dei device per scappare dalle mie paure. In The Seed of the Sacred Fig le metafore vengono adoperate in funzione della forma, non della narrativa, e sono un mezzo per esprimere la mia libertà artistica.
Le protagoniste femminili, Najmeh (Soheila Golestani), Rezvan (Masha Rostami) e Sana (Setareh Maleki), in una scena del film
Quando hai iniziato la tua carriera come regista, avevi già la consapevolezza che il cinema poteva essere considerato così pericoloso dal regime?
Non fino a questo punto, volevo essere solo un regista che avrebbe avuto un impatto sulla società.
In che senso?
Non volevo essere indifferente rispetto a ciò che mi circonda, i valori umani sono sempre stati importanti per me. Non ho mai voluto raccontare delle storie solo per "intrattenere" il pubblico. Già sapevo che il tipo di cinema in cui mi stavo imbarcando sarebbe stato di nicchia, per un’audience ristretta, ma non immaginavo che il regime avrebbe proiettato questa lunga ombra su di me e avrebbe ritenuto i miei film pericolosi.
Cosa significa fare un film “politico” in Iran? Riuscirai a fare lo stesso tipo di cinema sull’Iran anche fuori dalla Nazione?
Quando hai a che fare con un regime totalitarista l'aggettivo “politico” acquista un significato diverso, perché ogni cosa che si fa diventa una questione politica. Il Regime vuole controllare ogni aspetto della vita quotidiana e, per farti un esempio, già solo parlare del clima a Teheran è una questione politica. E lo stesso per i capelli delle donne, il loro colore e perfino cosa indossano. Tutto è politica. Se dovessi lavorare in circostanze più democratiche o dove ci sono meno restrizioni, la mia concezione di film politico cambierebbe e in futuro, se dovrò raccontare ancora dell’Iran, continuerò a girare film politici perché non mi è possibile fare altro, cercherò di realizzare film che sono in linea con la mia carriera. Ma in futuro vorrei concentrarmi anche su progetti che hanno uno scopo più ampio e che non riguardano per forza l’Iran.
The Seed of the Sacred Fig esplora anche il conflitto tra tradizione e modernità, il passato e il presente dell'Iran, come hai sviluppato questo aspetto all’interno del film? Mi viene in mente ad esempio la sequenza finale, ambientata tra queste rovine antiche, come se volessi mettere ancora più in risalto questo contrasto.
Alla base del film c’è questa spaccatura all’interno del nucleo familiare, ed io ero interessato ad analizzare le origini e le motivazioni dietro di essa. Ho voluto approfondire questo aspetto, studiare le diverse sfumature e ho capito che questo contrasto tra la modernità e l’islamismo sunnita ha sempre avuto un significato importante nella storia del Paese. Ho cercato di strutturare la dinamica familiare per rispecchiare la Storia iraniana. L’ultima parte segue, di fatto, queste due diverse linee temporali, e si può trovare una connessione attraverso il concetto di patriarcato. Ero interessato ad esplorare il suo impatto nella storia e nella società iraniana, ma allo stesso tempo volevo analizzare la vicenda di una famiglia e, più nello specifico, la situazione in cui si trova il personaggio di Iman. Il film mostra la scalata di quest’uomo nella gerarchia sociale, all’inizio si può capire che lavorava come guardia carceraria e che poi è diventato un interrogatore, un prosecutore ed infine un giudice. Quello che permette ad Iman questa evoluzione è la sua abilità nel sottomettersi al potere e all’ideologia del Regime. Per risaltare ancora di più il contrasto tra tradizione e modernità ho usato da una parte il simbolismo dietro alle rovine storiche (allegoria di un’antico, distrutto, ma comunque bellissimo, Iran) e dall’altra questo inseguimento costante tra Iman e il resto della famiglia, che è un ritratto della lotta continua per un cambiamento nella società.
Credi che le generazioni più giovani possano fare la differenza in Iran?
Questa generazione ha già portato grandi cambiamenti negli ultimi due anni, perché sono riusciti a “togliersi la maschera” che di solito bisogna indossare in un regime totalitarista. Devi sempre cercare di nascondere la tua identità per non avere problemi, ma ora le persone hanno smesso di fingere di essere chi non sono, e questo dimostra l'illegittimità del Regime. Questo comportamento è anche un forte messaggio per le generazioni passate, perché queste sono state sotto scacco per troppo tempo, ma oggi è chiaro quanto questa dittatura sia in fase discendente.
L’uso del colore in The Seed of the Sacred Fig (Il seme del fico sacro, 2024)
Ho notato che ogni volta che vediamo Iman nel film, c’è sempre un colore associato a lui, soprattutto il verde e il rosso, due tinte che hanno un significato specifico nella cultura islamica. All’inizio il verde prevale ma, con il proseguire del film, il rosso diventa sempre più costante. Cosa puoi dirmi di questa specifica scelta stilistica?
Questo è un punto molto interessante, perché la palette di colori che ho deciso di adoperare si basa sulla realtà in un certo senso. Il verde è un colore importante in Iran, è associato alla religione. All’inizio Iman si trova in questo santuario, e quello che vedi è una sfumatura di quel colore, che noi chiamiamo Sabz Sayyid, che significa “verde dei Sayyid”, ovvero coloro che discendono dal Profeta. Mentre la scelta di incorporare sempre più tinte rosse rispecchia la tensione emotiva e le sempre maggiori difficoltà all’interno della famiglia. Ho lavorato a lungo con il costumista e lo scenografo su questo aspetto, non volevamo allontanarci dalla realtà e usare queste sfumature in maniera simbolica, abbiamo semplicemente cercato di inserirle nella narrazione per avvicinarci alla realtà.
Il film ha avuto la sua première al Festival di Cannes e in questi mesi lo hai presentato ovunque nel mondo e hai vinto svariati premi. Come ti senti a vivere questa esperienza a contatto con l’industria cinematografica occidentale?
È una situazione complessa, perché mai mi sarei immaginato di dover affrontare una campagna pubblicitaria per gli Academy Awards, fare incontri con i votanti, partecipare alle proiezioni e altro... anche perché dentro di me ho sempre saputo che la Repubblica Islamica non avrebbe mai inviato i miei film a premi come gli Oscar. Negli ultimi mesi mi sono sentito catapultato in un mondo nuovo e sto imparando molto. Per dirti, trovo interessante il fatto che la Germania abbia scelto il film come rappresentante del Paese agli Oscar. Mi sono chiesto il perché non lo avessi fatto in precedenza, probabilmente ho sempre pensato a me stesso solo come iraniano. Tutto ciò è una fonte d’ispirazione, è un bellissimo gesto umano e spesso guardo i documenti che il governo tedesco mi ha donato, non è un passaporto ufficiale ovviamente, ma questo pezzo di carta mi ha regalato la possibilità di viaggiare per tutto il mondo in questa nuova fase della mia vita. Sono sicuro che il mio cinema farà lo stesso d’ora in avanti.
Ora stai vivendo liberamente in Germania, se non sbaglia ad Amburgo, come ti senti a riguardo?
Ti racconterò una storia per rispondere alla tua domanda. Nel 2005 avevo presentato il mio secondo lungometraggio all’ Hamburg Film Festival e mentre camminavo per le strade della città ho pensato che avrei potuto vivere in quel luogo (il regista ride, n.d.r.). Dopo qualche giorno ero andato in Turchia, ma siccome avevo ricevuto una chiamata dal festival perché avevo vinto un premio, sono dovuto ritornare in Germania. Stavo andando di fretta alla cerimonia perché ero in ritardo e, ad un certo punto, questa gentile signora mi ferma per dirmi che aveva apprezzato il mio film. Mi diede una mela verde e disse che l’aveva presa dal suo giardino (il regista ride, n.d.r.), non credo di dover raccontare il resto della storia… mi ritengo una persona fortunata.
Nella seconda parte di The Seed of the Sacred Fig, il film prende una svolta più verso il cinema di genere, cosa ti ha spinto ad intraprendere questa decisione?
Quando stavo scrivendo la sceneggiatura dentro di me ero piuttosto preoccupato, temevo che la stampa avrebbe distrutto il film… ed è proprio quello che i giornalisti iraniani stanno facendo in questo periodo. Ma ad un certo punto mi sono detto che se volevo così tanto la libertà nella vita di tutti giorni, dovevo cercare una certa libertà artistica dentro di me. Pensavo anche che non sarei mai riuscito a finire le riprese o a completare il film, quindi ho pensato che potevo divertirmi e sperimentare di più con la forma narrativa o i generi cinematografici.
Iman (Misagh Zareh) e Najmeh (Soheila Golestani)
Come hai gestito la fase delle riprese sapendo che non saresti stato presente fisicamente sul set per la maggior parte del tempo (il regista dirigeva il film dalla sua abitazione dal momento che si trovava agli arresti domiciliari n.d.r)? Conoscendo le restrizioni del regime, avevi in mente un’alternativa nel caso vi scoprissero?
Quasi tutti i miei film sono stati girati clandestinamente e con uno stile piuttosto underground, The Seed of the Sacred Fig più di tutti. Avevamo un piano preciso, la sceneggiatura era piuttosto dettagliata e abbiamo fatto tutto il possibile per rispettarla. Ma allo stesso tempo eravamo pronti nel caso ci sarebbero stati cambiamenti dell’ultimo minuto per via di terzi. Ci ho fatto l’abitudine e quando questo succede, un certo istinto creativo parte in me e cerca una soluzione rapidamente. A dire il vero, credo che questo approccio mi piaccia, quando qualcosa di inaspettato accade tutti entrano in confusione mente io sono del tipo “ma come?” (il regista scoppia a ridere, n.d.r.)
Come è avvenuta la fase di montaggio e di post production in Europa? Come hai coordinato il tutto sapendo che non saresti stato presente?
Quando abbiamo deciso di fare il film, sapevamo che alla fine di ogni giorno delle riprese avremmo dovuto nascondere ciò che avevamo girato e che la fase di montaggio doveva avvenire fuori dall’Iran. Montare il film lì sarebbe stato troppo rischioso. Ogni giorno inviavamo il materiale ad Andrew Bird, un montatore con cui avevo già collaborato in passato. Siccome le possibilità di completare le riprese erano piuttosto basse, non potevo stipulare contratti con nessuno, anche perché chi avrebbe accettato di lavorare a queste condizioni? Dal momento che non c’erano certezze, Jean-Christophe Simon (produttore e partner fondatore di Films Boutique, n.d.r.) e gli altri produttori in Germania hanno deciso di avere semplicemente fiducia in me… perché nessuno di noi era sicuro che sarei riuscito a terminare le riprese, dipendeva tutto dal completamento del film in poche parole. In questo accordo c’era anche il fatto che questo progetto doveva rimanere segreto e che non dovevano circolare notizie a riguardo per questioni di sicurezza. Ho avvisato Andrew che le riprese avrebbero potuto non avere un termine, ma nonostante ciò lui mi ha detto che avrebbe comunque lavorato al progetto. Aveva capito sin da subito la situazione vista la nostra collaborazione passata, ma nutrivo comunque qualche dubbio, soprattutto per la barriera linguistica che ci divide, e continuavo a chiedermi come avrebbe montato il film. Terminate le riprese gli inviai subito il materiale, lui iniziò subito a montarlo e, dopo una decina di giorni, mi fece vedere una sequenza. In quel momento ho capito che era la persona adatta per questo lavoro. In seguito gli ho chiesto come avesse fatto, lui rispose che non lo sapeva e scoppiò a ridere. Quando mi comunicarono della sentenza emessa contro di me mi misi in contatto con Andrew, gli dissi che dovevo lasciare l’Iran e che da quel momento non sarei più riuscito a parlare con lui. In quel momento il film era a buon punto, avevamo già una rough cut, ma gli ho ricordato che, qualunque cosa fosse successa, il mio lavoro era nelle sue mani e doveva terminarlo.
Vorrei concludere questa piacevole conversazione chiedendoti se, tra tutte queste presentazioni in giro per il mondo, c’è qualche aneddoto particolare che vorresti condividere.
Il momento più sorprendente è avvenuto forse durante un Q&A negli Stati Uniti, questa signora si avvicina a me con grande convinzione e mi dice “Penso che il padre avesse ragione. Perché le sue figlie non l’hanno ascoltato? Tutto quello che fa è per loro e per l’amore che ha verso la propria famiglia”.
Il trailer di The Seed of the Sacred Fig (Il seme del fico sacro, 2024)