di Beatrice Gangi
NC-271
04.02.2025
A Mumbai i treni sfrecciano tutta la notte. Le luci sono perennemente accese, le strade sempre piene, piove sempre e c’è sempre rumore. La città si sviluppa in altezza, nel profilo dei grattacieli, e in larghezza, nella non-forma delle baraccopoli. Ci sono molte giovani madri e tanti mariti assenti. Ci sono regole e tradizioni e ci sono feste continue. È una città i cui abitanti esitano a chiamare casa, pur non volendola lasciare, e in cui credono si possa avverare qualsiasi sogno. Si dice che sia un’illusione facile da alimentare, basta fare attenzione a non fermarsi qualche secondo di troppo.
Per Payal Kapadiya, a Mumbai non si avverano i sogni. E non si avverano neanche per le tre protagoniste del suo esordio nel cinema di finzione, l’ottimo All We Imagine as Light (tradotto in Italia con il titolo di Amore a Mumbai). Presentato in concorso all’ultimo Festival del Cinema di Cannes e premiato con il Grand Prix Speciale della Giuria, il film della Kapadiya è una lucida osservazione del controsenso di una città, Mumbai, spaccato aspirazionale della società indiana contemporanea. Tramite una messa in scena in due atti, paralleli ma incompatibili, All We Imagine as Light assume la forma di un prodotto antitetico, la cui riflessione è costruita su un sistema di contrari non semplicemente narrativi, ma di messa in scena e di linguaggio filmico.
Payal Kapadiya e l'attrice Kani Kusruti sul set di All We Imagine as Light (Amore a Mumbai, 2024)
Payal Kapadiya ritira il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2024
Partendo dalla disamina del primo “blocco”, ovvero della prima ora di film, la regista introduce la quotidianità di tre diverse donne mumbaikar, qui adoperate come icone della donna indiana di estrazione medio-bassa in tre diverse fasi di vita (giovinezza, età adulta, maturità). Il personaggio centrale, Prabha, è un’infermiera la cui vita semplice viene destabilizzata dal recapito di un regalo per posta, uno scaldariso inviatole dal marito (per lei poco più che uno sconosciuto) dalla Germania. Nella stessa clinica di Prabha lavorano Anu, una giovane ragazza appena arrivata in città nel tentativo di sfuggire all’imposizione di un matrimonio combinato da parte della famiglia, e Parvaty, una vedova, costretta a lasciare la propria casa a causa del processo di gentrificazione della città.
Le tre donne rappresentano tre diverse posizioni nei confronti del “sogno di una vita diversa” simbolicamente associato a Mumbai. Anu, che è appena arrivata, si aggrappa all’illusione di Mumbai come luogo in cui vivere e amare liberamente. Parvaty, che sta per lasciare la città dopo tanti anni, vive la disillusione di essere stata un’ospite temporanea che, non più utile, deve fare ritorno alle proprie origini. Prabha infine, si trova in un limbo tra questi due mondi, tra il rimpianto di un passato speso in nome della tradizione e la flebile speranza di poterla, se non rifuggire, almeno mettere in discussione.
Divya Prabha, giovane interprete del personaggio di Anu
Nella seconda ora, o “blocco” di film, Prabha e Anu accompagnano Parvaty nel ritorno al villaggio natale. Pur localizzando il piccolo villaggio sulla costa del Ratnagiri, la regista non vi attribuisce mai nè un nome nè un’identità specifica. Si tratta, semplicemente, di un villaggio qualsiasi in una qualsiasi parte della costa. L’antitesi non ha quindi la forma specifica di Mumbai-Pune o Mumbai-Ludhiana (quindi di un parallelismo tra due luoghi), ma di Mumbai-non Mumbai, luogo e non-luogo. Il villaggio di Parvaty non ha caratteri distintivi, non ha ospedali ne grattacieli. Ci sono il mare, la spiaggia, le grotte, il bosco. Non ci sono folle, non ci sono servizi, ma il clima è asciutto e mite. Le case sono grandi e silenziose, i pochi locali presenti la sera spegneranno le luci, perché esiste la notte, ed esiste il giorno. Rispetto alla grandiosa Mumbai, Ratnagiri è un angolo di mondo privo di interesse. Eppure, per Kapadiya, è questo villaggio innominato, e non Mumbai, un luogo dei sogni.
Nel primo atto, il registro cinematografico predominante è un realismo lento e quasi documentaristico. Il colore, freddo, è uno straripante turchese al neon, le azioni dei personaggi seguono una rassegnata routine. Se per sopravvivere Mumbai è necessario confessare illusioni che non esistono, nel villaggio di Parvaty i sogni sono materici: l’amore impossibile di Anu, la riunione di Prabha con il marito. I colori si ammorbidiscono e le atmosfere mutano in quelle rarefatte di un mondo onirico. L’inquadratura viene invasa da una natura prima invisibile, l’azione abbandona la regolare ripetitività del quotidiano cittadino. L’antitesi si completa nel binomio tra la realtà di Mumbai, il luogo in cui non si dorme, ma in cui non è mai giorno, e la rarefazione di un non-luogo, dove i sogni prendono forma nelle ore di veglia.
Chaya Kadam e Kani Kusruti, rispettivamente nei ruoli di Parvaty e Prabha, in una sequenza del lungometraggio
Nonostante il chiaro contrasto narrativo e di messa in scena, la regista non esplicita mai una morale, o un giudizio diretto. Piuttosto che asserire un’ipocrisia nel sogno indiano condiviso (il progresso, la ricerca di successo e auto-affermazione nelle metropoli più avanzate), Payal Kapadiya avanza un appunto più impalpabile, i reali limiti di tale sogno e il modello potenziale di alternative etichettate come indesiderabili. Pur suggerendo un elogio della vita rurale, All we Imagine as Light è su tutto una nobilitazione della stasi, del fermarsi, come obbligato luogo di meditazione, autoanalisi, e guarigione. Il tutto, infuso in una messa in scena mai didascalica, perfettamente bilanciata tra la narrazione cinematografica esplicita (sottotrame, dialoghi) e gli spunti impliciti di fotografia, ritmo, uso del sonoro, e composizione visiva.
In conclusione, l’antitesi della Kapadiya non è l’immediato contrasto bello-brutto, o il parallelismo tra una scelta di vita da svilire con una da nobilitare, ma tra la realtà dei fatti come opposta alla rappresentazione univoca di ciò che si intende come progressista e aspirazionale. Quindi, il rifiuto di un modello di vita imposto da forze o concetti esterni, che siano la tradizione (come vincolo a regole arbitrarie e sorpassate) o un sistema di convinzioni condivise (l’associazione di “più avanzato” - ne è esempio assoluto l’idea di vita metropolitana - con inerentemente migliore o progressista). Il reale progresso, inteso da Kapadiya, non si articola nel rifiuto cieco del passato, delle radici da cui proveniamo, ma nell’apertura mentale di discutere tanto esso, qualora retrogrado, tanto il presente, qualora ipocrita e alienante.
All We Imagine as Light (Amore a Mumbai, 2024)
di Beatrice Gangi
NC-271
04.02.2025
Payal Kapadiya e l'attrice Kani Kusruti sul set di All We Imagine as Light (Amore a Mumbai, 2024)
A Mumbai i treni sfrecciano tutta la notte. Le luci sono perennemente accese, le strade sempre piene, piove sempre e c’è sempre rumore. La città si sviluppa in altezza, nel profilo dei grattacieli, e in larghezza, nella non-forma delle baraccopoli. Ci sono molte giovani madri e tanti mariti assenti. Ci sono regole e tradizioni e ci sono feste continue. È una città i cui abitanti esitano a chiamare casa, pur non volendola lasciare, e in cui credono si possa avverare qualsiasi sogno. Si dice che sia un’illusione facile da alimentare, basta fare attenzione a non fermarsi qualche secondo di troppo.
Per Payal Kapadiya, a Mumbai non si avverano i sogni. E non si avverano neanche per le tre protagoniste del suo esordio nel cinema di finzione, l’ottimo All We Imagine as Light (tradotto in Italia con il titolo di Amore a Mumbai). Presentato in concorso all’ultimo Festival del Cinema di Cannes e premiato con il Grand Prix Speciale della Giuria, il film della Kapadiya è una lucida osservazione del controsenso di una città, Mumbai, spaccato aspirazionale della società indiana contemporanea. Tramite una messa in scena in due atti, paralleli ma incompatibili, All We Imagine as Light assume la forma di un prodotto antitetico, la cui riflessione è costruita su un sistema di contrari non semplicemente narrativi, ma di messa in scena e di linguaggio filmico.
Payal Kapadiya ritira il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2024
Partendo dalla disamina del primo “blocco”, ovvero della prima ora di film, la regista introduce la quotidianità di tre diverse donne mumbaikar, qui adoperate come icone della donna indiana di estrazione medio-bassa in tre diverse fasi di vita (giovinezza, età adulta, maturità). Il personaggio centrale, Prabha, è un’infermiera la cui vita semplice viene destabilizzata dal recapito di un regalo per posta, uno scaldariso inviatole dal marito (per lei poco più che uno sconosciuto) dalla Germania. Nella stessa clinica di Prabha lavorano Anu, una giovane ragazza appena arrivata in città nel tentativo di sfuggire all’imposizione di un matrimonio combinato da parte della famiglia, e Parvaty, una vedova, costretta a lasciare la propria casa a causa del processo di gentrificazione della città.
Le tre donne rappresentano tre diverse posizioni nei confronti del “sogno di una vita diversa” simbolicamente associato a Mumbai. Anu, che è appena arrivata, si aggrappa all’illusione di Mumbai come luogo in cui vivere e amare liberamente. Parvaty, che sta per lasciare la città dopo tanti anni, vive la disillusione di essere stata un’ospite temporanea che, non più utile, deve fare ritorno alle proprie origini. Prabha infine, si trova in un limbo tra questi due mondi, tra il rimpianto di un passato speso in nome della tradizione e la flebile speranza di poterla, se non rifuggire, almeno mettere in discussione.
Divya Prabha, giovane interprete del personaggio di Anu
Nella seconda ora, o “blocco” di film, Prabha e Anu accompagnano Parvaty nel ritorno al villaggio natale. Pur localizzando il piccolo villaggio sulla costa del Ratnagiri, la regista non vi attribuisce mai nè un nome nè un’identità specifica. Si tratta, semplicemente, di un villaggio qualsiasi in una qualsiasi parte della costa. L’antitesi non ha quindi la forma specifica di Mumbai-Pune o Mumbai-Ludhiana (quindi di un parallelismo tra due luoghi), ma di Mumbai-non Mumbai, luogo e non-luogo. Il villaggio di Parvaty non ha caratteri distintivi, non ha ospedali ne grattacieli. Ci sono il mare, la spiaggia, le grotte, il bosco. Non ci sono folle, non ci sono servizi, ma il clima è asciutto e mite. Le case sono grandi e silenziose, i pochi locali presenti la sera spegneranno le luci, perché esiste la notte, ed esiste il giorno. Rispetto alla grandiosa Mumbai, Ratnagiri è un angolo di mondo privo di interesse. Eppure, per Kapadiya, è questo villaggio innominato, e non Mumbai, un luogo dei sogni.
Nel primo atto, il registro cinematografico predominante è un realismo lento e quasi documentaristico. Il colore, freddo, è uno straripante turchese al neon, le azioni dei personaggi seguono una rassegnata routine. Se per sopravvivere Mumbai è necessario confessare illusioni che non esistono, nel villaggio di Parvaty i sogni sono materici: l’amore impossibile di Anu, la riunione di Prabha con il marito. I colori si ammorbidiscono e le atmosfere mutano in quelle rarefatte di un mondo onirico. L’inquadratura viene invasa da una natura prima invisibile, l’azione abbandona la regolare ripetitività del quotidiano cittadino. L’antitesi si completa nel binomio tra la realtà di Mumbai, il luogo in cui non si dorme, ma in cui non è mai giorno, e la rarefazione di un non-luogo, dove i sogni prendono forma nelle ore di veglia.
Chaya Kadam e Kani Kusruti, rispettivamente nei ruoli di Parvaty e Prabha, in una sequenza del lungometraggio
Nonostante il chiaro contrasto narrativo e di messa in scena, la regista non esplicita mai una morale, o un giudizio diretto. Piuttosto che asserire un’ipocrisia nel sogno indiano condiviso (il progresso, la ricerca di successo e auto-affermazione nelle metropoli più avanzate), Payal Kapadiya avanza un appunto più impalpabile, i reali limiti di tale sogno e il modello potenziale di alternative etichettate come indesiderabili. Pur suggerendo un elogio della vita rurale, All we Imagine as Light è su tutto una nobilitazione della stasi, del fermarsi, come obbligato luogo di meditazione, autoanalisi, e guarigione. Il tutto, infuso in una messa in scena mai didascalica, perfettamente bilanciata tra la narrazione cinematografica esplicita (sottotrame, dialoghi) e gli spunti impliciti di fotografia, ritmo, uso del sonoro, e composizione visiva.
In conclusione, l’antitesi della Kapadiya non è l’immediato contrasto bello-brutto, o il parallelismo tra una scelta di vita da svilire con una da nobilitare, ma tra la realtà dei fatti come opposta alla rappresentazione univoca di ciò che si intende come progressista e aspirazionale. Quindi, il rifiuto di un modello di vita imposto da forze o concetti esterni, che siano la tradizione (come vincolo a regole arbitrarie e sorpassate) o un sistema di convinzioni condivise (l’associazione di “più avanzato” - ne è esempio assoluto l’idea di vita metropolitana - con inerentemente migliore o progressista). Il reale progresso, inteso da Kapadiya, non si articola nel rifiuto cieco del passato, delle radici da cui proveniamo, ma nell’apertura mentale di discutere tanto esso, qualora retrogrado, tanto il presente, qualora ipocrita e alienante.
All We Imagine as Light (Amore a Mumbai, 2024)