di Beatrice Gangi
NC-232
14.09.2024
Chi sei tu? Yoko. La sorella della vittima. Anzi, Mima, l’attrice esordiente. Oppure Mima la modella, quella che non ha problemi a svestirsi. Mima la cantante delle Cham, una idol di talento. Ma anche la ragazza con l’acquario, lei ha due pesciolini rossi e blu. In realtà, ne ha una dozzina, forse venti. Forse non ne ha più neanche uno, un giorno è tornata a casa ed erano tutti morti. Una casa di specchi rotti e cartoni del latte vuoti. Porte e finestre che si aprono su momenti piuttosto che su spazi. Frammenti di realtà, frammenti di finzione, frammenti di fantasie, frammenti di ricordi. In Perfect Blue di Satoshi Kon, i frammenti del cinema di un’artista geniale, di un uomo che, per un battito di ciglia, ha portato sullo schermo la lingua dei sogni.
Nativo di Sapporo, anno 1963, la carriera di Kon si compone appena di una manciata di opere, tra anime e manga. Dai suoi esordi come regista, ricerca il reale. Paradossalmente, rifuggendo il realistico. Crea un personale cinema in cui cause non producono effetti, dove il bilanciato coincide con il distorto. Un cinema la cui verità si nasconde nel punto cieco tra il sonno e la veglia, tra le regole liquide di una narrazione ad impulsi. Un regista ricordato nel 2010 da Marco Müller, allora Direttore della Mostra del Cinema di Venezia, come “uno degli inventori delle nuove immagini e delle nuove narrazioni - sempre imitato, mai superato”. Un innovatore, di fatto, trasformatore della narrazione cinematografica mossa dai criteri con cui si ragiona, con la narrazione mossa da quelli con cui si immagina.
L’esordio cinematografico avviene nel 1997 con Perfect Blue e, dove la regia accademica inviterebbe al montaggio invisibile, Kon strappa le scene sulle azioni in essere. Dove la logica suggerirebbe consequenzialità, il passato segue il presente, il presente succede momenti mai realmente avvenuti. “Chi sei tu?” Chiede Mima, la protagonista. “Sono Mima”, risponde Rumi, che Mima non è. Un film sull’identità e sul suo inevitabile perno, il subconscio. Così, alla ricerca di un’identità finzionale Perfect Blue sovrappone il manifesto di un’identità artistica già delineata, ennesimo non-senso nella filmografia di un regista la cui prima opera si distingue poiché autorialmente matura.
Da allora, Satoshi Kon, rincorre la realtà intrinseca al sogno, la concretezza di ciò che è effimero. Sostiene come “per un estraneo, i sogni e il film all’interno di un film sono facili da separare dal mondo reale. Ma per la persona che li sta vivendo, tutto è reale”. Un pedinamento, registico, del mondo delle idee, non dissimile da quello della sua eroina Chiyoko, principessa koniana all’inseguimento del ricordo di un amore mai veramente vissuto. Non a caso, come ci illustra A. Spagnoli, il suo secondo lungometraggio, Millennium Actress (2001), è ancora una volta un paradosso, “la scelta del documentario, genere realistico per eccellenza, innestato in un contesto fatto di antinaturalistica animazione”.
Presentando il film, Kon ne spiega ancora una volta le regole sostenendo come “i sogni potrebbero possedere una formula loro propria”. Non sono fatti per essere ricordati, non presentano regole da scandagliare. In un sogno, sono naturali la trasformazione di una cosa in un’altra, di una persona in un’altra nel mentre di una conversazione. È naturale che “la relatività o la relazione tra altre persone e noi stessi, si trasformi o semplicemente cambi”. Ancora e ancora, si riappropria del diritto all’immaginare, all’illudersi. La concezione negativa della fantasticheria come della chimera, è, in Chiyoko, illimitata potenzialità. Linfa vitale di un viaggio, metacinematografico e metatestuale, di un tallonamento dell’amore, così amato - e così odiato - perché cercato e perché voluto.
Nel 2003 esce Tokyo Godfathers, gli assurdi della memoria e del miraggio, lasciano spazio all’assurdo del miracolo quotidiano. C’è una famiglia, ma senza legami di sangue. Ci sono una Maria e un Gesù bambino, ma sono un barbone transessuale e una trovatella. Il film dalla narrazione più tradizionale nella filmografia di Satoshi Kon, Tokyo Godfathers è un girovagare tra fortuite coincidenze. Di divinità invisibili, siano esse il perdono, il caso, o una folata di vento.
All’opera più realistica dell’autore segue, nel 2004, quella che potrebbe essere la sua opera magna. Dal grande schermo alla serialità televisiva, Kon dirige Paranoia Agent, tredici episodi di panico morale. Una meravigliosa nuvola a forma di fungo nel cielo, di nuovo, la falsa speranza come via, al contempo, di dannazione e salvezza. Il coro di personaggi si fa riflesso dello spettatore, del lungo corteo delle bugie preferibili alla realtà dei fatti, realtà che, nell’anime, è l’inferno urbano del contemporaneo. Primi minuti di incroci stradali, cantieri in costruzione, afa estiva e telefoni cellulari. Bugie bianche. Scadenze. Aspettative per quelle scadenze. A fine puntata, il liberatorio sollievo del venirne esonerati, del permesso d’uscita da quel quotidiano così ributtante. La giustificazione? L’essere stati aggrediti. Il colpevole? Un ragazzino su pattini a rotelle armato di sbilenca mazza da baseball dorata. Il bizzarro Shonen Bat, latore di una via di fuga per chi ne sta cercando una, agente della paranoia ed eroe del tempo presente.
Se, fino a Paranoia Agent, deliri e allucinazioni travalicavano il mondo reale - ma nella sfera del singolo - nella serie la formula del sogno sconfina per la prima volta nel mondo collettivo. Come afferma Enrico Azzano “la paranoia collettiva è, ci ripete Kon, generalizzata e radicalizzata a ogni livello del contemporaneo: i personaggi in fuga di Kon trovano nel misterioso ragazzino sui pattini una scappatoia verso il mondo dei sogni, lontano dalla trappola quotidiana”, una “contagiosa psicosi che serpeggia nella società, fin nei suoi più reconditi interstizi” . Il prodotto mentale è elevato allo stesso livello di realtà del prodotto materico, condiviso, collettivamente, come fattuale. La lucidità è prerogativa degli emarginati, dei folli, del vecchio sulla luna e del suo apprendista, del poliziotto dei tempi andati pacificatore di un mondo a due dimensioni.
Dramma psicologico, thriller, commedia satirica, commedia delirante. Stacchi improvvisi su diverse tecniche d’animazione, montaggio magico, montaggio alternato, immagini fisse e rimandi al cinema dal vivo. Tecniche attraverso cui Paranoia Agent prelude a Paprika (2006), ultimo lungometraggio del regista, che, di questo caos organizzato, è l’apoteosi. Svestendosi di ogni contorno, Paprika è il film sui sogni, il film dei sogni. La deificazione del non-senso, la perturbante marcia del mondo promesso, l’universo altro che, stufo di essere represso, in parata, marcia dal deserto fino a invadere le strade della città. Finalmente, la narrazione perde le poche regole ancora rimaste, la formula del sogno è ormai completa.
“Sì, signore! Una vera soddisfazione! Ecco cosa porta la disciplina! C’erano anche cinque dame, che danzavano sulle note della musica delle rane, e il vortice di carta riciclata era veramente uno spettacolo! Sembrava computer grafica, altrochè! [...] Ma ora è giunto il momento di tornare a casa, a contemplare un limpidissimo cielo azzurro, dove i coriandoli cadono come polvere di stelle e tutti si agitano intorno alle porte del santuario, il frigorifero e la cassetta postale guideranno il corteo! Chiunque sia preoccupato per le date di scadenza, si faccia da parte ora! Nessuno intralci il mio treno della gloria!”
Uno stralcio del monologo a descrizione del subconscio collettivo della parata di Paprika, ovvero il sogno globale che cela quanto di più inconoscibile, ma quanto di più intimo della natura umana. Ogni sua componente è folle, fluida, mutevole, sconnessa e coesa allo stesso tempo, estranea a ogni forma di chiarificazione, non perchè illogica ma perché, rispetto alla logica, in posizione di rifiuto. Sullo schermo sfila, letteralmente, il mondo dello specchio, interstizio tra sogno, realtà, leggenda, cinema e meta-cinema, banale e sbalorditivo, società e singolo.
Un sogno folle dal brusco risveglio. Paprika è rimasto l’ultimo film realizzato prima della morte prematura del regista, avvenuta nel 2010. Nella sua ultima lettera, conosciuta con il titolo di Sayonara, Satoshi Kon si scusa, con il cuore colmo di gratitudine deve posare la penna. Ci lascia il suo progetto conclusivo, Dreaming Machine, tuttora incompiuto, ma affidato all’amico Masao Maruyama, fondatore della storica casa di produzione Madhouse, con la speranza che possa un giorno essere realizzato.
Lascia anche un ultimo cortometraggio, realizzato nel 2008 per il progetto Ani*Kuri 15. La durata, è di un solo minuto. La scena si apre, ne riconosciamo subito il regista, dopotutto c’è una giovane ragazza che dorme. Si indugia, per l’ultima volta, nella terra di nessuno. Eppure, questa volta suona la sveglia, e la protagonista, serenamente, si alza. Forse, ci siamo trattenuti abbastanza nell’altro mondo. “Ohayou”, ci dice. Buongiorno, ben svegliati.
di Beatrice Gangi
NC-232
14.09.2024
Chi sei tu? Yoko. La sorella della vittima. Anzi, Mima, l’attrice esordiente. Oppure Mima la modella, quella che non ha problemi a svestirsi. Mima la cantante delle Cham, una idol di talento. Ma anche la ragazza con l’acquario, lei ha due pesciolini rossi e blu. In realtà, ne ha una dozzina, forse venti. Forse non ne ha più neanche uno, un giorno è tornata a casa ed erano tutti morti. Una casa di specchi rotti e cartoni del latte vuoti. Porte e finestre che si aprono su momenti piuttosto che su spazi. Frammenti di realtà, frammenti di finzione, frammenti di fantasie, frammenti di ricordi. In Perfect Blue di Satoshi Kon, i frammenti del cinema di un’artista geniale, di un uomo che, per un battito di ciglia, ha portato sullo schermo la lingua dei sogni.
Nativo di Sapporo, anno 1963, la carriera di Kon si compone appena di una manciata di opere, tra anime e manga. Dai suoi esordi come regista, ricerca il reale. Paradossalmente, rifuggendo il realistico. Crea un personale cinema in cui cause non producono effetti, dove il bilanciato coincide con il distorto. Un cinema la cui verità si nasconde nel punto cieco tra il sonno e la veglia, tra le regole liquide di una narrazione ad impulsi. Un regista ricordato nel 2010 da Marco Müller, allora Direttore della Mostra del Cinema di Venezia, come “uno degli inventori delle nuove immagini e delle nuove narrazioni - sempre imitato, mai superato”. Un innovatore, di fatto, trasformatore della narrazione cinematografica mossa dai criteri con cui si ragiona, con la narrazione mossa da quelli con cui si immagina.
L’esordio cinematografico avviene nel 1997 con Perfect Blue e, dove la regia accademica inviterebbe al montaggio invisibile, Kon strappa le scene sulle azioni in essere. Dove la logica suggerirebbe consequenzialità, il passato segue il presente, il presente succede momenti mai realmente avvenuti. “Chi sei tu?” Chiede Mima, la protagonista. “Sono Mima”, risponde Rumi, che Mima non è. Un film sull’identità e sul suo inevitabile perno, il subconscio. Così, alla ricerca di un’identità finzionale Perfect Blue sovrappone il manifesto di un’identità artistica già delineata, ennesimo non-senso nella filmografia di un regista la cui prima opera si distingue poiché autorialmente matura.
Da allora, Satoshi Kon, rincorre la realtà intrinseca al sogno, la concretezza di ciò che è effimero. Sostiene come “per un estraneo, i sogni e il film all’interno di un film sono facili da separare dal mondo reale. Ma per la persona che li sta vivendo, tutto è reale”. Un pedinamento, registico, del mondo delle idee, non dissimile da quello della sua eroina Chiyoko, principessa koniana all’inseguimento del ricordo di un amore mai veramente vissuto. Non a caso, come ci illustra A. Spagnoli, il suo secondo lungometraggio, Millennium Actress (2001), è ancora una volta un paradosso, “la scelta del documentario, genere realistico per eccellenza, innestato in un contesto fatto di antinaturalistica animazione”.
Presentando il film, Kon ne spiega ancora una volta le regole sostenendo come “i sogni potrebbero possedere una formula loro propria”. Non sono fatti per essere ricordati, non presentano regole da scandagliare. In un sogno, sono naturali la trasformazione di una cosa in un’altra, di una persona in un’altra nel mentre di una conversazione. È naturale che “la relatività o la relazione tra altre persone e noi stessi, si trasformi o semplicemente cambi”. Ancora e ancora, si riappropria del diritto all’immaginare, all’illudersi. La concezione negativa della fantasticheria come della chimera, è, in Chiyoko, illimitata potenzialità. Linfa vitale di un viaggio, metacinematografico e metatestuale, di un tallonamento dell’amore, così amato - e così odiato - perché cercato e perché voluto.
Nel 2003 esce Tokyo Godfathers, gli assurdi della memoria e del miraggio, lasciano spazio all’assurdo del miracolo quotidiano. C’è una famiglia, ma senza legami di sangue. Ci sono una Maria e un Gesù bambino, ma sono un barbone transessuale e una trovatella. Il film dalla narrazione più tradizionale nella filmografia di Satoshi Kon, Tokyo Godfathers è un girovagare tra fortuite coincidenze. Di divinità invisibili, siano esse il perdono, il caso, o una folata di vento.
All’opera più realistica dell’autore segue, nel 2004, quella che potrebbe essere la sua opera magna. Dal grande schermo alla serialità televisiva, Kon dirige Paranoia Agent, tredici episodi di panico morale. Una meravigliosa nuvola a forma di fungo nel cielo, di nuovo, la falsa speranza come via, al contempo, di dannazione e salvezza. Il coro di personaggi si fa riflesso dello spettatore, del lungo corteo delle bugie preferibili alla realtà dei fatti, realtà che, nell’anime, è l’inferno urbano del contemporaneo. Primi minuti di incroci stradali, cantieri in costruzione, afa estiva e telefoni cellulari. Bugie bianche. Scadenze. Aspettative per quelle scadenze. A fine puntata, il liberatorio sollievo del venirne esonerati, del permesso d’uscita da quel quotidiano così ributtante. La giustificazione? L’essere stati aggrediti. Il colpevole? Un ragazzino su pattini a rotelle armato di sbilenca mazza da baseball dorata. Il bizzarro Shonen Bat, latore di una via di fuga per chi ne sta cercando una, agente della paranoia ed eroe del tempo presente.
Se, fino a Paranoia Agent, deliri e allucinazioni travalicavano il mondo reale - ma nella sfera del singolo - nella serie la formula del sogno sconfina per la prima volta nel mondo collettivo. Come afferma Enrico Azzano “la paranoia collettiva è, ci ripete Kon, generalizzata e radicalizzata a ogni livello del contemporaneo: i personaggi in fuga di Kon trovano nel misterioso ragazzino sui pattini una scappatoia verso il mondo dei sogni, lontano dalla trappola quotidiana”, una “contagiosa psicosi che serpeggia nella società, fin nei suoi più reconditi interstizi” . Il prodotto mentale è elevato allo stesso livello di realtà del prodotto materico, condiviso, collettivamente, come fattuale. La lucidità è prerogativa degli emarginati, dei folli, del vecchio sulla luna e del suo apprendista, del poliziotto dei tempi andati pacificatore di un mondo a due dimensioni.
Dramma psicologico, thriller, commedia satirica, commedia delirante. Stacchi improvvisi su diverse tecniche d’animazione, montaggio magico, montaggio alternato, immagini fisse e rimandi al cinema dal vivo. Tecniche attraverso cui Paranoia Agent prelude a Paprika (2006), ultimo lungometraggio del regista, che, di questo caos organizzato, è l’apoteosi. Svestendosi di ogni contorno, Paprika è il film sui sogni, il film dei sogni. La deificazione del non-senso, la perturbante marcia del mondo promesso, l’universo altro che, stufo di essere represso, in parata, marcia dal deserto fino a invadere le strade della città. Finalmente, la narrazione perde le poche regole ancora rimaste, la formula del sogno è ormai completa.
“Sì, signore! Una vera soddisfazione! Ecco cosa porta la disciplina! C’erano anche cinque dame, che danzavano sulle note della musica delle rane, e il vortice di carta riciclata era veramente uno spettacolo! Sembrava computer grafica, altrochè! [...] Ma ora è giunto il momento di tornare a casa, a contemplare un limpidissimo cielo azzurro, dove i coriandoli cadono come polvere di stelle e tutti si agitano intorno alle porte del santuario, il frigorifero e la cassetta postale guideranno il corteo! Chiunque sia preoccupato per le date di scadenza, si faccia da parte ora! Nessuno intralci il mio treno della gloria!”
Uno stralcio del monologo a descrizione del subconscio collettivo della parata di Paprika, ovvero il sogno globale che cela quanto di più inconoscibile, ma quanto di più intimo della natura umana. Ogni sua componente è folle, fluida, mutevole, sconnessa e coesa allo stesso tempo, estranea a ogni forma di chiarificazione, non perchè illogica ma perché, rispetto alla logica, in posizione di rifiuto. Sullo schermo sfila, letteralmente, il mondo dello specchio, interstizio tra sogno, realtà, leggenda, cinema e meta-cinema, banale e sbalorditivo, società e singolo.
Un sogno folle dal brusco risveglio. Paprika è rimasto l’ultimo film realizzato prima della morte prematura del regista, avvenuta nel 2010. Nella sua ultima lettera, conosciuta con il titolo di Sayonara, Satoshi Kon si scusa, con il cuore colmo di gratitudine deve posare la penna. Ci lascia il suo progetto conclusivo, Dreaming Machine, tuttora incompiuto, ma affidato all’amico Masao Maruyama, fondatore della storica casa di produzione Madhouse, con la speranza che possa un giorno essere realizzato.
Lascia anche un ultimo cortometraggio, realizzato nel 2008 per il progetto Ani*Kuri 15. La durata, è di un solo minuto. La scena si apre, ne riconosciamo subito il regista, dopotutto c’è una giovane ragazza che dorme. Si indugia, per l’ultima volta, nella terra di nessuno. Eppure, questa volta suona la sveglia, e la protagonista, serenamente, si alza. Forse, ci siamo trattenuti abbastanza nell’altro mondo. “Ohayou”, ci dice. Buongiorno, ben svegliati.