NC-235
20.09.2024
A luglio è uscita per minimumfax l’edizione italiana di Guida per i perplessi. Nuovi incontri alla fine del mondo, a metà strada tra un rifacimento e un seguito del più celebre libro-intervista a Werner Herzog, Incontri alla fine del mondo (2009), curato anch’esso da Paul Cronin. Con una prefazione di Harmony Korine e Francesco Cattaneo come curatore dell’edizione italiana, il volume scava ancora più a fondo dentro la filmografia di quello che è stato ben presto riconosciuto come uno dei massimi autori del cinema tedesco, soffermandosi tanto sulle opere maggiori, come Aguirre, der Zorn Gottes (Aguirre, furore di Dio, 1972), Jeder für sich und Gott gegen alle (L’enigma di Kaspar Hauser, 1974) o Fitzcarraldo (1982), quanto su documentari e altri lavori meno noti, ma altrettanto sintomatici della sua idea di fare cinema. Concludono il libro una decina di poesie scritte da Herzog negli anni settanta, la prosa Pensando alla Germania e una serie di apparati critici.
“C’è stata di certo una rinascita nel cinema tedesco nei tardi anni sessanta e negli anni settanta, ma è un mito il fatto che fossimo un gruppo coerente. Ciascuno produceva film molto diversi, e alcuni di noi si conoscevano a malapena. Io non nutrivo vincoli di fedeltà verso nessuno e anzi, mi sentivo profondamente estraneo rispetto ad alcuni miei contemporanei e al loro lavoro, come quei film politici dottrinari che postulavano insistentemente e scioccamente la rivoluzione mondiale”. Se Werner Herzog cancella ben presto ogni aspettativa di assistere a un racconto generazionale o anche solo a una più ambiziosa o maggiormente generica immersione nella storia del cinema, Guida per i perplessi in realtà vuole essere più il ritratto di un uomo, e la cavalcata in una sterminata filmografia, che un libro per cinefili in senso stretto.
In Guida ai perplessi non mancano le grandi massime di Herzog - “È stata la fede, non i soldi, a issare la nave sulla cima della montagna in Fitzcarraldo” -, gli scambi di battute con l’interlocutore Paul Cronin - “per te la realizzazione di film ha a che fare con l’atletica, non con l’estetica” o “lascia che ti proponga una metafora: tutti i miei film sono stati fatti a piedi” – e i racconti surreali come quella volta che, a Los Angeles, il regista venne sparato nel bel mezzo di un’intervista ma si rifiutò di denunciare l’esaltato che lo aveva colpito per non passare il resto della giornata in compagnia della polizia statunitense. Ma più di ogni altra cosa Guida per i perplessi è e vuole essere l’incarnazione su carta di uno specifico modus vivendi, emanazione diretta di un certo spirito tedesco, che qua e là emerge anche esplicitamente. “Trovo grande consolazione quando mi muovo nell’oscurità con certi poeti”, afferma il regista a un certo punto della conversazione, e tra i nomi che fa spiccano Büchner, da cui trasse Woyczek (1979), Kleist, Hölderlin - “quando leggo Hölderlin mi dà l’idea del telescopio Hubble che sonda gli abissi dell’universo” - Qunter, Gryphius, Spee, Sileius, Walser, e anche i temporalmente più vicini Thomas Bernhard e Peter Handke, quest’ultimo insignito del premio Nobel pochi anni fa.
Forte della consapevolezza che “il cinema non deriva da un pensiero accademico e astratto, proviene da ginocchia e cosce, dall’essere pronto a lavorare venti ore al giorno”, Herzog, dai primi tentativi risalenti addirittura alla fine degli anni cinquanta, come il mai distribuito Herakles (1962), per arrivare ai più recenti Family Romance, LLC (2019) e Theatre of Thought (2023), ha tracciato un percorso di rara coerenza concettuale e stilistica, pur avendo dribblato tra le modalità e le scale più variegate di produzione cinematografica: illuminante è il racconto di uno dei suoi vari incontri con Hollywood, per la realizzazione di Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans (Il cattivo tenente: Ultima chiamata New Orleans, 2009) con Nicolas Cage, culminato con la proposta – respinta – di un contratto pluriennale con uno dei produttori, rimasto del tutto stupefatto dalla rapidità con cui Herzog aveva perfettamente completato il film, in anticipo sui tempi previsti e con un paio di milioni di dollari di risparmio. Non male neanche la risposta data sul set (semi)-hollywoodiano de Rescue Dawn (L’alba della libertà 2006), con Christian Bale, ai membri della troupe e della produzione che gli facevano notare che stava girando poche coperture e take di riserva: “Cosa intendono con ‘copertura’? Ho una copertura assicurativa per la mia auto, ma cosa vuol dire copertura quando si fa un film?”.
Werner Herzog sembra aver imparato da alcuni dei migliori scrittori tedeschi di inizio secolo certe tecniche di stilizzazione di sé, e Guida per i perplessi non si differenzia da altri suoi libri e interviste per la prevedibilità con cui ripercorre certi momenti e personaggi topici della sua (bio)-filmografia. Se il racconto del “sodalizio armato” con Klaus Kinski, e in particolare della realizzazione di Fitzcarraldo, risuonano in larga parte noti per chi ha già letto o visto altri libri e documentari su Herzog, leggendo Guida per i perplessi ci si ricorda con grande sorpresa che i due, prima di trovarsi come regista e attore sul set e minacciarsi di spararsi a vicenda, avevano curiosamente coabitato per un breve periodo nel 1955, quando entrambi erano praticamente sconosciuti – e già Kinski folleggiava.
Immancabile anche l’omaggio a Lotte Eisner, uno dei rari momenti in cui dalle parole di Herzog sembra trasparire un’idea del cinema come comunità di cineasti, anche in senso genealogico per non dire dinastico – “proprio come Carlomagno ha dovuto recarsi a Roma per chiedere al Papa di consacrarlo, noi non potevamo semplicemente autoproclamarci. Nel caso del cinema tedesco, siamo stati molto fortunati ad avere Lotte, che ci ha dato la sua benedizione. Lei era l’anello mancante, la nostra coscienza collettiva, una fuggitiva dal nazismo, e per molti anni l’unica persona vivente ad aver avuto contatti con tutti i rappresentanti del mondo del cinema sin dagli inizi. Un autentico mammut peloso”. La Eisner, nata nel 1896 e scomparsa nel 1983, era stata una critica tedesca che aveva presenziato sui leggendari set degli anni venti dei vari Murnau e Lang, oltre a dare un contributo essenziale alla Cinémathèque française agli albori della sua esistenza; e quando, a metà degli anni settanta, la donna era stata in pericolo di vita, Herzog, che non ha mai nascosto un innamoramento adolescenziale per il cattolicesimo, aveva compiuto un assurdo pellegrinaggio da Monaco a Parigi, in un gesto apotropaico per garantirne la guarigione poi raccontato nel libro Sentieri di ghiaccio (1982).
Un’altra delle questioni che, presenti nel primo Incontri alla fine del mondo, Herzog e Cronin riprendono e approfondiscono notevolmente in Guida per i perplessi, è il tema della produzione, o meglio dell’autoproduzione. “Cinquant’anni fa, quando sono uscito dall’ufficio di quei produttori presuntuosi e ho fondato la mia compagnia, ho capito che non avrei girato neppure un fotogramma se avessi continuato a perdere tempo con gente del genere”, ricorda Herzog commentando i suoi esordi. “Se vuoi girare un film, vai e fallo. Non puoi immaginare quante volte ho iniziato un film sapendo di non avere soldi per finirlo”. Ciò non implica che Herzog si presenti come un alfiere dei cosiddetti indie movies, tutt’altro. “Cinema indipendente è un’espressione priva di significato. È un mito. La vera indipendenza è uno stato della mente, nient’altro. Definire qualcuno ‘indipendente’ significa dare troppo credito a Hollywood”, è la posizione di Herzog. “C’è sempre stata una relazione di interdipendenza tra finanziatori, registi e distributori, ragion per cui non esiste un vero cinema ‘indipendente’, fatta eccezione per il filmino di famiglia”.
In tutti i suoi libri, i film in cui compare in prima persona e le sue apparizioni pubbliche, Herzog è sempre stato molto attento, e astuto, nella costruzione della sua immagine pubblica e della sua automitografia – ma raramente, e forse mai in Guida per i perplessi, le sue parole suonano retoriche. Nel secondo libro della serie degli Incontri alla fine del mondo occasionalmente emergono anche dubbi e incertezze. “Stranamente, una cosa che mi fa paura – e me ne fa da anni – sono le prime ore delle riprese di un nuovo film. Arrivo sul set e mi guardo intorno, mi vedo circondato da un gruppo di persone straordinariamente competenti, e spero ardentemente che uno di loro si faccia avanti e assuma il comando. Mi chiedo chi sarà a realizzare davvero il film, poi mi rendo rapidamente conto che non c’è via d’uscita. Quella persona sono io”, si confida più o meno sinceramente a Cronin. “Nel corso degli anni ho affrontato questa sensazione mediante un rituale protettivo. Quasi fosse una sorta di protezione, l’assistente operatore piazza un pezzo di nastro adesivo giallo brillante sul mio cuore e sulla mia schiena, rendendo chiaramente visibile che sono il responsabile. Questo scudo protettivo mi aiuta a calmarmi e a superare la prima ora”. Altra interessante sorpresa fornita da Guida per i perplessi è la descrizione del passion project di Herzog, un film mai realizzato, perché inevitabilmente costosissimo, sulla distruzione del Messico ad opera dei conquistadores guidati da Cortés.
Concessioni Herzog non ne fa, neanche a sé stesso. Rivelatorio è uno degli scambi più serrati tra lui e Cronin: “Sei un artista?” - “Per nessuna ragione. Ho sempre voluto essere solo il soldato semplice del cinema” - “Cosa sono i tuoi film, se non arte?” - “Poesia. Sono un artigiano”. Se Herzog avanzando negli anni si convince sempre di più “è rimasto un solo posto in cui si possono trovare artisti: il circo, con i trapezisti, i giocolieri, persino i digiunatori”, non può che dichiarare di sentirsi “particolarmente vicino agli artigiani del tardo Medioevo che producevano le loro opere in maniera anonima, e non si consideravano artisti”. Ed è parlando di uno dei grandi autori di lingua tedesca, di un altro che mai si sarebbe definito artista e già problematicamente si sentiva scrittore, che Werner Herzog abbozza una collocazione che si potrebbe senza esitazioni trasferire anche alla sua filmografia: “uno come Kafka, che ha lavorato per anni in una compagnia di assicurazioni ed è stato apprezzato da una sparuta minoranza di persone mentre era in vita, si trovava a sua volta ai margini. Era così imbarazzato dal suo lavoro che si recava nelle librerie di Praga a comprare copie dei suoi libri. Al giorno d’oggi riconosciamo che Kafka era il mainstream segreto, e si trovava proprio al centro dei suoi tempi”.
Il mainstream segreto: difficile trovare un’altra definizione così precisa, se si pensa all’influenza del cinema herzoghiano, che ha lasciato tracce e suggestioni dal cinema arthouse più duro e puro fino ai più recenti spin-off di Star Wars come The Mandalorian (2019), dove non per nulla Herzog venne chiamato a fare un cameo. Se c’è una cosa che il cinema europeo ha perso, nel passaggio tra i due millenni, forse per un aumento parossistico della dimensione festivaliera, forse per un eccesso di assistenzialismo da parte dei vari stati e dell’UE tutta, forse ancora per una diminuzione generale del livello della critica, è proprio questa: la capacità di fare un cinema trasversale, che parli a un pubblico ampio senza la benché minima concessione sul piano dei concetti o dell’autorialità, ma che affronti di petto la grande storia e le grandi questioni dell’umanità, senza trincerarsi in quegli psicologismi e autobiografismi che da troppo tempo smuovono i sedicenti autori europei.
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20.09.2024
A luglio è uscita per minimumfax l’edizione italiana di Guida per i perplessi. Nuovi incontri alla fine del mondo, a metà strada tra un rifacimento e un seguito del più celebre libro-intervista a Werner Herzog, Incontri alla fine del mondo (2009), curato anch’esso da Paul Cronin. Con una prefazione di Harmony Korine e Francesco Cattaneo come curatore dell’edizione italiana, il volume scava ancora più a fondo dentro la filmografia di quello che è stato ben presto riconosciuto come uno dei massimi autori del cinema tedesco, soffermandosi tanto sulle opere maggiori, come Aguirre, der Zorn Gottes (Aguirre, furore di Dio, 1972), Jeder für sich und Gott gegen alle (L’enigma di Kaspar Hauser, 1974) o Fitzcarraldo (1982), quanto su documentari e altri lavori meno noti, ma altrettanto sintomatici della sua idea di fare cinema. Concludono il libro una decina di poesie scritte da Herzog negli anni settanta, la prosa Pensando alla Germania e una serie di apparati critici.
“C’è stata di certo una rinascita nel cinema tedesco nei tardi anni sessanta e negli anni settanta, ma è un mito il fatto che fossimo un gruppo coerente. Ciascuno produceva film molto diversi, e alcuni di noi si conoscevano a malapena. Io non nutrivo vincoli di fedeltà verso nessuno e anzi, mi sentivo profondamente estraneo rispetto ad alcuni miei contemporanei e al loro lavoro, come quei film politici dottrinari che postulavano insistentemente e scioccamente la rivoluzione mondiale”. Se Werner Herzog cancella ben presto ogni aspettativa di assistere a un racconto generazionale o anche solo a una più ambiziosa o maggiormente generica immersione nella storia del cinema, Guida per i perplessi in realtà vuole essere più il ritratto di un uomo, e la cavalcata in una sterminata filmografia, che un libro per cinefili in senso stretto.
In Guida ai perplessi non mancano le grandi massime di Herzog - “È stata la fede, non i soldi, a issare la nave sulla cima della montagna in Fitzcarraldo” -, gli scambi di battute con l’interlocutore Paul Cronin - “per te la realizzazione di film ha a che fare con l’atletica, non con l’estetica” o “lascia che ti proponga una metafora: tutti i miei film sono stati fatti a piedi” – e i racconti surreali come quella volta che, a Los Angeles, il regista venne sparato nel bel mezzo di un’intervista ma si rifiutò di denunciare l’esaltato che lo aveva colpito per non passare il resto della giornata in compagnia della polizia statunitense. Ma più di ogni altra cosa Guida per i perplessi è e vuole essere l’incarnazione su carta di uno specifico modus vivendi, emanazione diretta di un certo spirito tedesco, che qua e là emerge anche esplicitamente. “Trovo grande consolazione quando mi muovo nell’oscurità con certi poeti”, afferma il regista a un certo punto della conversazione, e tra i nomi che fa spiccano Büchner, da cui trasse Woyczek (1979), Kleist, Hölderlin - “quando leggo Hölderlin mi dà l’idea del telescopio Hubble che sonda gli abissi dell’universo” - Qunter, Gryphius, Spee, Sileius, Walser, e anche i temporalmente più vicini Thomas Bernhard e Peter Handke, quest’ultimo insignito del premio Nobel pochi anni fa.
Forte della consapevolezza che “il cinema non deriva da un pensiero accademico e astratto, proviene da ginocchia e cosce, dall’essere pronto a lavorare venti ore al giorno”, Herzog, dai primi tentativi risalenti addirittura alla fine degli anni cinquanta, come il mai distribuito Herakles (1962), per arrivare ai più recenti Family Romance, LLC (2019) e Theatre of Thought (2023), ha tracciato un percorso di rara coerenza concettuale e stilistica, pur avendo dribblato tra le modalità e le scale più variegate di produzione cinematografica: illuminante è il racconto di uno dei suoi vari incontri con Hollywood, per la realizzazione di Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans (Il cattivo tenente: Ultima chiamata New Orleans, 2009) con Nicolas Cage, culminato con la proposta – respinta – di un contratto pluriennale con uno dei produttori, rimasto del tutto stupefatto dalla rapidità con cui Herzog aveva perfettamente completato il film, in anticipo sui tempi previsti e con un paio di milioni di dollari di risparmio. Non male neanche la risposta data sul set (semi)-hollywoodiano de Rescue Dawn (L’alba della libertà 2006), con Christian Bale, ai membri della troupe e della produzione che gli facevano notare che stava girando poche coperture e take di riserva: “Cosa intendono con ‘copertura’? Ho una copertura assicurativa per la mia auto, ma cosa vuol dire copertura quando si fa un film?”.
Werner Herzog sembra aver imparato da alcuni dei migliori scrittori tedeschi di inizio secolo certe tecniche di stilizzazione di sé, e Guida per i perplessi non si differenzia da altri suoi libri e interviste per la prevedibilità con cui ripercorre certi momenti e personaggi topici della sua (bio)-filmografia. Se il racconto del “sodalizio armato” con Klaus Kinski, e in particolare della realizzazione di Fitzcarraldo, risuonano in larga parte noti per chi ha già letto o visto altri libri e documentari su Herzog, leggendo Guida per i perplessi ci si ricorda con grande sorpresa che i due, prima di trovarsi come regista e attore sul set e minacciarsi di spararsi a vicenda, avevano curiosamente coabitato per un breve periodo nel 1955, quando entrambi erano praticamente sconosciuti – e già Kinski folleggiava.
Immancabile anche l’omaggio a Lotte Eisner, uno dei rari momenti in cui dalle parole di Herzog sembra trasparire un’idea del cinema come comunità di cineasti, anche in senso genealogico per non dire dinastico – “proprio come Carlomagno ha dovuto recarsi a Roma per chiedere al Papa di consacrarlo, noi non potevamo semplicemente autoproclamarci. Nel caso del cinema tedesco, siamo stati molto fortunati ad avere Lotte, che ci ha dato la sua benedizione. Lei era l’anello mancante, la nostra coscienza collettiva, una fuggitiva dal nazismo, e per molti anni l’unica persona vivente ad aver avuto contatti con tutti i rappresentanti del mondo del cinema sin dagli inizi. Un autentico mammut peloso”. La Eisner, nata nel 1896 e scomparsa nel 1983, era stata una critica tedesca che aveva presenziato sui leggendari set degli anni venti dei vari Murnau e Lang, oltre a dare un contributo essenziale alla Cinémathèque française agli albori della sua esistenza; e quando, a metà degli anni settanta, la donna era stata in pericolo di vita, Herzog, che non ha mai nascosto un innamoramento adolescenziale per il cattolicesimo, aveva compiuto un assurdo pellegrinaggio da Monaco a Parigi, in un gesto apotropaico per garantirne la guarigione poi raccontato nel libro Sentieri di ghiaccio (1982).
Un’altra delle questioni che, presenti nel primo Incontri alla fine del mondo, Herzog e Cronin riprendono e approfondiscono notevolmente in Guida per i perplessi, è il tema della produzione, o meglio dell’autoproduzione. “Cinquant’anni fa, quando sono uscito dall’ufficio di quei produttori presuntuosi e ho fondato la mia compagnia, ho capito che non avrei girato neppure un fotogramma se avessi continuato a perdere tempo con gente del genere”, ricorda Herzog commentando i suoi esordi. “Se vuoi girare un film, vai e fallo. Non puoi immaginare quante volte ho iniziato un film sapendo di non avere soldi per finirlo”. Ciò non implica che Herzog si presenti come un alfiere dei cosiddetti indie movies, tutt’altro. “Cinema indipendente è un’espressione priva di significato. È un mito. La vera indipendenza è uno stato della mente, nient’altro. Definire qualcuno ‘indipendente’ significa dare troppo credito a Hollywood”, è la posizione di Herzog. “C’è sempre stata una relazione di interdipendenza tra finanziatori, registi e distributori, ragion per cui non esiste un vero cinema ‘indipendente’, fatta eccezione per il filmino di famiglia”.
In tutti i suoi libri, i film in cui compare in prima persona e le sue apparizioni pubbliche, Herzog è sempre stato molto attento, e astuto, nella costruzione della sua immagine pubblica e della sua automitografia – ma raramente, e forse mai in Guida per i perplessi, le sue parole suonano retoriche. Nel secondo libro della serie degli Incontri alla fine del mondo occasionalmente emergono anche dubbi e incertezze. “Stranamente, una cosa che mi fa paura – e me ne fa da anni – sono le prime ore delle riprese di un nuovo film. Arrivo sul set e mi guardo intorno, mi vedo circondato da un gruppo di persone straordinariamente competenti, e spero ardentemente che uno di loro si faccia avanti e assuma il comando. Mi chiedo chi sarà a realizzare davvero il film, poi mi rendo rapidamente conto che non c’è via d’uscita. Quella persona sono io”, si confida più o meno sinceramente a Cronin. “Nel corso degli anni ho affrontato questa sensazione mediante un rituale protettivo. Quasi fosse una sorta di protezione, l’assistente operatore piazza un pezzo di nastro adesivo giallo brillante sul mio cuore e sulla mia schiena, rendendo chiaramente visibile che sono il responsabile. Questo scudo protettivo mi aiuta a calmarmi e a superare la prima ora”. Altra interessante sorpresa fornita da Guida per i perplessi è la descrizione del passion project di Herzog, un film mai realizzato, perché inevitabilmente costosissimo, sulla distruzione del Messico ad opera dei conquistadores guidati da Cortés.
Concessioni Herzog non ne fa, neanche a sé stesso. Rivelatorio è uno degli scambi più serrati tra lui e Cronin: “Sei un artista?” - “Per nessuna ragione. Ho sempre voluto essere solo il soldato semplice del cinema” - “Cosa sono i tuoi film, se non arte?” - “Poesia. Sono un artigiano”. Se Herzog avanzando negli anni si convince sempre di più “è rimasto un solo posto in cui si possono trovare artisti: il circo, con i trapezisti, i giocolieri, persino i digiunatori”, non può che dichiarare di sentirsi “particolarmente vicino agli artigiani del tardo Medioevo che producevano le loro opere in maniera anonima, e non si consideravano artisti”. Ed è parlando di uno dei grandi autori di lingua tedesca, di un altro che mai si sarebbe definito artista e già problematicamente si sentiva scrittore, che Werner Herzog abbozza una collocazione che si potrebbe senza esitazioni trasferire anche alla sua filmografia: “uno come Kafka, che ha lavorato per anni in una compagnia di assicurazioni ed è stato apprezzato da una sparuta minoranza di persone mentre era in vita, si trovava a sua volta ai margini. Era così imbarazzato dal suo lavoro che si recava nelle librerie di Praga a comprare copie dei suoi libri. Al giorno d’oggi riconosciamo che Kafka era il mainstream segreto, e si trovava proprio al centro dei suoi tempi”.
Il mainstream segreto: difficile trovare un’altra definizione così precisa, se si pensa all’influenza del cinema herzoghiano, che ha lasciato tracce e suggestioni dal cinema arthouse più duro e puro fino ai più recenti spin-off di Star Wars come The Mandalorian (2019), dove non per nulla Herzog venne chiamato a fare un cameo. Se c’è una cosa che il cinema europeo ha perso, nel passaggio tra i due millenni, forse per un aumento parossistico della dimensione festivaliera, forse per un eccesso di assistenzialismo da parte dei vari stati e dell’UE tutta, forse ancora per una diminuzione generale del livello della critica, è proprio questa: la capacità di fare un cinema trasversale, che parli a un pubblico ampio senza la benché minima concessione sul piano dei concetti o dell’autorialità, ma che affronti di petto la grande storia e le grandi questioni dell’umanità, senza trincerarsi in quegli psicologismi e autobiografismi che da troppo tempo smuovono i sedicenti autori europei.