
di Pavel Belli Micati
NC-351
24.10.2025
Autori più prolifici di Richard Linklater, al giorno d’oggi, è difficile vederne. Impegnato nel giro di presentazioni dell’ultima sua opera, Nouvelle Vague (2025), il regista statunitense ha fatto anche una sosta al Rome Film Fest, dove è stato insignito del Premio alla Carriera. Un elogio che arriva, come coronamento naturale di una filmografia lunga oltre quaranta anni - la carriera di una mente che, più che indagare il tempo, lo ha costantemente misurato, osservato e pure piegato ai propri scopi. La sua opera omnia funziona come una vecchia macchina, in attività da tanto tempo - ha bisogno di qualche sosta dal meccanico, sì, ogni tanto può incepparsi, certo, data l’età - eppure è e rimane garanzia di una qualità insolita da trovare in registi della sua generazione meglio inseriti nelle coordinate della propria autorialità.
Nato in Texas nel 1960, cresciuto tra Houston e Huntsville, il giovane Linklater si annoia a scuola e così abbandona l’università, preferendo allo studio sui libri il praticantato su una piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico. Forse è dà lì che inizia a prendere forma l’ingegneria del suo processo creativo: quel concetto secondo cui anche l’architettura più precaria possa trasformarsi in un atto poetico. È la sensibilità che analizza il presente nella sua manifestazione, e dal suo primo lungo, It’s Impossible to Learn to Plow by Reading Books (1988) - da lui scritto, diretto e anche interpretato - già emerge la sua poetica: qui è un Jeanne Dielman incastrato nella monotonia del quotidiano che attraversa l’America alla scoperta di se stesso. In questo esercizio iniziale sono disseminati i temi che Linklater coltiverà lungo tutta la sua carriera: l’alienazione dal mondo, il desiderio di organicità e, soprattutto, quella stessa tensione tra immobilità dello spazio e un tempo che, inesorabilmente, scorre.
Con Dazed and Confused (1993), Linklater mette a punto la sua interpretazione della gioventù statunitense nell’epoca post-Reagan. Più che storie nel senso drammaturgico del termine, questi ragazzi turbati e confusi si offrono a ritratti corali, mosaici di conversazioni, flussi di coscienza e istantanee generazionali volte a offrire una visione d’insieme di una precisa epoca storica. Vantando un cast di promesse hollywoodiane, tra cui dei giovanissimi Matthew McConaughey e Parker Posey, quest’opera riprende l’architettura impostata da Slacker (1990), una dramedy corale il cui racconto informa la sua stessa trama e ne indirizza la ricezione del suo pubblico - e lo porrà, sin d’allora, all’attenzione sia della critica dei circuiti festivalieri che delle major produttive alla ricerca di talenti su cui investire.

Richard Linklater durante le riprese di Nouvelle Vague (2025)

Dazed and Confused (1993)
Se nel cinema l’azione può sostituirsi al dialogo, la dialettica deve diventare una prova di empatia: Before Sunrise (1995), oltre a cristallizzare nell’immaginario cinematografico la coppia Delpy-Hawke, inaugura anche un altro tragitto esplorato da Linklater, sul quale tornerà più volte nel corso della sua carriera: il concetto di film come diario, e il cinema in cui si inserisce, una letteratura che non ha bisogno di grandi gesta o di attente verifiche - perché anche una storia romantica, raccontata per mezzo di dialoghi quasi improvvisati, e in un tempo filmico che sembra reale ma che è in realtà interiore, può omaggiare l’eredità di geni discorsivi come Rohmer e Altman, oltre a drammatizzare un sentimento che rompe con i confini temporali e geografici. Anche questo romance dalla struttura atipica appassiona il pubblico e affascina la critica, che a Berlino consegna a Linklater l’Orso d’Argento per la Miglior Regia.
Al 1996 risale il suo primo adattamento letterario, la SubUrbia di Eric Bogosian. Se la critica qui lamenta un’eccessiva frammentarietà che ne complica la godibilità, è anche perché Linklater sente il bisogno di corrispondere quell’alienazione suburbana, ormai collaudata, a un’ipostasi registica che ne sia davvero all’altezza. Segue The Newton Boys (1998), una heist-comedy ambientata negli anni Venti, una risposta al suo interesse per la Storia Americana, sia come costruzione di un genere, sia come romanzamento del suo mito. Neanche questo film riscuote successo, né dai critici né dagli amatori, magari proprio perché il regista, nell’utilizzo che fa degli stilemi e delle impalcature che costruiscono la classica commedia d’azione, sembra penalizzarne la visione stessa.
Così nel 2001 Linklater opera un altro tentativo - ossia sperimentare attraverso forme e contenuti al fine di creare qualcosa di tanto unico quanto la vita stessa: Waking Life è la rotoscopia di una sensibilità a cui non bastano le strutture messe a disposizione dal cinema per esprimere le proprie idee - lui deve superarle. Se questo esperimento viene accolto a braccia aperte dai recensori del Sundance, lascia però il pubblico indifferente, alla sua uscita nelle sale. Ma Linklater non si dà per vinto, e sempre nello stesso anno firma la regia di Tape, un’opera metacinematografica, realizzata con una videocamera e ambientata nella stanza di un motel: in questo microcosmo teatrale dove le parole diventano sentenze, Ethan Hawke e Robert Sean Leonard danno corpo a una dialettica che rispecchia e conferma il realismo etico di quella che diverrà la trilogia dell’amore.

Before Sunrise (1995)
Ma è con School of Rock (2003), che Linklater si guadagna l’accesso illimitato alle grandi e grosse produzioni di Hollywood: su un copione firmato da Mike White (The White Lotus), il regista texano costruisce un panopticon visuale che è al contempo musical, racconto di formazione e tributo al genere musicale. Un’opera che, come il suo titolo, rompe le barriere tra i generi più bistrattati dagli ambiziosi registi ma che conquista al regista, allora in piena maturità anagrafica, un riconoscimento universale e un successo davvero impressionante al botteghino.
Raggiunta la dignità autoriale e conquistata una maggior autonomia creativa, arriva adesso il momento di sperimentare con le tecniche maturate lungo il percorso: Before Sunset (2004), è il sequel alla storia d’amore più famosa del cinema degli anni Novanta. Ritroviamo qui Jesse e Céline, ma non più a Vienna, bensì a Parigi: un budget maggiore e un copione più elaborato guadagnano a Linklater la candidatura agli Oscar per la Migliore Sceneggiatura. Il secondo capitolo di questa singolare avventura romantica appassiona ancor di più il pubblico, non tanto per l’effetto di nostalgia rievocato, ma piuttosto perché dimostra come il tempo, sia reale che cinematografico, può approfondire la sua ricezione.
Seguono nuovi anni di esplorazione tra i generi: ci sono il remake sul mondo del baseball Bad News Bears (2005); l’animazione distopica con Keanu Reeves protagonista A Scanner Darkly (2006), tratta dal romanzo di Philip K. Dick, l’indagine creativa che si fa mockumentary Fast Food Nation (2006); il coming of age dal gusto teatrale di Me and Orson Welles (2008); e infine la commedia nera, anch’essa resa attraverso il filtro documentario, Bernie (2011) con un Jack Black in stato di disgrazia. Tutti esperimenti, questi, in cui diventa necessario per il regista testare i confini tra verità e finzione, documento e rappresentazione. Il 2013 poi segna il ritorno alla coppia più amata, con Before Midnight: capitolo della maturità, l’epilogo che conclude la trilogia dell’amore. Dopo il romanticismo e la nostalgia, cosa rimane? La verità del quotidiano. Anche qui la prova del tempo, per Linklater, diventa un testamento poetico.

Bernie (2011)
Ma è con Boyhood (2014) che Linklater raggiunge piena consapevolezza della sua poetica. Dodici anni di riprese, una storia unica e un solo volto che cresce davanti alla macchina da presa. Boyhood è cinema al presente continuo: ogni inquadratura, un atto di fiducia nel futuro. Non il tempo che scorre qui, Linklater mette a testo quello che si deposita. L’etica del progetto diventa la sua morale: la sua fiducia nei collaboratori, nel caso, nel cambiamento. Boyhood gli vale il plauso universale e il riconoscimento dell’Academy che premia Patricia Arquette per Best Supporting Actress. Ma, soprattutto, segna la maturità di un autore che, sin dagli esordi, ha rappresentato la vita mai con metafore, ma come fenomeni naturali.
Raggiunta la vetta, è arrivato il momento di godersi il panorama: con Everybody Wants Some!! (2016) Linklater sembra tornare ai dispositivi serializzati da School of Rock, ma anche ripescare dal repertorio tematico di Dazed and Confused, oltre a proseguire la narrazione di Boyhood: una storia sul baseball che è anche un elogio alla giovinezza e tributo al racconto corale. Meno riuscito, forse, il tentativo di unire satira politica alla buddy comedy di Last Flag Flying (2017), così come l’altro adattamento dell’omonimo romanzo di Maria Semple, Where’d You Go, Bernadette (2019). Eppure, il personaggio di Cate Blanchett, un genio creativo in preda a una crisi d’intenti, pare qui rievocare il protagonista dell’esordio di Linklater- un essere minuscolo perso nell’architettura del mondo che desidera rappresentare. Si ha l’impressione, guardando la variegata gamma di lavori, che Linklater sia cresciuto attraverso la sua stessa opera.

Boyhood (2014)
I suoi lavori più recenti mostrano, sorprendentemente, una vitalità che non sembra voler esaurirsi. Apollo 10½ (2022) unisce memoria infantile e storia nazionale in un resoconto di stupore, mentre Hit Man (2023) è una dark comedy dalle tinte romantiche che conferma la sua capacità di rinnovare l’action movie, senza rinunciare alla leggerezza dell’effetto umoristico. Il penultimo lavoro, Blue Moon (2025), drammatizza i retroscena della prima produzione teatrale di uno dei pezzi più importanti del repertorio teatrale statunitense, Oklahoma!, vissuta attraverso lo sguardo del paroliere Lorenz Hart, e guadagna ad Andrew Scott l’Orso d’Argento nella categoria Supporting all’edizione appena passata di Berlino. In attesa di una data ufficiale per le sale italiane, al Rome Film Fest quest’anno Linklater presenta Nouvelle Vague, l’omaggio creativo alla genesi di À bout de souffle di Jean-Luc Godard, la cui distribuzione su Netflix è vicina - il 14 di questo novembre.
Un autore capace di oscillare tra il minimalismo contemplativo della quotidianità e l’esecuzione magistrale della screwball comedy da intrattenimento, ma anche e soprattutto una sensibilità creativa in dialogo continuo con il proprio tempo: Linklater ha fatto del cinema la sua materia primaria, la sua linfa vitale. Dal real time al life time, la sua carriera - lunga quasi quarant’anni - non è solo una filmografia: è la cronaca, raccontata per tappe, di una vita straordinaria. Il Premio alla Carriera che riceve a Roma oggi è la celebrazione di un percorso autoriale che non ha epilogo, ma rimane nel flusso costante. Un po’ come il titolo della sua prima opera, è impossibile imparare a lavorare leggendo solamente libri. E lui, con la sua esperienza è la dimostrazione in carne d’ossa che il cinema, proprio come la vita, si impara solo facendolo.

Nouvelle Vague (2025)
di Pavel Belli Micati
NC-351
24.10.2025

Richard Linklater durante le riprese di Nouvelle Vague (2025)
Autori più prolifici di Richard Linklater, al giorno d’oggi, è difficile vederne. Impegnato nel giro di presentazioni dell’ultima sua opera, Nouvelle Vague (2025), il regista statunitense ha fatto anche una sosta al Rome Film Fest, dove è stato insignito del Premio alla Carriera. Un elogio che arriva, come coronamento naturale di una filmografia lunga oltre quaranta anni - la carriera di una mente che, più che indagare il tempo, lo ha costantemente misurato, osservato e pure piegato ai propri scopi. La sua opera omnia funziona come una vecchia macchina, in attività da tanto tempo - ha bisogno di qualche sosta dal meccanico, sì, ogni tanto può incepparsi, certo, data l’età - eppure è e rimane garanzia di una qualità insolita da trovare in registi della sua generazione meglio inseriti nelle coordinate della propria autorialità.
Nato in Texas nel 1960, cresciuto tra Houston e Huntsville, il giovane Linklater si annoia a scuola e così abbandona l’università, preferendo allo studio sui libri il praticantato su una piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico. Forse è dà lì che inizia a prendere forma l’ingegneria del suo processo creativo: quel concetto secondo cui anche l’architettura più precaria possa trasformarsi in un atto poetico. È la sensibilità che analizza il presente nella sua manifestazione, e dal suo primo lungo, It’s Impossible to Learn to Plow by Reading Books (1988) - da lui scritto, diretto e anche interpretato - già emerge la sua poetica: qui è un Jeanne Dielman incastrato nella monotonia del quotidiano che attraversa l’America alla scoperta di se stesso. In questo esercizio iniziale sono disseminati i temi che Linklater coltiverà lungo tutta la sua carriera: l’alienazione dal mondo, il desiderio di organicità e, soprattutto, quella stessa tensione tra immobilità dello spazio e un tempo che, inesorabilmente, scorre.
Con Dazed and Confused (1993), Linklater mette a punto la sua interpretazione della gioventù statunitense nell’epoca post-Reagan. Più che storie nel senso drammaturgico del termine, questi ragazzi turbati e confusi si offrono a ritratti corali, mosaici di conversazioni, flussi di coscienza e istantanee generazionali volte a offrire una visione d’insieme di una precisa epoca storica. Vantando un cast di promesse hollywoodiane, tra cui dei giovanissimi Matthew McConaughey e Parker Posey, quest’opera riprende l’architettura impostata da Slacker (1990), una dramedy corale il cui racconto informa la sua stessa trama e ne indirizza la ricezione del suo pubblico - e lo porrà, sin d’allora, all’attenzione sia della critica dei circuiti festivalieri che delle major produttive alla ricerca di talenti su cui investire.

Dazed and Confused (1993)
Se nel cinema l’azione può sostituirsi al dialogo, la dialettica deve diventare una prova di empatia: Before Sunrise (1995), oltre a cristallizzare nell’immaginario cinematografico la coppia Delpy-Hawke, inaugura anche un altro tragitto esplorato da Linklater, sul quale tornerà più volte nel corso della sua carriera: il concetto di film come diario, e il cinema in cui si inserisce, una letteratura che non ha bisogno di grandi gesta o di attente verifiche - perché anche una storia romantica, raccontata per mezzo di dialoghi quasi improvvisati, e in un tempo filmico che sembra reale ma che è in realtà interiore, può omaggiare l’eredità di geni discorsivi come Rohmer e Altman, oltre a drammatizzare un sentimento che rompe con i confini temporali e geografici. Anche questo romance dalla struttura atipica appassiona il pubblico e affascina la critica, che a Berlino consegna a Linklater l’Orso d’Argento per la Miglior Regia.
Al 1996 risale il suo primo adattamento letterario, la SubUrbia di Eric Bogosian. Se la critica qui lamenta un’eccessiva frammentarietà che ne complica la godibilità, è anche perché Linklater sente il bisogno di corrispondere quell’alienazione suburbana, ormai collaudata, a un’ipostasi registica che ne sia davvero all’altezza. Segue The Newton Boys (1998), una heist-comedy ambientata negli anni Venti, una risposta al suo interesse per la Storia Americana, sia come costruzione di un genere, sia come romanzamento del suo mito. Neanche questo film riscuote successo, né dai critici né dagli amatori, magari proprio perché il regista, nell’utilizzo che fa degli stilemi e delle impalcature che costruiscono la classica commedia d’azione, sembra penalizzarne la visione stessa.
Così nel 2001 Linklater opera un altro tentativo - ossia sperimentare attraverso forme e contenuti al fine di creare qualcosa di tanto unico quanto la vita stessa: Waking Life è la rotoscopia di una sensibilità a cui non bastano le strutture messe a disposizione dal cinema per esprimere le proprie idee - lui deve superarle. Se questo esperimento viene accolto a braccia aperte dai recensori del Sundance, lascia però il pubblico indifferente, alla sua uscita nelle sale. Ma Linklater non si dà per vinto, e sempre nello stesso anno firma la regia di Tape, un’opera metacinematografica, realizzata con una videocamera e ambientata nella stanza di un motel: in questo microcosmo teatrale dove le parole diventano sentenze, Ethan Hawke e Robert Sean Leonard danno corpo a una dialettica che rispecchia e conferma il realismo etico di quella che diverrà la trilogia dell’amore.

Before Sunrise (1995)
Ma è con School of Rock (2003), che Linklater si guadagna l’accesso illimitato alle grandi e grosse produzioni di Hollywood: su un copione firmato da Mike White (The White Lotus), il regista texano costruisce un panopticon visuale che è al contempo musical, racconto di formazione e tributo al genere musicale. Un’opera che, come il suo titolo, rompe le barriere tra i generi più bistrattati dagli ambiziosi registi ma che conquista al regista, allora in piena maturità anagrafica, un riconoscimento universale e un successo davvero impressionante al botteghino.
Raggiunta la dignità autoriale e conquistata una maggior autonomia creativa, arriva adesso il momento di sperimentare con le tecniche maturate lungo il percorso: Before Sunset (2004), è il sequel alla storia d’amore più famosa del cinema degli anni Novanta. Ritroviamo qui Jesse e Céline, ma non più a Vienna, bensì a Parigi: un budget maggiore e un copione più elaborato guadagnano a Linklater la candidatura agli Oscar per la Migliore Sceneggiatura. Il secondo capitolo di questa singolare avventura romantica appassiona ancor di più il pubblico, non tanto per l’effetto di nostalgia rievocato, ma piuttosto perché dimostra come il tempo, sia reale che cinematografico, può approfondire la sua ricezione.
Seguono nuovi anni di esplorazione tra i generi: ci sono il remake sul mondo del baseball Bad News Bears (2005); l’animazione distopica con Keanu Reeves protagonista A Scanner Darkly (2006), tratta dal romanzo di Philip K. Dick, l’indagine creativa che si fa mockumentary Fast Food Nation (2006); il coming of age dal gusto teatrale di Me and Orson Welles (2008); e infine la commedia nera, anch’essa resa attraverso il filtro documentario, Bernie (2011) con un Jack Black in stato di disgrazia. Tutti esperimenti, questi, in cui diventa necessario per il regista testare i confini tra verità e finzione, documento e rappresentazione. Il 2013 poi segna il ritorno alla coppia più amata, con Before Midnight: capitolo della maturità, l’epilogo che conclude la trilogia dell’amore. Dopo il romanticismo e la nostalgia, cosa rimane? La verità del quotidiano. Anche qui la prova del tempo, per Linklater, diventa un testamento poetico.

Bernie (2011)
Ma è con Boyhood (2014) che Linklater raggiunge piena consapevolezza della sua poetica. Dodici anni di riprese, una storia unica e un solo volto che cresce davanti alla macchina da presa. Boyhood è cinema al presente continuo: ogni inquadratura, un atto di fiducia nel futuro. Non il tempo che scorre qui, Linklater mette a testo quello che si deposita. L’etica del progetto diventa la sua morale: la sua fiducia nei collaboratori, nel caso, nel cambiamento. Boyhood gli vale il plauso universale e il riconoscimento dell’Academy che premia Patricia Arquette per Best Supporting Actress. Ma, soprattutto, segna la maturità di un autore che, sin dagli esordi, ha rappresentato la vita mai con metafore, ma come fenomeni naturali.
Raggiunta la vetta, è arrivato il momento di godersi il panorama: con Everybody Wants Some!! (2016) Linklater sembra tornare ai dispositivi serializzati da School of Rock, ma anche ripescare dal repertorio tematico di Dazed and Confused, oltre a proseguire la narrazione di Boyhood: una storia sul baseball che è anche un elogio alla giovinezza e tributo al racconto corale. Meno riuscito, forse, il tentativo di unire satira politica alla buddy comedy di Last Flag Flying (2017), così come l’altro adattamento dell’omonimo romanzo di Maria Semple, Where’d You Go, Bernadette (2019). Eppure, il personaggio di Cate Blanchett, un genio creativo in preda a una crisi d’intenti, pare qui rievocare il protagonista dell’esordio di Linklater- un essere minuscolo perso nell’architettura del mondo che desidera rappresentare. Si ha l’impressione, guardando la variegata gamma di lavori, che Linklater sia cresciuto attraverso la sua stessa opera.

Boyhood (2014)
I suoi lavori più recenti mostrano, sorprendentemente, una vitalità che non sembra voler esaurirsi. Apollo 10½ (2022) unisce memoria infantile e storia nazionale in un resoconto di stupore, mentre Hit Man (2023) è una dark comedy dalle tinte romantiche che conferma la sua capacità di rinnovare l’action movie, senza rinunciare alla leggerezza dell’effetto umoristico. Il penultimo lavoro, Blue Moon (2025), drammatizza i retroscena della prima produzione teatrale di uno dei pezzi più importanti del repertorio teatrale statunitense, Oklahoma!, vissuta attraverso lo sguardo del paroliere Lorenz Hart, e guadagna ad Andrew Scott l’Orso d’Argento nella categoria Supporting all’edizione appena passata di Berlino. In attesa di una data ufficiale per le sale italiane, al Rome Film Fest quest’anno Linklater presenta Nouvelle Vague, l’omaggio creativo alla genesi di À bout de souffle di Jean-Luc Godard, la cui distribuzione su Netflix è vicina - il 14 di questo novembre.
Un autore capace di oscillare tra il minimalismo contemplativo della quotidianità e l’esecuzione magistrale della screwball comedy da intrattenimento, ma anche e soprattutto una sensibilità creativa in dialogo continuo con il proprio tempo: Linklater ha fatto del cinema la sua materia primaria, la sua linfa vitale. Dal real time al life time, la sua carriera - lunga quasi quarant’anni - non è solo una filmografia: è la cronaca, raccontata per tappe, di una vita straordinaria. Il Premio alla Carriera che riceve a Roma oggi è la celebrazione di un percorso autoriale che non ha epilogo, ma rimane nel flusso costante. Un po’ come il titolo della sua prima opera, è impossibile imparare a lavorare leggendo solamente libri. E lui, con la sua esperienza è la dimostrazione in carne d’ossa che il cinema, proprio come la vita, si impara solo facendolo.

Nouvelle Vague (2025)