NC-309
06.06.2025
Nell’ultima opera di Wes Anderson, The Phoenician Scheme (La trama fenicia, 2025), presentata in Concorso durante l’ultimo Festival di Cannes, a metà del secondo atto, Zsa-Zsa Korda (Benicio Del Toro) fa il suo ingresso nel Ministero dell’Eredità Intangibile, scontrandosi subito con l’assurdità della burocrazia. Questo momento segna l’irruzione del protagonista come autentico agente del caos: altera tono e codici linguistici del film e distorce lo spazio simmetrico della macchina da presa, introducendo una logica narrativa disfunzionale che ricorda i sabotatori del reale in Playtime (1967) di Jacques Tati - da sempre uno degli ispiratori occulti del cinema di Anderson.
Una sequenza che si configura come una dichiarazione d’intenti, poiché consente allo spettatore di cogliere l’evoluzione della visione andersoniana. La filmografia e la poetica del regista texano sono state a lungo associate a uno stile estremamente riconoscibile: simmetria compositiva, palette cromatiche rigorose, narrazioni retrodatate e controllate e personaggi iper-stilizzati al limite del parodico - spesso veri e propri stereotipi narrativi. Tuttavia, negli ultimi anni, queste convenzioni sono state progressivamente disinnescate dallo stesso Anderson, in un percorso di auto-interrogazione meta-cinematografica che radicalizza le sue ossessioni formali e ne ridefinisce le funzioni.
A partire da The French Dispatch (2021), si assiste a un mutamento profondo: la poetica del cineasta entra in crisi epistemologica, mettendo in discussione narrazione, rappresentabilità e autorialità. Il film è strutturato come un collage di racconti eterogenei, ciascuno con registri, generi e linguaggi differenti, ricalcando la forma di una rivista dove ogni articolo rappresenta un episodio. Malgrado l’apparente compostezza visiva, il lungometraggio è intriso di una malinconia radicale. Infatti, ogni storia diventa un’eco sbiadita di un passato inaccessibile, che può solo essere contemplato, non posseduto.
Wes Anderson a lavoro sul set
L'omaggio di Anderson, in The French Dispatch (2021), a Mon oncle (Mio zio, 1958) del Maestro Jacques Tati
In quest’ottica, anche l’uso del citazionismo che permea i vari episodi del film - da Tati a Godard passando per F For Fake (F per Falso, 1975) di Orson Welles - non è più un mero strumento ironico, bensì diventa gesto tombale, un commiato nei confronti di un approccio cinematografico che, nella testa del regista, non può più esistere se non come meta-riflessione continua, dove l’atto di raccontare è sempre ritardato, spostato, interrogato.
Proprio da qui parte la dissoluzione cinematografica di Anderson, che con Asteroid City (2023) e l’antologico The Wonderful Story of Henry Sugar and Three More (La meravigliosa storia di Henry Sugar e altre tre storie, 2024) approfondisce questa crisi e riparte dal grado zero della narrazione. L'intelaiatura di entrambe le opere è una mise en abyme, dove ogni racconto ne contiene altri, in una struttura a incastro che genera straniamento e disorientamento. Si tratta di un processo di dissoluzione molecolare del suo stile, un’auto-distruzione consapevole finalizzata a smascherare l’artificio della narrazione per poi ricominciare, appunto, da zero.
Non è un caso che i personaggi di Asteroid City siano tutti bloccati in un deserto che rievoca da vicino il cinema sci-fi degli anni ’50. Quello di Anderson non è solo un non-luogo, quanto l’espressione di un cinema che va avanti e procede per la sua strada senza nemmeno comprendere il perché, bloccato in un limbo che è fisico e meta-fisico allo stesso tempo. E lo stesso film si muove all’interno di un contesto dove medium diversi, quali teatro, televisione, cinema e fumetto si intrecciano creando un vero e proprio iper-testo che frantuma l’identità del racconto. Gli attori non coincidono più con i personaggi narrati, e nemmeno i personaggi coincidono con la propria funzione narrativa.
I personaggi di Asteroid City (2023)
Wes Anderson, così, mette in crisi la sua stessa ontologia filmica, in un corto circuito in cui l’estetica non è più costruzione e la simmetria non è più carattere distintivo, quanto strumento per smontare la realtà. The Phoenician Scheme, in questo senso, è forse l’opera in cui questa metamorfosi giunge al suo culmine. Nel racconto dell’ennesima famiglia disfunzionale del cinema dell'autore “indie”, l’impianto del racconto viene asciugato al minimo, incastonato in un impianto visivo controllato, ma ormai logorato dalla sua stessa ripetizione. Il ricorso al genere (in questo caso lo spy movie) diventa allora strumento per riflettere sulle idiosincrasie di un cinema in crisi, in uno stato quasi vegetativo.
In molti identificano la metamorfosi di The Phoenician Scheme come tarda maniera, ma in realtà dietro la presunta stanchezza formale si cela un rinnovato impulso dialettico, un nuovo tentativo di intensificazione linguistica. Nel mettere in scena il suo ultimo film, opera complessa, oscura e ambigua e proprio per questo affascinante, Wes Anderson piega molti tratti distintivi del suo cinema a un’allegoria politica che, per la prima volta, cambia il ruolo della forma all’interno dei suoi film: non più nostalgia performativa, quanto piuttosto vero e proprio linguaggio ideologico e strumento di lettura della realtà.
Dietro la Fenicia immaginaria del film, infatti, si celano suggestioni iconografiche che rimandano alla questione palestinese e che definiscono gli spazi come terre “colonizzate”, progettate per altri e soggette a narrazioni esterne. Questo cambio di rotta si ripercuote inevitabilmente anche sull’estetica, che scivola da un’attitudine simmetrica ad una “post-simmetrica”. Se nei film precedenti l’universo andersoniano era chiuso, perfettamente armonico - pensando, ad esempio, alla casa di The Royal Tenenbaum (I Tenenbaum, 2001) o all’hotel di Grand Budapest Hotel (2014), qui, pur mantenendo l’impianto geometrico, il dècor appare decisamente più consunto, desueto, segnato dal fallimento. La diga incompiuta, il palazzo ministeriale fatiscente, l’ospedale conventuale sono tutti spazi che disattendono il classico “ordine andersoniano”, ponendosi come rottura dello stile.
Benicio del Toro, protagonista di The Phoenician Scheme (2025)
Anderson passa dunque, da un cinema apparentemente incasellato in manie completamente comfort per i suoi spettatori, a un tipo di racconto in cui a prevalere è la linea politica. In questo senso, anche Liesl (interpretata da Mia Threapleton), novizia ritiratasi in un convento-ospedale ai margini del conflitto, ricopre un ruolo fondamentale. Proprio lei, infatti, si occupa di fare da oppositrice al padre magnate (interpretato da Benicio Del Toro), rifiutando di partecipare al grande “schema fenicio” e facendosi portavoce del rimosso indigeno. Attraverso la sua figura, il passato torna a farsi visibile.
The Phoenician Scheme non simula più un diorama perfettamente nostalgico: mette in scena un mondo che ha già dimenticato le sue vittime, spingendo l’estetica andersoniana verso una malinconia più consapevole, disillusa e ideologicamente inquieta.
NC-309
06.06.2025
Wes Anderson a lavoro sul set
Nell’ultima opera di Wes Anderson, The Phoenician Scheme (La trama fenicia, 2025), presentata in Concorso durante l’ultimo Festival di Cannes, a metà del secondo atto, Zsa-Zsa Korda (Benicio Del Toro) fa il suo ingresso nel Ministero dell’Eredità Intangibile, scontrandosi subito con l’assurdità della burocrazia. Questo momento segna l’irruzione del protagonista come autentico agente del caos: altera tono e codici linguistici del film e distorce lo spazio simmetrico della macchina da presa, introducendo una logica narrativa disfunzionale che ricorda i sabotatori del reale in Playtime (1967) di Jacques Tati - da sempre uno degli ispiratori occulti del cinema di Anderson.
Una sequenza che si configura come una dichiarazione d’intenti, poiché consente allo spettatore di cogliere l’evoluzione della visione andersoniana. La filmografia e la poetica del regista texano sono state a lungo associate a uno stile estremamente riconoscibile: simmetria compositiva, palette cromatiche rigorose, narrazioni retrodatate e controllate e personaggi iper-stilizzati al limite del parodico - spesso veri e propri stereotipi narrativi. Tuttavia, negli ultimi anni, queste convenzioni sono state progressivamente disinnescate dallo stesso Anderson, in un percorso di auto-interrogazione meta-cinematografica che radicalizza le sue ossessioni formali e ne ridefinisce le funzioni.
A partire da The French Dispatch (2021), si assiste a un mutamento profondo: la poetica del cineasta entra in crisi epistemologica, mettendo in discussione narrazione, rappresentabilità e autorialità. Il film è strutturato come un collage di racconti eterogenei, ciascuno con registri, generi e linguaggi differenti, ricalcando la forma di una rivista dove ogni articolo rappresenta un episodio. Malgrado l’apparente compostezza visiva, il lungometraggio è intriso di una malinconia radicale. Infatti, ogni storia diventa un’eco sbiadita di un passato inaccessibile, che può solo essere contemplato, non posseduto.
L'omaggio di Anderson, in The French Dispatch (2021), a Mon oncle (Mio zio, 1958) del Maestro Jacques Tati
In quest’ottica, anche l’uso del citazionismo che permea i vari episodi del film - da Tati a Godard passando per F For Fake (F per Falso, 1975) di Orson Welles - non è più un mero strumento ironico, bensì diventa gesto tombale, un commiato nei confronti di un approccio cinematografico che, nella testa del regista, non può più esistere se non come meta-riflessione continua, dove l’atto di raccontare è sempre ritardato, spostato, interrogato.
Proprio da qui parte la dissoluzione cinematografica di Anderson, che con Asteroid City (2023) e l’antologico The Wonderful Story of Henry Sugar and Three More (La meravigliosa storia di Henry Sugar e altre tre storie, 2024) approfondisce questa crisi e riparte dal grado zero della narrazione. L'intelaiatura di entrambe le opere è una mise en abyme, dove ogni racconto ne contiene altri, in una struttura a incastro che genera straniamento e disorientamento. Si tratta di un processo di dissoluzione molecolare del suo stile, un’auto-distruzione consapevole finalizzata a smascherare l’artificio della narrazione per poi ricominciare, appunto, da zero.
Non è un caso che i personaggi di Asteroid City siano tutti bloccati in un deserto che rievoca da vicino il cinema sci-fi degli anni ’50. Quello di Anderson non è solo un non-luogo, quanto l’espressione di un cinema che va avanti e procede per la sua strada senza nemmeno comprendere il perché, bloccato in un limbo che è fisico e meta-fisico allo stesso tempo. E lo stesso film si muove all’interno di un contesto dove medium diversi, quali teatro, televisione, cinema e fumetto si intrecciano creando un vero e proprio iper-testo che frantuma l’identità del racconto. Gli attori non coincidono più con i personaggi narrati, e nemmeno i personaggi coincidono con la propria funzione narrativa.
I personaggi di Asteroid City (2023)
Wes Anderson, così, mette in crisi la sua stessa ontologia filmica, in un corto circuito in cui l’estetica non è più costruzione e la simmetria non è più carattere distintivo, quanto strumento per smontare la realtà. The Phoenician Scheme, in questo senso, è forse l’opera in cui questa metamorfosi giunge al suo culmine. Nel racconto dell’ennesima famiglia disfunzionale del cinema dell'autore “indie”, l’impianto del racconto viene asciugato al minimo, incastonato in un impianto visivo controllato, ma ormai logorato dalla sua stessa ripetizione. Il ricorso al genere (in questo caso lo spy movie) diventa allora strumento per riflettere sulle idiosincrasie di un cinema in crisi, in uno stato quasi vegetativo.
In molti identificano la metamorfosi di The Phoenician Scheme come tarda maniera, ma in realtà dietro la presunta stanchezza formale si cela un rinnovato impulso dialettico, un nuovo tentativo di intensificazione linguistica. Nel mettere in scena il suo ultimo film, opera complessa, oscura e ambigua e proprio per questo affascinante, Wes Anderson piega molti tratti distintivi del suo cinema a un’allegoria politica che, per la prima volta, cambia il ruolo della forma all’interno dei suoi film: non più nostalgia performativa, quanto piuttosto vero e proprio linguaggio ideologico e strumento di lettura della realtà.
Dietro la Fenicia immaginaria del film, infatti, si celano suggestioni iconografiche che rimandano alla questione palestinese e che definiscono gli spazi come terre “colonizzate”, progettate per altri e soggette a narrazioni esterne. Questo cambio di rotta si ripercuote inevitabilmente anche sull’estetica, che scivola da un’attitudine simmetrica ad una “post-simmetrica”. Se nei film precedenti l’universo andersoniano era chiuso, perfettamente armonico - pensando, ad esempio, alla casa di The Royal Tenenbaum (I Tenenbaum, 2001) o all’hotel di Grand Budapest Hotel (2014), qui, pur mantenendo l’impianto geometrico, il dècor appare decisamente più consunto, desueto, segnato dal fallimento. La diga incompiuta, il palazzo ministeriale fatiscente, l’ospedale conventuale sono tutti spazi che disattendono il classico “ordine andersoniano”, ponendosi come rottura dello stile.
Benicio del Toro, protagonista di The Phoenician Scheme (2025)
Anderson passa dunque, da un cinema apparentemente incasellato in manie completamente comfort per i suoi spettatori, a un tipo di racconto in cui a prevalere è la linea politica. In questo senso, anche Liesl (interpretata da Mia Threapleton), novizia ritiratasi in un convento-ospedale ai margini del conflitto, ricopre un ruolo fondamentale. Proprio lei, infatti, si occupa di fare da oppositrice al padre magnate (interpretato da Benicio Del Toro), rifiutando di partecipare al grande “schema fenicio” e facendosi portavoce del rimosso indigeno. Attraverso la sua figura, il passato torna a farsi visibile.
The Phoenician Scheme non simula più un diorama perfettamente nostalgico: mette in scena un mondo che ha già dimenticato le sue vittime, spingendo l’estetica andersoniana verso una malinconia più consapevole, disillusa e ideologicamente inquieta.