In occasione del ritorno in sala di Film Bianco,
un'analisi del poema di Kieślowski,
di Sofia Sardella
TR-87
10.10.2023
Se normalmente parlare di cinema è un compito arduo - in quanto spesso chi decide di esprimersi utilizzando questa forma d’arte lo fa proprio nel tentativo di sfuggire al regno della spiegazione esplicita - nel caso di Krzysztof Kieślowski la situazione si complica ulteriormente.
In un’intervista Irène Jacob, attrice prediletta dal regista, raccontò che Kieślowski si occupò di documentari prima di cominciare a realizzare film narrativi. Il cineasta polacco, infatti, amava cogliere la realtà nei suoi aspetti più profondi, ma, racconta sempre la Jacob, ad un certo punto si ritrovò ostacolato da un limite: l’intimità umana. Se gli eventi storici possono essere rappresentati in maniera diretta, i sentimenti umani, con tutte le complicanze ad essi collegate, non concedono questa possibilità: è qui che nacque nel regista - non a caso vicino al mondo del teatro - il desiderio di costruire delle storie che gli consentissero di mettere in scena tutto ciò che risultava “indocumentabile”. Proprio per questo motivo esplicitare le possibili intenzioni dell’autore comporta una responsabilità non indifferente; Kieślowski scelse il cinema in modo da costruire delle immagini che colpissero il subconscio dello spettatore e che, senza la necessità di utilizzare parole, lo portassero a sentirsi parte di un flusso di fotogrammi e dei rimandi che li collegavano l’uno all’altro.
La Trilogia dei colori, uno dei lavori più noti del regista, è costituita da tre opere: Film Blu (1993), Film Bianco (1994) e Film Rosso (1994). Il progetto si basa sulla reinterpretazione dei valori fondanti della Repubblica Francese, rappresentati dai colori della sua bandiera: rispettivamente Liberté, Égalité e Fraternité. Kieślowski si dedicò intensamente ai tre film - capitava che durante le riprese di uno lavorasse al montaggio dell’altro, ad esempio - e con la Trilogia concluse anche la sua carriera: temeva di non avere altro da raccontare. Per riuscire ad approfondire al meglio l’analisi delle singole pellicole è necessario delineare i tratti distintivi della filosofia che permea l’intera opera dell’autore, e che traspare chiaramente in lavori precedenti come il Decalogo (1988-1989) o La doppia vita di Veronica (1991).
Il regista ha infatti una visione precisa del mondo, è un artista malinconico, ma incapace di abbandonare un fondamentale entusiasmo nei confronti dell’esistenza, conferitogli dalla convinzione che ci siano delle forze esterne e regolatrici degli avvenimenti umani, inaccessibili e incomprensibili, tessitrici di un’intricata rete di connessioni. I personaggi della Trilogia dei colori sono continuamente agitati da un moto centrifugo, a causa del quale si ritrovano ad essere allontanati e poi riavvicinati, incrociando i loro percorsi per poi viaggiare su binari paralleli e viceversa. Questo processo, già magistralmente rappresentato in La doppia vita di Veronica, riesce ad emergere di tanto in tanto nella Trilogia grazie ad alcuni rimandi, che spesso colpiscono lo spettatore senza che egli se ne renda nemmeno conto.
Quando a Kieślowski veniva chiesto perché riponesse tanta fiducia in un pubblico sempre più distratto, lui rispondeva di non pretendere una totale comprensione, sostenendo, anzi, che il regista avesse la responsabilità di costruire un ponte tra il proprio mondo e quello dello spettatore; ciononostante era convinto che chiunque potesse almeno percepire un legame tra scene e personaggi apparentemente sconnessi nei suoi film. Simbolico è in questo senso il Palazzo di Giustizia, edificio che reca incisi - non è un caso - i tre valori della Repubblica Francese: proprio in questo edificio, durante Film Blu, ricercando la libertà, entra Julie - che incrocia lo sguardo di Dominique, personaggio della pellicola successiva - così come Karol, desideroso di uguaglianza in Film Bianco, e poi ancora l’anziano giudice di Film Rosso autodenunciatosi alle autorità.
In altri istanti lo spettatore si ritrova invece colpito da una sorta di risonanza: percepisce che una certa scena sia già apparsa in precedenza - come nel caso della valigia sul nastro trasportatore in Film Bianco - oppure che un determinato luogo sia già stato inquadrato - basti pensare alla chiesa di Film Rosso - ma cosa significano queste scelte? Kieślowski ci parla di una fondamentale interconnessione. Mentre siamo concentrati sulle vicende di un determinato protagonista, anche le vite di tutti gli altri si dipanano parallelamente.
Esemplificativa di questa filosofia è la scena che vede un anziano incurvito affannarsi nel tentativo di gettare la bottiglia nella campana del vetro, ripetuta nei tre film al fine di mostrare le diverse reazioni dei protagonisti: Julie nemmeno lo nota, assorbita dal proprio dolore; Karol sorride maliziosamente, divertito dalla situazione; Valentine aiuta l’uomo e la bottiglia cade finalmente nella campana. Certamente, però, il momento in cui il legame tra vite apparentemente sconnesse diventa palese è quello a cui assistiamo alla fine di Film Rosso, che vede tutti i protagonisti riuniti a causa di un evento di cronaca.
Seguendo il filo di questo discorso giungiamo ad un’ulteriore conclusione: non esistono veri protagonisti. Come in un documentario si da spazio a soggetti precisi che rappresentano una situazione generale, così i film della Trilogia sono dei primi piani, racconti esemplificativi di condizioni che coinvolgono l’umanità intera. Juliette Binoche spiega come durante le riprese di Film Blu si ritrovasse ad essere inquadrata in maniera estremamente ravvicinata: all’inizio del film ad essere ripreso è un occhio, mentre più avanti vediamo il suo volto sotto le lenzuola. Kieślowski credeva molto nell’efficacia del primo piano perché voleva che lo spettatore empatizzasse con il protagonista, immergendosi in un determinato punto di vista e perdendo se stesso nel racconto.
In un’intervista il regista raccontò di aver fatto un esperimento: in una stanza piena di persone ce n’è sempre una che spicca, attirando l’attenzione dell’intero gruppo, che inizia ad interessarsi a quest’ultima. Le caratteristiche di un volto e le inclinazioni di un determinato attore erano oggetto di studio da parte di Kieślowski, che spesso scriveva le parti pensando ad un interprete preciso, per poi pretendere che fosse necessariamente quest’ultimo ad incarnare il ruolo.
Ad oggi sappiamo che le sue scelte hanno scaturito l’effetto desiderato: i volti protagonisti dei tre film sono indimenticabili, ognuno per motivi diversi, e ci trascinano in tre storie che, per quanto riguardino tematiche comuni, restano impresse nella memoria di chi guarda, trascinandolo da una circostanza all’altra grazie alla sottile architettura che il regista costruisce e costituendo un’armonia della quale fanno parte anche i momenti apparentemente più irrazionali
Ciononostante questo accade perché siamo davanti allo schermo: i protagonisti veri e propri continuano a non esistere. Julie, Karol, Dominique, Valentine, Auguste sono solo esempi scelti. Ultima ma altrettanto notevole caratteristica della filosofia che stiamo andando a delineare è quella della dicotomia. Nei film della Trilogia emerge una costante contraddizione: i valori attorno ai quali sono costruite le narrazioni fungono infatti da salvezza e condanna per i personaggi.
In Film Blu Julie è brutalmente schiacciata dal peso di una realtà che le ha strappato marito e figlia, un peso del quale lei tenta di liberarsi fuggendo, chiudendosi in una bolla di “niente”, come spiega anche alla madre, escludendo se stessa da un passato troppo gravoso. In questa condizione di stallo raggiungere la tanto agognata libertà è impossibile, in quanto la protagonista non riesce più ad aderire al mondo che la circonda, limitandosi a non vivere. Julie si dimena, tenta di occludere le strade che possano ricondurla al suo passato, ma non ci riesce, perché intanto la vita intorno a lei prosegue; così cambia casa, ma nel momento in cui emerge dalla soffocante piscina che sembra garantirle una via di fuga dal mondo, una folla di bambini si tuffa, riportandola con la mente al ricordo della figlia perduta.
Julie decide allora di adottare una nuova strategia; lasciandosi attrarre inevitabilmente da quel magnetico passato che continua a riecheggiare, scopre qualcosa di nuovo sul marito: recandosi al Palazzo di Giustizia in cerca di una libertà che le conceda di continuare a vivere, si ritrova a far fronte ad una versione non idealizzata del proprio dramma, così fugge e torna ad immergersi nella sua piscina. La dicotomia nella storia di Julie sta tra l’essere trattenuti e il lasciarsi andare, tra il rinchiudersi nel dolore e il gettarsi tra le braccia di un nuovo amante; un costante tira e molla in cui anche il silenzio risulta troppo rumoroso e la musica di un passato irrimediabilmente terminato irrompe brutalmente nel presente. L’unico modo di raggiungere la liberté per Julie è porre fine alla composizione incompiuta del marito e lasciarsi finalmente andare al pianto.
In Film Bianco il tema diventa invece quello dell’ uguaglianza. Karol, che si trova nel Palazzo di Giustizia, poiché la moglie richiede il divorzio, si appella ai giudici gridando: Où est l’égalité? Ben presto comprendiamo però che nel rapporto amoroso l’uguaglianza è raggiungibile solo in istanti fugaci. Dominique, infatti, prevale sullo sconsolato Karol, finché quest’ultimo, ormai arricchitosi grazie ad un inganno, riesca a riottenere la compagna per poi offrirle finalmente il piacere da lei bramato e sparire: a questo punto è Dominique a sottostare all’ex marito.
Kieślowski dichiarò che il film rappresentasse l’umiliazione, ed effettivamente l’amore è qui ritratto nei suoi aspetti più volgari e poco romantici, ma ancora una volta ci troviamo davanti ad una dicotomia: l’uguaglianza è forse pienamente raggiungibile solo per un attimo, eppure è ciò che desideriamo incessantemente in un rapporto, è una condanna, poiché la ricerchiamo, nonostante la realtà la renda praticamente inafferrabile.
Alla fine della pellicola l’uguaglianza sembra essere stata ottenuta con un espediente particolare: Dominique dichiara il suo amore a Karol da una prigione, che impedisce ai due di stare fisicamente insieme; come in Film Blu, il protagonista può adesso lasciarsi andare al pianto.
Film Rosso, opera ultima della Trilogia, si incentra invece sulla fraternité. In questo caso vediamo due storie che si sviluppano parallelamente: quella di Valentine e quella di Auguste. Valentine è una modella dai bei modi, asfissiata da un rapporto complesso con la famiglia e da un fidanzato lontano e scontroso; ben presto incontra un anziano giudice, intrappolato in una solitudine che lo ha condotto a passare il tempo spiando le vite degli altri, il quale, se inizialmente la scandalizza, si rivela poi capace di comprenderla, arrivando a stabilire un legame profondo con la giovane. Dall’altra parte Auguste è un ragazzo che sta iniziando la sua carriera come giudice - non è un caso che ci sia questa ripetizione - e che, quando può, passa del tempo con la fidanzata.
Se all’inizio del film non riusciamo bene a comprendere il legame tra queste due esistenze vicine ma parallele, come dimostrano le inquadrature che vedono spesso i due personaggi sul punto di incontrarsi, capiamo ad un certo punto come la vita di Auguste non sia altro che il passato dell’anziano giudice. Questo, però, non significa necessariamente che il giudice sia Auguste; se infatti il primo racconta di non aver mai più trovato l’amore dopo essere stato vittima di tradimento, il secondo incontra Valentine.
Kieślowski, che era affascinato dall’idea di poter tornare nel passato per agire con la consapevolezza del presente, utilizza Film Rosso per onorare questo suo instancabile entusiasmo nei confronti della vita. In un’intervista racconta: “Non so chi sono e non so cosa voglio. Se dovessi scegliere, mi piacerebbe un po’ di pace e quiete, ma non le ho mai ottenute e probabilmente mai ci riuscirò. Quindi non avrò mai ciò che desidero realmente.” Da queste parole comprendiamo come Kieślowski proietti probabilmente se stesso nell’anziano giudice; il cinema, però, offre l’opportunità di concedere un maggiore spazio a quell’entusiasmo, citato in precedenza, che spesso nella vita non trova riscontro alcuno.
Ecco allora che il tempo sembra divenire circolare, vite che nel mondo reale non si incontrano mai qui riescono ad incrociare i loro percorsi, e la fratellanza, che alle volte - sempre per la stessa natura dicotomica delle cose - funge da condanna - costringendoci in legami di sangue che non offrono possibilità di evasione - riesce qui a divenire un qualcosa che va oltre la famiglia, arrivando a legare un uomo ormai anziano e solo ad una ragazza giovane e da poco entrata nella vita.
In occasione del ritorno in sala di Film Bianco,
un'analisi del poema di Kieślowski,
di Sofia Sardella
TR-87
10.10.2023
Se normalmente parlare di cinema è un compito arduo - in quanto spesso chi decide di esprimersi utilizzando questa forma d’arte lo fa proprio nel tentativo di sfuggire al regno della spiegazione esplicita - nel caso di Krzysztof Kieślowski la situazione si complica ulteriormente.
In un’intervista Irène Jacob, attrice prediletta dal regista, raccontò che Kieślowski si occupò di documentari prima di cominciare a realizzare film narrativi. Il cineasta polacco, infatti, amava cogliere la realtà nei suoi aspetti più profondi, ma, racconta sempre la Jacob, ad un certo punto si ritrovò ostacolato da un limite: l’intimità umana. Se gli eventi storici possono essere rappresentati in maniera diretta, i sentimenti umani, con tutte le complicanze ad essi collegate, non concedono questa possibilità: è qui che nacque nel regista - non a caso vicino al mondo del teatro - il desiderio di costruire delle storie che gli consentissero di mettere in scena tutto ciò che risultava “indocumentabile”. Proprio per questo motivo esplicitare le possibili intenzioni dell’autore comporta una responsabilità non indifferente; Kieślowski scelse il cinema in modo da costruire delle immagini che colpissero il subconscio dello spettatore e che, senza la necessità di utilizzare parole, lo portassero a sentirsi parte di un flusso di fotogrammi e dei rimandi che li collegavano l’uno all’altro.
La Trilogia dei colori, uno dei lavori più noti del regista, è costituita da tre opere: Film Blu (1993), Film Bianco (1994) e Film Rosso (1994). Il progetto si basa sulla reinterpretazione dei valori fondanti della Repubblica Francese, rappresentati dai colori della sua bandiera: rispettivamente Liberté, Égalité e Fraternité. Kieślowski si dedicò intensamente ai tre film - capitava che durante le riprese di uno lavorasse al montaggio dell’altro, ad esempio - e con la Trilogia concluse anche la sua carriera: temeva di non avere altro da raccontare. Per riuscire ad approfondire al meglio l’analisi delle singole pellicole è necessario delineare i tratti distintivi della filosofia che permea l’intera opera dell’autore, e che traspare chiaramente in lavori precedenti come il Decalogo (1988-1989) o La doppia vita di Veronica (1991).
Il regista ha infatti una visione precisa del mondo, è un artista malinconico, ma incapace di abbandonare un fondamentale entusiasmo nei confronti dell’esistenza, conferitogli dalla convinzione che ci siano delle forze esterne e regolatrici degli avvenimenti umani, inaccessibili e incomprensibili, tessitrici di un’intricata rete di connessioni. I personaggi della Trilogia dei colori sono continuamente agitati da un moto centrifugo, a causa del quale si ritrovano ad essere allontanati e poi riavvicinati, incrociando i loro percorsi per poi viaggiare su binari paralleli e viceversa. Questo processo, già magistralmente rappresentato in La doppia vita di Veronica, riesce ad emergere di tanto in tanto nella Trilogia grazie ad alcuni rimandi, che spesso colpiscono lo spettatore senza che egli se ne renda nemmeno conto.
Quando a Kieślowski veniva chiesto perché riponesse tanta fiducia in un pubblico sempre più distratto, lui rispondeva di non pretendere una totale comprensione, sostenendo, anzi, che il regista avesse la responsabilità di costruire un ponte tra il proprio mondo e quello dello spettatore; ciononostante era convinto che chiunque potesse almeno percepire un legame tra scene e personaggi apparentemente sconnessi nei suoi film. Simbolico è in questo senso il Palazzo di Giustizia, edificio che reca incisi - non è un caso - i tre valori della Repubblica Francese: proprio in questo edificio, durante Film Blu, ricercando la libertà, entra Julie - che incrocia lo sguardo di Dominique, personaggio della pellicola successiva - così come Karol, desideroso di uguaglianza in Film Bianco, e poi ancora l’anziano giudice di Film Rosso autodenunciatosi alle autorità.
In altri istanti lo spettatore si ritrova invece colpito da una sorta di risonanza: percepisce che una certa scena sia già apparsa in precedenza - come nel caso della valigia sul nastro trasportatore in Film Bianco - oppure che un determinato luogo sia già stato inquadrato - basti pensare alla chiesa di Film Rosso - ma cosa significano queste scelte? Kieślowski ci parla di una fondamentale interconnessione. Mentre siamo concentrati sulle vicende di un determinato protagonista, anche le vite di tutti gli altri si dipanano parallelamente.
Esemplificativa di questa filosofia è la scena che vede un anziano incurvito affannarsi nel tentativo di gettare la bottiglia nella campana del vetro, ripetuta nei tre film al fine di mostrare le diverse reazioni dei protagonisti: Julie nemmeno lo nota, assorbita dal proprio dolore; Karol sorride maliziosamente, divertito dalla situazione; Valentine aiuta l’uomo e la bottiglia cade finalmente nella campana. Certamente, però, il momento in cui il legame tra vite apparentemente sconnesse diventa palese è quello a cui assistiamo alla fine di Film Rosso, che vede tutti i protagonisti riuniti a causa di un evento di cronaca.
Seguendo il filo di questo discorso giungiamo ad un’ulteriore conclusione: non esistono veri protagonisti. Come in un documentario si da spazio a soggetti precisi che rappresentano una situazione generale, così i film della Trilogia sono dei primi piani, racconti esemplificativi di condizioni che coinvolgono l’umanità intera. Juliette Binoche spiega come durante le riprese di Film Blu si ritrovasse ad essere inquadrata in maniera estremamente ravvicinata: all’inizio del film ad essere ripreso è un occhio, mentre più avanti vediamo il suo volto sotto le lenzuola. Kieślowski credeva molto nell’efficacia del primo piano perché voleva che lo spettatore empatizzasse con il protagonista, immergendosi in un determinato punto di vista e perdendo se stesso nel racconto.
In un’intervista il regista raccontò di aver fatto un esperimento: in una stanza piena di persone ce n’è sempre una che spicca, attirando l’attenzione dell’intero gruppo, che inizia ad interessarsi a quest’ultima. Le caratteristiche di un volto e le inclinazioni di un determinato attore erano oggetto di studio da parte di Kieślowski, che spesso scriveva le parti pensando ad un interprete preciso, per poi pretendere che fosse necessariamente quest’ultimo ad incarnare il ruolo.
Ad oggi sappiamo che le sue scelte hanno scaturito l’effetto desiderato: i volti protagonisti dei tre film sono indimenticabili, ognuno per motivi diversi, e ci trascinano in tre storie che, per quanto riguardino tematiche comuni, restano impresse nella memoria di chi guarda, trascinandolo da una circostanza all’altra grazie alla sottile architettura che il regista costruisce e costituendo un’armonia della quale fanno parte anche i momenti apparentemente più irrazionali
Ciononostante questo accade perché siamo davanti allo schermo: i protagonisti veri e propri continuano a non esistere. Julie, Karol, Dominique, Valentine, Auguste sono solo esempi scelti. Ultima ma altrettanto notevole caratteristica della filosofia che stiamo andando a delineare è quella della dicotomia. Nei film della Trilogia emerge una costante contraddizione: i valori attorno ai quali sono costruite le narrazioni fungono infatti da salvezza e condanna per i personaggi.
In Film Blu Julie è brutalmente schiacciata dal peso di una realtà che le ha strappato marito e figlia, un peso del quale lei tenta di liberarsi fuggendo, chiudendosi in una bolla di “niente”, come spiega anche alla madre, escludendo se stessa da un passato troppo gravoso. In questa condizione di stallo raggiungere la tanto agognata libertà è impossibile, in quanto la protagonista non riesce più ad aderire al mondo che la circonda, limitandosi a non vivere. Julie si dimena, tenta di occludere le strade che possano ricondurla al suo passato, ma non ci riesce, perché intanto la vita intorno a lei prosegue; così cambia casa, ma nel momento in cui emerge dalla soffocante piscina che sembra garantirle una via di fuga dal mondo, una folla di bambini si tuffa, riportandola con la mente al ricordo della figlia perduta.
Julie decide allora di adottare una nuova strategia; lasciandosi attrarre inevitabilmente da quel magnetico passato che continua a riecheggiare, scopre qualcosa di nuovo sul marito: recandosi al Palazzo di Giustizia in cerca di una libertà che le conceda di continuare a vivere, si ritrova a far fronte ad una versione non idealizzata del proprio dramma, così fugge e torna ad immergersi nella sua piscina. La dicotomia nella storia di Julie sta tra l’essere trattenuti e il lasciarsi andare, tra il rinchiudersi nel dolore e il gettarsi tra le braccia di un nuovo amante; un costante tira e molla in cui anche il silenzio risulta troppo rumoroso e la musica di un passato irrimediabilmente terminato irrompe brutalmente nel presente. L’unico modo di raggiungere la liberté per Julie è porre fine alla composizione incompiuta del marito e lasciarsi finalmente andare al pianto.
In Film Bianco il tema diventa invece quello dell’ uguaglianza. Karol, che si trova nel Palazzo di Giustizia, poiché la moglie richiede il divorzio, si appella ai giudici gridando: Où est l’égalité? Ben presto comprendiamo però che nel rapporto amoroso l’uguaglianza è raggiungibile solo in istanti fugaci. Dominique, infatti, prevale sullo sconsolato Karol, finché quest’ultimo, ormai arricchitosi grazie ad un inganno, riesca a riottenere la compagna per poi offrirle finalmente il piacere da lei bramato e sparire: a questo punto è Dominique a sottostare all’ex marito.
Kieślowski dichiarò che il film rappresentasse l’umiliazione, ed effettivamente l’amore è qui ritratto nei suoi aspetti più volgari e poco romantici, ma ancora una volta ci troviamo davanti ad una dicotomia: l’uguaglianza è forse pienamente raggiungibile solo per un attimo, eppure è ciò che desideriamo incessantemente in un rapporto, è una condanna, poiché la ricerchiamo, nonostante la realtà la renda praticamente inafferrabile.
Alla fine della pellicola l’uguaglianza sembra essere stata ottenuta con un espediente particolare: Dominique dichiara il suo amore a Karol da una prigione, che impedisce ai due di stare fisicamente insieme; come in Film Blu, il protagonista può adesso lasciarsi andare al pianto.
Film Rosso, opera ultima della Trilogia, si incentra invece sulla fraternité. In questo caso vediamo due storie che si sviluppano parallelamente: quella di Valentine e quella di Auguste. Valentine è una modella dai bei modi, asfissiata da un rapporto complesso con la famiglia e da un fidanzato lontano e scontroso; ben presto incontra un anziano giudice, intrappolato in una solitudine che lo ha condotto a passare il tempo spiando le vite degli altri, il quale, se inizialmente la scandalizza, si rivela poi capace di comprenderla, arrivando a stabilire un legame profondo con la giovane. Dall’altra parte Auguste è un ragazzo che sta iniziando la sua carriera come giudice - non è un caso che ci sia questa ripetizione - e che, quando può, passa del tempo con la fidanzata.
Se all’inizio del film non riusciamo bene a comprendere il legame tra queste due esistenze vicine ma parallele, come dimostrano le inquadrature che vedono spesso i due personaggi sul punto di incontrarsi, capiamo ad un certo punto come la vita di Auguste non sia altro che il passato dell’anziano giudice. Questo, però, non significa necessariamente che il giudice sia Auguste; se infatti il primo racconta di non aver mai più trovato l’amore dopo essere stato vittima di tradimento, il secondo incontra Valentine.
Kieślowski, che era affascinato dall’idea di poter tornare nel passato per agire con la consapevolezza del presente, utilizza Film Rosso per onorare questo suo instancabile entusiasmo nei confronti della vita. In un’intervista racconta: “Non so chi sono e non so cosa voglio. Se dovessi scegliere, mi piacerebbe un po’ di pace e quiete, ma non le ho mai ottenute e probabilmente mai ci riuscirò. Quindi non avrò mai ciò che desidero realmente.” Da queste parole comprendiamo come Kieślowski proietti probabilmente se stesso nell’anziano giudice; il cinema, però, offre l’opportunità di concedere un maggiore spazio a quell’entusiasmo, citato in precedenza, che spesso nella vita non trova riscontro alcuno.
Ecco allora che il tempo sembra divenire circolare, vite che nel mondo reale non si incontrano mai qui riescono ad incrociare i loro percorsi, e la fratellanza, che alle volte - sempre per la stessa natura dicotomica delle cose - funge da condanna - costringendoci in legami di sangue che non offrono possibilità di evasione - riesce qui a divenire un qualcosa che va oltre la famiglia, arrivando a legare un uomo ormai anziano e solo ad una ragazza giovane e da poco entrata nella vita.