Fino a dove le immagini possono influenzare
le persone a emulare ciò che vedono sullo schermo,
di Cosimo Maj
TR-21
12.02.2021
Nel 1972, a seguito dell’uscita del film A Clockwork Orange di Stanley Kubrick, in Inghilterra ci furono due casi di cronaca nera “collegati” al film. Nel marzo ’72, all’interno di un processo in cui un ragazzo di quattordici anni veniva accusato dell’omicidio di una compagna di classe, il pubblico ministero fece riferimento a come il film di Kubrick avesse influenzato il giovanissimo imputato nel portare a compiere quell’atto violento. Nel ’73 il film fu ancora una volta associato ad un crimine commesso da un sedicenne a Bletchley, Buckinghamshire, in questo caso l’omicidio di un clochard, a ricordare una delle scene iniziali della pellicola. L’avvocato della difesa affermò che tra il crimine commesso dal ragazzo e il film ci fosse un legame oltre ogni ragionevole dubbio. Fu a quel punto che la Warner ritirò il film dalle sale, su richiesta di Kubrick che, come testimoniò la moglie Christiane, subì minacce e addirittura proteste sotto la sua abitazione a seguito delle due vicende. Il film non venne quasi più proiettato in sala in Inghilterra, se non dopo la morte di Kubrick, che nel ’93, a La Stampa, rilasciò un’intervista dove disse “La violenza al cinema non è pericolosa, poiché la gente, anche sotto ipnosi, non fa cose contrarie alla propria natura”.
La violenza al cinema, sempre più sdoganata da cinquant’anni a questa parte, è il fulcro di molti prodotti seriali mainstream contemporanei. Di recente, in un’intervista rilasciata alle Iene, il rapper Guè Pequeno, alla domanda sul perché alcuni ragazzi crescano con il mito della violenza, ha risposto: “se unisci il mito dello sport da combattimento, più il mito della serie tv mafiosa, si crea una miscela esplosiva senza senso”. Il dibattito sulla cattiva influenza dei prodotti cinematografici o seriali di genere gangster sul pubblico, soprattutto giovane, è quantomeno datato e anche poco interessante. Viene soprattutto dalla politica, ed ha un forte sapore di censura. Un altro rapper, Marracash, sempre intervistato alle Iene, quando gli hanno chiesto se pensasse di fornire un cattivo esempio con la sua musica circa il consumo di droga, ha risposto “parlando apertamente delle cose si forniscono gli strumenti per decidere con le proprie teste”. Giorgia Meloni, rispondendo alla critica mossagli da Saviano, che la definì “mandante morale” della tentata strage perpetrata dal ventottenne Luca Traini a Macerata nel febbraio del 2018, accusò lo scrittore napoletano di essere lui a sua volta “mandante” delle baby gang a Napoli, a causa del lavoro fatto su Gomorra - La Serie.
La serie ha subito diversi attacchi sullo stesso piano posto in evidenza dalla leader di Fratelli D’Italia. Nel 2016 spuntò perfino uno studio condotto dalla Drexel University College of Medicine di Philadelphia, che evidenziava come il consumo massiccio di prodotti seriali, con un alto tasso di violenza, favorisca nei giovani un atteggiamento aggressivo o violento. Il problema viene definito da Michele Cucchi, direttore sanitario del centro medico Sant’Agostino di Milano, “Sindrome da Gomorra”. La notevole influenza, pari al successo commerciale, della serie di Saviano gli ha permesso allo stesso di tempo di diventare una sorta di piccolo capro-espiatorio per quelle che sono delle vere e proprie piaghe sociali, come il bullismo o la violenza estrema, fine a sé stessa, pensando al caso di Colleferro. Ad essere lampante è la differenza di stile tra il film e la serie. Mentre la pellicola di Garrone è un film di fiction al limite del documentaristico, con un forte utilizzo della macchina a mano e una spiccata durezza nel mettere in scena quella che è la vita nel “o’ sistema”, come viene chiamata la camorra da chi ne fa parte, la serie di Saviano è fiction pura, al limite del fumettistico.
È chiaro che la serialità ha esigenze diverse rispetto ad un’opera cinematografica, e ha bisogno di creare una maggiore empatia nello spettatore rispetto ai personaggi messi in scena. Allo stesso tempo però ne scaturisce una riflessione su come il crimine viene messo in scena al cinema e nella serialità, visto che viene fatto fin dai primi anni della Hollywood classica, pensando ai cult Nemico Pubblico, Piccolo Cesare e Scarface. Ultimo, e anche più importante, il film di Howard Hawks che ha ispirato quello dell’83 di Brian De Palma con Al Pacino, che per Saviano fu “una vera e propria ossessione”, in relazione a quello che significa per chi cresce a Napoli con il mito del gangsterismo. Il crimine ispira il cinema, e al contrario Scarface ha ispirato i criminali, come è accaduto con Walter Schiavone, boss di camorra, che si fece costruire a Casal di Principe una villa simile a quella di Tony Montana nel film. Un esempio perfetto di cinema crime a metà tra la fiction e il realismo disturbante, poco accomodante, tratto distintivo del Gomorra di Garrone, è la trilogia di Pusher, di Nicolas Winding Refn.
La genesi della trilogia ha origine in un cortometraggio interpretato dallo stesso Refn, chiamato appunto Pusher. Viene notato da un produttore, Henrik Danstrup, che affascinato dal corto decide di finanziarne il lungometraggio. Con un budget di 6 milioni di corone danesi (circa 800 mila euro), Refn firma, nel 1996, il suo primo film. La particolarità del primo Pusher sta proprio nel mettere in scena la quotidianità nuda e cruda di un piccolo spacciatore, Frank, che tenta il salto di qualità, con un destino avverso che lo porterà verso una fallimentare via d’uscita dal suo mondo, fatto di droga e criminalità. Il film si presenta con uno stile pesantemente influenzato dai connazionali Von Trier e Vinterberg e il loro Dogma 95, particolarità che andrà stemperandosi con gli episodi successivi della saga. Refn non rispetta rigorosamente le regole imposte dal dogma, ricorrendo ad esempio in alcuni casi alla musica extradiegetica, seppur in maniera leggera. Il primo Pusher è un thriller urbano che, nonostante la frenesia degli avvenimenti e la forte tensione crescente nell’avvicendarsi delle sfortune nel percorso del protagonista, si concede diversi momenti di stasi in cui la macchina da presa osserva i personaggi nella loro intimità, anticipando l’aspetto di indagine psicologica del personaggio che sarà predominante nei due sequel. Sequel non previsti inizialmente da Refn, che dopo il grande successo riscosso da Pusher gira nel ’99 Bleeder e nel ’03 Fear X. I film, nonostante i buoni consensi da parte della critica, risultano degli insuccessi al botteghino. Nel frattempo Pusher acquisisce sempre più popolarità in tutto il mondo, raggiungendo lo status di film di culto. Questo fa riflettere Refn sulla possibilità di dare a Pusher un seguito. Dettato da esigenze economiche, ma anche personali, il seguito arriva.
È il 2004, quasi dieci anni dopo il primo esce Pusher II, con protagonista Mads Mikkelsen, che torna a vestire i panni di Tonny, compare di Frank nel primo film. L’aspetto intimo del personaggio, come già detto sopra, è predominante. Il contesto criminale, da quello “di strada” del primo film, diventa una questione di famiglia, con la figura centrale del padre di Tonny, boss delle macchine rubate, anaffettivo e screditante nei confronti del figlio. Tonny è un disadattato che inconsciamente sa di non assomigliare alla brutalità del mondo in cui vive.
Lo spettatore può comprende quasi da subito che il personaggio ha la possibilità di fuggire da quel mondo, e la chiave è rappresentata da un bambino di cui non è neanche sicuro di essere il padre, ma forse vorrebbe esserlo. Forte del successo a cui va incontro questo secondo capitolo, Refn ci prende gusto e l’anno dopo fa uscire un terzo film della saga, Pusher III. Qua il protagonista è Milo, lo spietato boss serbo già “villain” del primo film e presente in una scena del secondo. Questo terzo capitolo unisce aspetti predominanti del primo e del secondo capitolo. All’indagine psicologica affianca gli elementi thriller e noir del primo, in una miscela che nel finale esplode in una violenza mai raggiunta nei primi due film.
Anche nel terzo capitolo l’aspetto familiare è importante, sempre descritto come una forma di gabbia, anche se in questa circostanza meno opprimente e pregna di dolore. In questo caso però la via di fuga non sembra esistere e, forse, non è nemmeno voluta fino in fondo dal nostro protagonista, un boss sul viale del tramonto che mette in scena il suo canto del cigno.
Nonostante il primo capitolo appaia più slegato dagli altri due, data anche la distanza che intercorre tra il primo e il secondo, la trilogia è esemplare nel costruire tre personaggi che sembrano essere posti in una gerarchia ben definita. Frank, protagonista del primo, ultima ruota del carro in un mondo criminale di strada; Tonny, ultima ruota del carro di una “famiglia” criminale; Milo, boss in cima alla catena alimentare, che si sta facendo mangiare dai pesci più piccoli. I tre personaggi appartengono ognuno ad un rango, andando dal più basso al più alto, e tutti vorrebbero evadere dallo status criminale di cui sono schiavi, sia emotivamente che economicamente, chi dalla propria famiglia, chi dalle proprie dipendenze. L’unico a riuscirci è per l’appunto Tonny, nel finale del secondo capitolo, che è probabilmente il più intimo per Refn, viste alcune analogie che accomunano la sua storia personale, in particolare la sua infanzia e l’adolescenza sofferta a causa di una forte dislessia e un pessimo rapporto con le figure genitoriali, a quella del personaggio interpretato da Mikkelsen, un criminale naïf screditato e additato come “ritardato” per tutto il film da un padre gelido e anaffettivo, e da una serie di figure femminili assolutamente desolanti. Gli altri due protagonisti rimangono ingabbiati, il primo sembra andare incontro ad un futuro incerto, il terzo è conscio di aver vinto una battaglia, ma non la guerra, anche quella contro se stesso. Tonny invece prende in mano la sua vita, gesto espresso metaforicamente attraverso il “rapimento” del bambino, e fugge in un finale liberatorio, che nei minuti precedenti prende quasi la piega di una tragedia greca. Fuga che ricorda la corsa finale di Antoine Doinel nei Quattrocento colpi. Mentre lì Antoine andava incontro al mare che non aveva mai visto, simbolo di libertà, qua non sappiamo dove andrà Tonny, sappiamo solo che è libero, che è fuggito dalla criminalità per andare verso la vita, la sua vita. La poesia di questa scena si conclude con l’ultima inquadratura del film, il RESPECT sul cranio rasato sopra alle spalle di Tonny, un segno di spavalderia cinematografica quasi “americana”, in questo caso più che aggraziata, in una scena che fa pensare alla poesia neorealista e alla Nouvelle Vague. In questo, forse, risiede l’aspetto di denuncia della trilogia di Refn, in questo distacco liberatorio dal crimine e dallo squallore che ne consegue. Un barlume di speranza rispetto al tenebroso pessimismo degli altri due capitoli, e dei rispettivi finali.
L’aspetto di “denuncia”, non richiesto o obbligato per il cinema di genere crime, che presenta sempre una forte componente di fiction, di intrattenimento. Per quanto categorizzabile come film di genere, nel caso di Pusher l’aspetto di denuncia riesce a emergere. La scelta di Tonny ci riporta al film di Kubrick, dove il tema del libero arbitrio è preponderante. Alex DeLarge è un personaggio barocco, di finzione. La sua violenza è molto meno pericolosa di quella della società, che si arroga il diritto di trasformarlo, per l’appunto, in un’arancia meccanica. L’uccisione del padre da parte di Tonny simboleggia in qualche modo l’eliminazione di quella sovrastruttura, che sia lo Stato o la famiglia, che incarna quel male reale, precostituito, che imprigiona il singolo individuo. Come il bonario Genny Savastano viene trasformato nella madre in uno spietato e sanguinario boss, così Michael Corleone passa dal dire “la mia famiglia non mi assomiglia” al prendere il posto del padre come capo della famiglia, proprio perché non può sottrarsi al suo sangue.
Fino a dove le immagini possono
influenzare le persone a emulare
ciò che vedono sullo schermo,
di Cosimo Maj
TR-21
12.02.2021
Nel 1972, a seguito dell’uscita del film A Clockwork Orange di Stanley Kubrick, in Inghilterra ci furono due casi di cronaca nera “collegati” al film. Nel marzo ’72, all’interno di un processo in cui un ragazzo di quattordici anni veniva accusato dell’omicidio di una compagna di classe, il pubblico ministero fece riferimento a come il film di Kubrick avesse influenzato il giovanissimo imputato nel portare a compiere quell’atto violento. Nel ’73 il film fu ancora una volta associato ad un crimine commesso da un sedicenne a Bletchley, Buckinghamshire, in questo caso l’omicidio di un clochard, a ricordare una delle scene iniziali della pellicola. L’avvocato della difesa affermò che tra il crimine commesso dal ragazzo e il film ci fosse un legame oltre ogni ragionevole dubbio. Fu a quel punto che la Warner ritirò il film dalle sale, su richiesta di Kubrick che, come testimoniò la moglie Christiane, subì minacce e addirittura proteste sotto la sua abitazione a seguito delle due vicende. Il film non venne quasi più proiettato in sala in Inghilterra, se non dopo la morte di Kubrick, che nel ’93, a La Stampa, rilasciò un’intervista dove disse “La violenza al cinema non è pericolosa, poiché la gente, anche sotto ipnosi, non fa cose contrarie alla propria natura”.
La violenza al cinema, sempre più sdoganata da cinquant’anni a questa parte, è il fulcro di molti prodotti seriali mainstream contemporanei. Di recente, in un’intervista rilasciata alle Iene, il rapper Guè Pequeno, alla domanda sul perché alcuni ragazzi crescano con il mito della violenza, ha risposto: “se unisci il mito dello sport da combattimento, più il mito della serie tv mafiosa, si crea una miscela esplosiva senza senso”. Il dibattito sulla cattiva influenza dei prodotti cinematografici o seriali di genere gangster sul pubblico, soprattutto giovane, è quantomeno datato e anche poco interessante. Viene soprattutto dalla politica, ed ha un forte sapore di censura. Un altro rapper, Marracash, sempre intervistato alle Iene, quando gli hanno chiesto se pensasse di fornire un cattivo esempio con la sua musica circa il consumo di droga, ha risposto “parlando apertamente delle cose si forniscono gli strumenti per decidere con le proprie teste”. Giorgia Meloni, rispondendo alla critica mossagli da Saviano, che la definì “mandante morale” della tentata strage perpetrata dal ventottenne Luca Traini a Macerata nel febbraio del 2018, accusò lo scrittore napoletano di essere lui a sua volta “mandante” delle baby gang a Napoli, a causa del lavoro fatto su Gomorra - La Serie.
La serie ha subito diversi attacchi sullo stesso piano posto in evidenza dalla leader di Fratelli D’Italia. Nel 2016 spuntò perfino uno studio condotto dalla Drexel University College of Medicine di Philadelphia, che evidenziava come il consumo massiccio di prodotti seriali, con un alto tasso di violenza, favorisca nei giovani un atteggiamento aggressivo o violento. Il problema viene definito da Michele Cucchi, direttore sanitario del centro medico Sant’Agostino di Milano, “Sindrome da Gomorra”. La notevole influenza, pari al successo commerciale, della serie di Saviano gli ha permesso allo stesso di tempo di diventare una sorta di piccolo capro-espiatorio per quelle che sono delle vere e proprie piaghe sociali, come il bullismo o la violenza estrema, fine a sé stessa, pensando al caso di Colleferro. Ad essere lampante è la differenza di stile tra il film e la serie. Mentre la pellicola di Garrone è un film di fiction al limite del documentaristico, con un forte utilizzo della macchina a mano e una spiccata durezza nel mettere in scena quella che è la vita nel “o’ sistema”, come viene chiamata la camorra da chi ne fa parte, la serie di Saviano è fiction pura, al limite del fumettistico.
È chiaro che la serialità ha esigenze diverse rispetto ad un’opera cinematografica, e ha bisogno di creare una maggiore empatia nello spettatore rispetto ai personaggi messi in scena. Allo stesso tempo però ne scaturisce una riflessione su come il crimine viene messo in scena al cinema e nella serialità, visto che viene fatto fin dai primi anni della Hollywood classica, pensando ai cult Nemico Pubblico, Piccolo Cesare e Scarface. Ultimo, e anche più importante, il film di Howard Hawks che ha ispirato quello dell’83 di Brian De Palma con Al Pacino, che per Saviano fu “una vera e propria ossessione”, in relazione a quello che significa per chi cresce a Napoli con il mito del gangsterismo. Il crimine ispira il cinema, e al contrario Scarface ha ispirato i criminali, come è accaduto con Walter Schiavone, boss di camorra, che si fece costruire a Casal di Principe una villa simile a quella di Tony Montana nel film. Un esempio perfetto di cinema crime a metà tra la fiction e il realismo disturbante, poco accomodante, tratto distintivo del Gomorra di Garrone, è la trilogia di Pusher, di Nicolas Winding Refn.
La genesi della trilogia ha origine in un cortometraggio interpretato dallo stesso Refn, chiamato appunto Pusher. Viene notato da un produttore, Henrik Danstrup, che affascinato dal corto decide di finanziarne il lungometraggio. Con un budget di 6 milioni di corone danesi (circa 800 mila euro), Refn firma, nel 1996, il suo primo film. La particolarità del primo Pusher sta proprio nel mettere in scena la quotidianità nuda e cruda di un piccolo spacciatore, Frank, che tenta il salto di qualità, con un destino avverso che lo porterà verso una fallimentare via d’uscita dal suo mondo, fatto di droga e criminalità. Il film si presenta con uno stile pesantemente influenzato dai connazionali Von Trier e Vinterberg e il loro Dogma 95, particolarità che andrà stemperandosi con gli episodi successivi della saga. Refn non rispetta rigorosamente le regole imposte dal dogma, ricorrendo ad esempio in alcuni casi alla musica extradiegetica, seppur in maniera leggera. Il primo Pusher è un thriller urbano che, nonostante la frenesia degli avvenimenti e la forte tensione crescente nell’avvicendarsi delle sfortune nel percorso del protagonista, si concede diversi momenti di stasi in cui la macchina da presa osserva i personaggi nella loro intimità, anticipando l’aspetto di indagine psicologica del personaggio che sarà predominante nei due sequel. Sequel non previsti inizialmente da Refn, che dopo il grande successo riscosso da Pusher gira nel ’99 Bleeder e nel ’03 Fear X. I film, nonostante i buoni consensi da parte della critica, risultano degli insuccessi al botteghino. Nel frattempo Pusher acquisisce sempre più popolarità in tutto il mondo, raggiungendo lo status di film di culto. Questo fa riflettere Refn sulla possibilità di dare a Pusher un seguito. Dettato da esigenze economiche, ma anche personali, il seguito arriva.
È il 2004, quasi dieci anni dopo il primo esce Pusher II, con protagonista Mads Mikkelsen, che torna a vestire i panni di Tonny, compare di Frank nel primo film. L’aspetto intimo del personaggio, come già detto sopra, è predominante. Il contesto criminale, da quello “di strada” del primo film, diventa una questione di famiglia, con la figura centrale del padre di Tonny, boss delle macchine rubate, anaffettivo e screditante nei confronti del figlio. Tonny è un disadattato che inconsciamente sa di non assomigliare alla brutalità del mondo in cui vive.
Lo spettatore può comprende quasi da subito che il personaggio ha la possibilità di fuggire da quel mondo, e la chiave è rappresentata da un bambino di cui non è neanche sicuro di essere il padre, ma forse vorrebbe esserlo. Forte del successo a cui va incontro questo secondo capitolo, Refn ci prende gusto e l’anno dopo fa uscire un terzo film della saga, Pusher III. Qua il protagonista è Milo, lo spietato boss serbo già “villain” del primo film e presente in una scena del secondo. Questo terzo capitolo unisce aspetti predominanti del primo e del secondo capitolo. All’indagine psicologica affianca gli elementi thriller e noir del primo, in una miscela che nel finale esplode in una violenza mai raggiunta nei primi due film.
Anche nel terzo capitolo l’aspetto familiare è importante, sempre descritto come una forma di gabbia, anche se in questa circostanza meno opprimente e pregna di dolore. In questo caso però la via di fuga non sembra esistere e, forse, non è nemmeno voluta fino in fondo dal nostro protagonista, un boss sul viale del tramonto che mette in scena il suo canto del cigno.
Nonostante il primo capitolo appaia più slegato dagli altri due, data anche la distanza che intercorre tra il primo e il secondo, la trilogia è esemplare nel costruire tre personaggi che sembrano essere posti in una gerarchia ben definita. Frank, protagonista del primo, ultima ruota del carro in un mondo criminale di strada; Tonny, ultima ruota del carro di una “famiglia” criminale; Milo, boss in cima alla catena alimentare, che si sta facendo mangiare dai pesci più piccoli. I tre personaggi appartengono ognuno ad un rango, andando dal più basso al più alto, e tutti vorrebbero evadere dallo status criminale di cui sono schiavi, sia emotivamente che economicamente, chi dalla propria famiglia, chi dalle proprie dipendenze. L’unico a riuscirci è per l’appunto Tonny, nel finale del secondo capitolo, che è probabilmente il più intimo per Refn, viste alcune analogie che accomunano la sua storia personale, in particolare la sua infanzia e l’adolescenza sofferta a causa di una forte dislessia e un pessimo rapporto con le figure genitoriali, a quella del personaggio interpretato da Mikkelsen, un criminale naïf screditato e additato come “ritardato” per tutto il film da un padre gelido e anaffettivo, e da una serie di figure femminili assolutamente desolanti. Gli altri due protagonisti rimangono ingabbiati, il primo sembra andare incontro ad un futuro incerto, il terzo è conscio di aver vinto una battaglia, ma non la guerra, anche quella contro se stesso. Tonny invece prende in mano la sua vita, gesto espresso metaforicamente attraverso il “rapimento” del bambino, e fugge in un finale liberatorio, che nei minuti precedenti prende quasi la piega di una tragedia greca. Fuga che ricorda la corsa finale di Antoine Doinel nei Quattrocento colpi. Mentre lì Antoine andava incontro al mare che non aveva mai visto, simbolo di libertà, qua non sappiamo dove andrà Tonny, sappiamo solo che è libero, che è fuggito dalla criminalità per andare verso la vita, la sua vita. La poesia di questa scena si conclude con l’ultima inquadratura del film, il RESPECT sul cranio rasato sopra alle spalle di Tonny, un segno di spavalderia cinematografica quasi “americana”, in questo caso più che aggraziata, in una scena che fa pensare alla poesia neorealista e alla Nouvelle Vague. In questo, forse, risiede l’aspetto di denuncia della trilogia di Refn, in questo distacco liberatorio dal crimine e dallo squallore che ne consegue. Un barlume di speranza rispetto al tenebroso pessimismo degli altri due capitoli, e dei rispettivi finali.
L’aspetto di “denuncia”, non richiesto o obbligato per il cinema di genere crime, che presenta sempre una forte componente di fiction, di intrattenimento. Per quanto categorizzabile come film di genere, nel caso di Pusher l’aspetto di denuncia riesce a emergere. La scelta di Tonny ci riporta al film di Kubrick, dove il tema del libero arbitrio è preponderante. Alex DeLarge è un personaggio barocco, di finzione. La sua violenza è molto meno pericolosa di quella della società, che si arroga il diritto di trasformarlo, per l’appunto, in un’arancia meccanica. L’uccisione del padre da parte di Tonny simboleggia in qualche modo l’eliminazione di quella sovrastruttura, che sia lo Stato o la famiglia, che incarna quel male reale, precostituito, che imprigiona il singolo individuo. Come il bonario Genny Savastano viene trasformato nella madre in uno spietato e sanguinario boss, così Michael Corleone passa dal dire “la mia famiglia non mi assomiglia” al prendere il posto del padre come capo della famiglia, proprio perché non può sottrarsi al suo sangue.