di Beatrice Gangi
NC-212
04.06.2024
"Per me l'acqua significa molte cose. Credo che gli esseri umani siano come le piante. Non possono vivere senza acqua, altrimenti si seccano. Anche gli esseri umani, se privi di amore o di altro nutrimento, si inaridiscono. Più acqua si vede nei miei film, più i personaggi hanno bisogno di colmare un vuoto nella loro vita, di dissetarsi di nuovo" - Tsai Ming-liang.
Quando le precipitazioni scemano e l’acqua diventa carente, il terreno privato di umidità si crepa e si strappa. Sul suolo divenuto secco e malato le bestie muoiono e le piante avvizziscono. Dalle chiome bruciate cascano le foglie, rami e rametti sfioriscono, il tronco si spacca. Poche catastrofi sviliscono la natura quanto la mancanza d’acqua. Acqua che, in terre prospere, porta la vita. Vita che, come l’acqua, fin nella Bibbia è qualcosa che “sgorga” e che dell’idea di vita è convenzionale base e sinonimo.
Più che al regno animale Tsai Ming-liang, regista malese naturalizzato taiwanese, retrocede l’umano alla pianta. Assimilabili ai vegetali, gli esseri umani necessitano di una forma di nutrimento primaria, nel loro caso l’affezione, per prosperare. Come le piante, non possono vivere senza acqua, o avvizziranno. Ed è un peccato perché, purtroppo, la Taipei di Tsai Ming-liang è secca.
Di fatto, la metropoli ultraurbana dei primi anni ‘90 rappresentata dal regista è un terreno materico (non spirituale) e torpido (non emotivo). Il falso sinonimo di collettività delle folle ne è l’epicentro maggiormente drenante. E, se per Tsai Ming-liang i personaggi emozionalmente affamati devono almeno essere confortati dalla qualità ristoratrice dell’acqua, la sua Taipei tenta di sopperire la propria “siccità emotiva” con smodati scrosci di pioggia. Dove non piove, l’acqua è stagnante, in vasche, in cisterne, in acquari, o è di consumo. Per un autore noto per la ricorrenza degli stessi attori in un’intera filmografia, l’elemento acqua come personaggio ha la stessa fedeltà di presenze della sua musa, Lee Kang-sheng, apparso in ogni sua pellicola.
Nel 1992, nella prima scena del primo lungometraggio di Tsai Ming-liang, piove. I titoli di apertura di Rebels of the Neon God si accompagnano agli scampoli di un acquazzone. Al suo termine, il giovane taiwanese Ah-tze rincasa da una notte di furtarelli di strada per venire accolto da uno squallido bilocale allagato, in cui a pochi centimetri dal pavimento galleggiano scarafaggi e bottiglie di soda. Il ragazzo, senza legami, senza desideri, e senza particolari dolori o piaceri, è il primo dei personaggi del regista passivamente rassegnato alla compagnia dell’acqua come poco gradito ospite. Ah-tze conosce Ah-kuei, commessa in un centro di pattinaggio, passa con lei una notte di divertimenti, per poi abbandonarla ubriaca e senza sensi in un motel. La lascia e, come prima cosa, si lava il volto. Ah-kuei, si sveglia, sola, e beve in silenzio un bicchiere d’acqua.
Nel successivo Vive l’Amour (1994) , Hsiao-kang beve e si lava prima e dopo aver tentato il suicidio. Tra le azioni ordinarie atte a rendere i suoi personaggi autentici, Tsai sceglie quasi sempre il bere o il lavarsi. Questo perché, se la natura dell’acqua è surrogatoria alla connessione umana, essa è proprio ciò di cui il mosaico di personaggi alienati dell’autore deve essere continuamente e necessariamente provvisto.
Sempre in Vive l’Amour, la lunga sequenza finale vede May Lin - agente immobiliare di case asettiche prive di segni di entrata o uscita - camminare lentamente nel Daan Forest Park di Taipei. Un parco che non è un parco, dove non ci sono alberi, fiori, o erba. Solo terriccio smosso e arido o fogliame morto. Per quanto umida sia la Taipei del regista, il primo luogo che dovrebbe beneficiarne, nonché il primo luogo naturale ripreso in una sua pellicola, appare tutto fuorché florido.
Nel film, i tre protagonisti convivono nello stesso appartamento, a tratti nella stessa stanza, sfiorandosi quasi a toccarsi per poi allontanarsi nuovamente, spettri e presenze in una casa infestata. Virtualmente, in un contesto privo di dialogo. Luoghi di incomunicabilità, in cui le conversazioni assumono un senso solo nel loro essere unilaterali o monche. Ma dopotutto, cosa c’è da dire? Questi personaggi, cosa potrebbero mai voler comunicare l’uno all’altro? I letti composti da nudi materassi su cui dormono e le loro asciutte interazioni, sempre e solo transazionali, parlano per loro. A scandire quello che è uno dei pensieri più chiari dell’autore nell’osservare la realtà moderna, a ricordare come prossimità e intimità hanno significati distinti.
Vive l’Amour, come primo lungometraggio realmente identificativo dello stile contemplativo di Tsai Ming-liang, trapianta i temi (o meglio, il tema) già introdotti da Rebels of the Neon God, una poetica che colloca nel suo epicentro l’uomo e la sua “sete” di appartenenza. E in questi primi, avvilenti, scorci, quello dell’uomo è un bisogno che può solo essere tentativamente consolato ma mai appagato, una realtà fattuale in cui incomunicabilità e vivere sociale diventano sinonimi.
A partire dai due successivi lungometraggi, Il fiume (1997) eThe Hole (1998), il “personaggio acqua”, motore di vita, cessa di consolare per divenire agente attivo e dolente. La corrente inquinata del fiume Tamsui trascina il “cadavere” di Hsiao-Kang, e ne è presumibile fonte del soprannaturale malanno. Le perdite d’acqua piovana non sono più contenute e non sono più ignorabili. Le piogge non sono più responsabili di qualche centimetro di pavimento allagato, ma sfondano i tetti e scavano i muri. Azioni staticamente incorniciate da una macchina da presa impassibile, intenta ad osservare i soggetti ora forzati a reagire a una presenza fattasi insistente.
Il “confronto con l’acqua”, appare in primis insostenibile. Ne Il fiume, la famiglia protagonista, forzatamente estratta da uno stato di apatia, disinteresse, e noncuranza esce dal confronto totalmente annientata. Come ad indicare quanto alle volte isolamento e passività possano divenire confortevoli, quasi desiderabili. Uno stato d’essere familiare, sicuro, semplice.
In The Hole il confronto ha però un risultato differente. La Taipei sinora svuotata solo metaforicamente viene fisicamente desertificata dall’arrivo di un virus, anche in questo caso presumibilmente legato alle torrenziali piogge che ne spazzano le strade. Tra gli ultimi rifiuti dimenticati in una città ormai fatiscente, “l’uomo del piano di sopra” e “la donna del piano di sotto” sono collegati da un foro (ovviamente causato dall’acqua) nei rispettivi pavimenti e soffitti. Gli svogliati sforzi di richiuderlo portano piuttosto a un suo graduale allargamento, facilitato dalla curiosità dell’uomo che, proprio attraverso quella fenditura, spia la vita della donna.
Secondi a confrontarsi con l’acqua e reduci dal generale pessimismo del regista, gli apocalittici Adamo ed Eva di The Hole ne escono inaspettati vincitori. In una prima fragile ipotesi di contatto, di speranza, i due personaggi nuovamente si sfiorano e si allontanano, ma questa volta si riavvicinano per tendersi la mano. Nel gesto di scambiarsi un bicchiere d’acqua. Finalmente da due si diventa uno, e il bisogno di vicinanza, di supporto, e di affezione vengono, per la primissima volta, nutriti da un reale gesto umano, per quanto pulito, semplice.
Dopo lo speranzoso augurio per il nuovo millennio di The Hole, i successivi film di Tsai, Che ora è laggiù? (2001), Goodbye Dragon Inn (2003), e Il gusto dell’anguria (2005), si riallineano ad un meno roseo esistenzialismo. Comunque memore di come, seppur a stento, l’altro sia almeno raggiungibile. Ma quindi, se una connessione è possibile, quali sono i suoi limiti? Dove e come viene irrimediabilmente meno? Nello spazio e nel tempo? Nella distanza tra Taipei e Parigi, nelle loro sette ore di differenza? O solo dopo la vita? Nella successiva pellicola del regista, chi si sta cercando, a chi si domanda, “che ora è laggiù?”. Il fuso di Parigi non è solo il reale orario vissuto da Shiang-chyi, ragazza taiwanese trasferitasi brevemente nella capitale francese, ma anche l’orario che, una moglie e madre da poco vedova, ossessivamente presume coincida con il tempo percepito dal marito nell’aldilà.
Una pellicola ermetica, Che ora è laggiù? riflette sugli impercettibili confini tra una solitudine e un’altra, ma anche, e soprattutto, sugli invisibili legami tra le persone . L’acqua non manca, ma la sua presenza si sposta in una dimensione meno visibile: anche qui la speranza nasce da offerte d’acqua, la speranza di una moglie di rivedere il marito, la speranza di una ragazza persa di non essere più sola. Uno specchio d’acqua, in un parco, su cui viene riflesso uno spirito, un suo gesto di vicinanza. Flebili, invisibili, legami. Un prodigio finale, un piccolo miracolo.
Tra la direzione di Che ora è laggiù? e Il gusto dell’anguria, pellicole che potrebbero essere considerate come una storia in due atti, Tsai si ferma ad omaggiare l’arte cinematografica stessa con Goodbye, Dragon Inn.
Se la pellicola precedente si domanda su cosa debiliti l’appartenenza, Goodbye, Dragon Inn è il lamento funebre di uno dei pochi luoghi storicamente in grado di abilitarla: la sala cinematografica. Una parentesi in una filmografia che dall’uomo si sposta brevemente a celebrare l’arte che gli permette di conoscere e riconoscersi, il cui tempio, al pari dei suoi soggetti, è ormai vicino all’essere abbandonato. Per la morte, la chiusura definitiva, del cinema Fu-Ho di Taipei, l’infinito acquazzone di sottofondo è il lungo pianto mortuario del teatro e dei suoi fantasmi. Ancora una volta, i dialoghi sono superflui, così come ogni intervento di camera che superi una luttuosa contemplazione.
La torrenziale pioggia di Goodbye, Dragon Inn è tale da prosciugare, almeno momentaneamente, la smodata riserva d’acqua in una filmografia che ne è ricolma. Ne Il gusto dell’anguria, una forma di scarsità idrica ha portato la sostituzione dell’acqua con il più reperibile e conveniente succo d’anguria. Quando inizia a mancare l’acqua per dissetarsi, per cucinare, e per lavarsi, la collettività le assegna valore per la prima volta. Il gusto dell’anguria è anche la prima pellicola di Tsai Ming-liang che mostra lo svilupparsi di una relazione, re-introducendo i giovani protagonisti di Che ora è laggiù?.
In questo film, e nel successivo I don’t want to sleep alone (2006), Tsai si interroga sul passo seguente all’instaurazione di una connessione, ovvero sulla natura dell’intimità. Intimità romantica, affettiva, e sessuale. La cura dell’altro, il desiderio emotivo e fisico, ancora una volta sono messi sotto la lente e passivamente osservati. O quasi passivamente, nel momento in cui la solitamente inamovibile camera del regista si sposta e si avvicina ai suoi soggetti per la prima volta.
Successivamente al poco accessibile esperimento, in co-produzione francese, di Visage (2009), Tsai Ming-liang porta sul grande schermo Stray Dogs (2014) e la sua - ad oggi - ultima pellicola, Days (2020). Tutti gli elementi propri dello Slow Cinema del regista fanno la loro comparsa, stilisticamente e tematicamente. A raffinare i film, è visibile l’esperienza artistica museale avviata nel 2013. Taipei è, ancora una volta, indifferente, straniante, abbandonata. Ancora una volta i suoi abitanti sono isolati, depressi, solitari. La camera torna immobile, distaccata, le sequenze dilatate, i dialoghi vuoti. Ancora una volta è presente l’acqua, scorci di spiagge, di fiumi, di gallerie allagate, pozze di fango. Acqua di supermercato, acqua dei rubinetti e dei lavelli di bagni pubblici utilizzati da una famiglia povera per lavarsi di notte. Pioggia osservata per cinque minuti da Kang, dietro i vetri di una grande finestra. Pioggia che, come raccontato nell’unico dialogo realmente pregno di significato, ha invaso il rifugio dei protagonisti di Stray Dogs, ha rigato la loro casa di lacrime per poi asciugarsi e scomparire.
Apparentemente la parabola di Tsai Ming-liang è profondamente pessimista, e gli attimi di speranza, rappresentati dalla breve interruzione della pioggia, sono momenti di fugacità. Momenti che però, osservando con attenzione, non vengono mai meno. La sera dell’ultima proiezione al cinema Fu-Ho, rivedendosi sullo schermo dopo tanto tempo, l’attore di Dragon Inn Jun Shi, commosso, sorride tra le lacrime. Due persone a lungo separate si ritrovano per puro caso, e si riconoscono. Una farfalla si posa a lungo sulla spalla di un uomo senza casa. Una coppia osserva un paesaggio di montagna, dipinto sull’unico muro ancora intatto in un edificio dimesso. Seduto su una panchina, un ragazzo ascolta la melodia di una piccola scatola musicale, regalo ricevuto in segno di gratitudine.
Nel cinema di Tsai Ming-liang la siccità, il bisogno d’acqua, a Taipei, a Parigi, in Malesia, sono costanti, inguaribili. Ma anche i brevi momenti di pace, di vicinanza sono costanti. Dettati dal fato e inevitabili. Un viaggio coeso in cui il bisogno dell’uomo, motore di ogni storia e di ogni azione, è sempre la stessa ricerca di nutrimento, da Rebels of the Neon God, nel 1992, a Days, nel 2020. Un nutrimento, un principio di vita, talvolta raro ma ineluttabile come l’acqua che lo rappresenta. Brevi momenti in cui non si soffre la sete.
di Beatrice Gangi
NC-212
04.06.2024
"Per me l'acqua significa molte cose. Credo che gli esseri umani siano come le piante. Non possono vivere senza acqua, altrimenti si seccano. Anche gli esseri umani, se privi di amore o di altro nutrimento, si inaridiscono. Più acqua si vede nei miei film, più i personaggi hanno bisogno di colmare un vuoto nella loro vita, di dissetarsi di nuovo" - Tsai Ming-liang.
Quando le precipitazioni scemano e l’acqua diventa carente, il terreno privato di umidità si crepa e si strappa. Sul suolo divenuto secco e malato le bestie muoiono e le piante avvizziscono. Dalle chiome bruciate cascano le foglie, rami e rametti sfioriscono, il tronco si spacca. Poche catastrofi sviliscono la natura quanto la mancanza d’acqua. Acqua che, in terre prospere, porta la vita. Vita che, come l’acqua, fin nella Bibbia è qualcosa che “sgorga” e che dell’idea di vita è convenzionale base e sinonimo.
Più che al regno animale Tsai Ming-liang, regista malese naturalizzato taiwanese, retrocede l’umano alla pianta. Assimilabili ai vegetali, gli esseri umani necessitano di una forma di nutrimento primaria, nel loro caso l’affezione, per prosperare. Come le piante, non possono vivere senza acqua, o avvizziranno. Ed è un peccato perché, purtroppo, la Taipei di Tsai Ming-liang è secca.
Di fatto, la metropoli ultraurbana dei primi anni ‘90 rappresentata dal regista è un terreno materico (non spirituale) e torpido (non emotivo). Il falso sinonimo di collettività delle folle ne è l’epicentro maggiormente drenante. E, se per Tsai Ming-liang i personaggi emozionalmente affamati devono almeno essere confortati dalla qualità ristoratrice dell’acqua, la sua Taipei tenta di sopperire la propria “siccità emotiva” con smodati scrosci di pioggia. Dove non piove, l’acqua è stagnante, in vasche, in cisterne, in acquari, o è di consumo. Per un autore noto per la ricorrenza degli stessi attori in un’intera filmografia, l’elemento acqua come personaggio ha la stessa fedeltà di presenze della sua musa, Lee Kang-sheng, apparso in ogni sua pellicola.
Nel 1992, nella prima scena del primo lungometraggio di Tsai Ming-liang, piove. I titoli di apertura di Rebels of the Neon God si accompagnano agli scampoli di un acquazzone. Al suo termine, il giovane taiwanese Ah-tze rincasa da una notte di furtarelli di strada per venire accolto da uno squallido bilocale allagato, in cui a pochi centimetri dal pavimento galleggiano scarafaggi e bottiglie di soda. Il ragazzo, senza legami, senza desideri, e senza particolari dolori o piaceri, è il primo dei personaggi del regista passivamente rassegnato alla compagnia dell’acqua come poco gradito ospite. Ah-tze conosce Ah-kuei, commessa in un centro di pattinaggio, passa con lei una notte di divertimenti, per poi abbandonarla ubriaca e senza sensi in un motel. La lascia e, come prima cosa, si lava il volto. Ah-kuei, si sveglia, sola, e beve in silenzio un bicchiere d’acqua.
Nel successivo Vive l’Amour (1994) , Hsiao-kang beve e si lava prima e dopo aver tentato il suicidio. Tra le azioni ordinarie atte a rendere i suoi personaggi autentici, Tsai sceglie quasi sempre il bere o il lavarsi. Questo perché, se la natura dell’acqua è surrogatoria alla connessione umana, essa è proprio ciò di cui il mosaico di personaggi alienati dell’autore deve essere continuamente e necessariamente provvisto.
Sempre in Vive l’Amour, la lunga sequenza finale vede May Lin - agente immobiliare di case asettiche prive di segni di entrata o uscita - camminare lentamente nel Daan Forest Park di Taipei. Un parco che non è un parco, dove non ci sono alberi, fiori, o erba. Solo terriccio smosso e arido o fogliame morto. Per quanto umida sia la Taipei del regista, il primo luogo che dovrebbe beneficiarne, nonché il primo luogo naturale ripreso in una sua pellicola, appare tutto fuorché florido.
Nel film, i tre protagonisti convivono nello stesso appartamento, a tratti nella stessa stanza, sfiorandosi quasi a toccarsi per poi allontanarsi nuovamente, spettri e presenze in una casa infestata. Virtualmente, in un contesto privo di dialogo. Luoghi di incomunicabilità, in cui le conversazioni assumono un senso solo nel loro essere unilaterali o monche. Ma dopotutto, cosa c’è da dire? Questi personaggi, cosa potrebbero mai voler comunicare l’uno all’altro? I letti composti da nudi materassi su cui dormono e le loro asciutte interazioni, sempre e solo transazionali, parlano per loro. A scandire quello che è uno dei pensieri più chiari dell’autore nell’osservare la realtà moderna, a ricordare come prossimità e intimità hanno significati distinti.
Vive l’Amour, come primo lungometraggio realmente identificativo dello stile contemplativo di Tsai Ming-liang, trapianta i temi (o meglio, il tema) già introdotti da Rebels of the Neon God, una poetica che colloca nel suo epicentro l’uomo e la sua “sete” di appartenenza. E in questi primi, avvilenti, scorci, quello dell’uomo è un bisogno che può solo essere tentativamente consolato ma mai appagato, una realtà fattuale in cui incomunicabilità e vivere sociale diventano sinonimi.
A partire dai due successivi lungometraggi, Il fiume (1997) eThe Hole (1998), il “personaggio acqua”, motore di vita, cessa di consolare per divenire agente attivo e dolente. La corrente inquinata del fiume Tamsui trascina il “cadavere” di Hsiao-Kang, e ne è presumibile fonte del soprannaturale malanno. Le perdite d’acqua piovana non sono più contenute e non sono più ignorabili. Le piogge non sono più responsabili di qualche centimetro di pavimento allagato, ma sfondano i tetti e scavano i muri. Azioni staticamente incorniciate da una macchina da presa impassibile, intenta ad osservare i soggetti ora forzati a reagire a una presenza fattasi insistente.
Il “confronto con l’acqua”, appare in primis insostenibile. Ne Il fiume, la famiglia protagonista, forzatamente estratta da uno stato di apatia, disinteresse, e noncuranza esce dal confronto totalmente annientata. Come ad indicare quanto alle volte isolamento e passività possano divenire confortevoli, quasi desiderabili. Uno stato d’essere familiare, sicuro, semplice.
In The Hole il confronto ha però un risultato differente. La Taipei sinora svuotata solo metaforicamente viene fisicamente desertificata dall’arrivo di un virus, anche in questo caso presumibilmente legato alle torrenziali piogge che ne spazzano le strade. Tra gli ultimi rifiuti dimenticati in una città ormai fatiscente, “l’uomo del piano di sopra” e “la donna del piano di sotto” sono collegati da un foro (ovviamente causato dall’acqua) nei rispettivi pavimenti e soffitti. Gli svogliati sforzi di richiuderlo portano piuttosto a un suo graduale allargamento, facilitato dalla curiosità dell’uomo che, proprio attraverso quella fenditura, spia la vita della donna.
Secondi a confrontarsi con l’acqua e reduci dal generale pessimismo del regista, gli apocalittici Adamo ed Eva di The Hole ne escono inaspettati vincitori. In una prima fragile ipotesi di contatto, di speranza, i due personaggi nuovamente si sfiorano e si allontanano, ma questa volta si riavvicinano per tendersi la mano. Nel gesto di scambiarsi un bicchiere d’acqua. Finalmente da due si diventa uno, e il bisogno di vicinanza, di supporto, e di affezione vengono, per la primissima volta, nutriti da un reale gesto umano, per quanto pulito, semplice.
Dopo lo speranzoso augurio per il nuovo millennio di The Hole, i successivi film di Tsai, Che ora è laggiù? (2001), Goodbye Dragon Inn (2003), e Il gusto dell’anguria (2005), si riallineano ad un meno roseo esistenzialismo. Comunque memore di come, seppur a stento, l’altro sia almeno raggiungibile. Ma quindi, se una connessione è possibile, quali sono i suoi limiti? Dove e come viene irrimediabilmente meno? Nello spazio e nel tempo? Nella distanza tra Taipei e Parigi, nelle loro sette ore di differenza? O solo dopo la vita? Nella successiva pellicola del regista, chi si sta cercando, a chi si domanda, “che ora è laggiù?”. Il fuso di Parigi non è solo il reale orario vissuto da Shiang-chyi, ragazza taiwanese trasferitasi brevemente nella capitale francese, ma anche l’orario che, una moglie e madre da poco vedova, ossessivamente presume coincida con il tempo percepito dal marito nell’aldilà.
Una pellicola ermetica, Che ora è laggiù? riflette sugli impercettibili confini tra una solitudine e un’altra, ma anche, e soprattutto, sugli invisibili legami tra le persone . L’acqua non manca, ma la sua presenza si sposta in una dimensione meno visibile: anche qui la speranza nasce da offerte d’acqua, la speranza di una moglie di rivedere il marito, la speranza di una ragazza persa di non essere più sola. Uno specchio d’acqua, in un parco, su cui viene riflesso uno spirito, un suo gesto di vicinanza. Flebili, invisibili, legami. Un prodigio finale, un piccolo miracolo.
Tra la direzione di Che ora è laggiù? e Il gusto dell’anguria, pellicole che potrebbero essere considerate come una storia in due atti, Tsai si ferma ad omaggiare l’arte cinematografica stessa con Goodbye, Dragon Inn.
Se la pellicola precedente si domanda su cosa debiliti l’appartenenza, Goodbye, Dragon Inn è il lamento funebre di uno dei pochi luoghi storicamente in grado di abilitarla: la sala cinematografica. Una parentesi in una filmografia che dall’uomo si sposta brevemente a celebrare l’arte che gli permette di conoscere e riconoscersi, il cui tempio, al pari dei suoi soggetti, è ormai vicino all’essere abbandonato. Per la morte, la chiusura definitiva, del cinema Fu-Ho di Taipei, l’infinito acquazzone di sottofondo è il lungo pianto mortuario del teatro e dei suoi fantasmi. Ancora una volta, i dialoghi sono superflui, così come ogni intervento di camera che superi una luttuosa contemplazione.
La torrenziale pioggia di Goodbye, Dragon Inn è tale da prosciugare, almeno momentaneamente, la smodata riserva d’acqua in una filmografia che ne è ricolma. Ne Il gusto dell’anguria, una forma di scarsità idrica ha portato la sostituzione dell’acqua con il più reperibile e conveniente succo d’anguria. Quando inizia a mancare l’acqua per dissetarsi, per cucinare, e per lavarsi, la collettività le assegna valore per la prima volta. Il gusto dell’anguria è anche la prima pellicola di Tsai Ming-liang che mostra lo svilupparsi di una relazione, re-introducendo i giovani protagonisti di Che ora è laggiù?.
In questo film, e nel successivo I don’t want to sleep alone (2006), Tsai si interroga sul passo seguente all’instaurazione di una connessione, ovvero sulla natura dell’intimità. Intimità romantica, affettiva, e sessuale. La cura dell’altro, il desiderio emotivo e fisico, ancora una volta sono messi sotto la lente e passivamente osservati. O quasi passivamente, nel momento in cui la solitamente inamovibile camera del regista si sposta e si avvicina ai suoi soggetti per la prima volta.
Successivamente al poco accessibile esperimento, in co-produzione francese, di Visage (2009), Tsai Ming-liang porta sul grande schermo Stray Dogs (2014) e la sua - ad oggi - ultima pellicola, Days (2020). Tutti gli elementi propri dello Slow Cinema del regista fanno la loro comparsa, stilisticamente e tematicamente. A raffinare i film, è visibile l’esperienza artistica museale avviata nel 2013. Taipei è, ancora una volta, indifferente, straniante, abbandonata. Ancora una volta i suoi abitanti sono isolati, depressi, solitari. La camera torna immobile, distaccata, le sequenze dilatate, i dialoghi vuoti. Ancora una volta è presente l’acqua, scorci di spiagge, di fiumi, di gallerie allagate, pozze di fango. Acqua di supermercato, acqua dei rubinetti e dei lavelli di bagni pubblici utilizzati da una famiglia povera per lavarsi di notte. Pioggia osservata per cinque minuti da Kang, dietro i vetri di una grande finestra. Pioggia che, come raccontato nell’unico dialogo realmente pregno di significato, ha invaso il rifugio dei protagonisti di Stray Dogs, ha rigato la loro casa di lacrime per poi asciugarsi e scomparire.
Apparentemente la parabola di Tsai Ming-liang è profondamente pessimista, e gli attimi di speranza, rappresentati dalla breve interruzione della pioggia, sono momenti di fugacità. Momenti che però, osservando con attenzione, non vengono mai meno. La sera dell’ultima proiezione al cinema Fu-Ho, rivedendosi sullo schermo dopo tanto tempo, l’attore di Dragon Inn Jun Shi, commosso, sorride tra le lacrime. Due persone a lungo separate si ritrovano per puro caso, e si riconoscono. Una farfalla si posa a lungo sulla spalla di un uomo senza casa. Una coppia osserva un paesaggio di montagna, dipinto sull’unico muro ancora intatto in un edificio dimesso. Seduto su una panchina, un ragazzo ascolta la melodia di una piccola scatola musicale, regalo ricevuto in segno di gratitudine.
Nel cinema di Tsai Ming-liang la siccità, il bisogno d’acqua, a Taipei, a Parigi, in Malesia, sono costanti, inguaribili. Ma anche i brevi momenti di pace, di vicinanza sono costanti. Dettati dal fato e inevitabili. Un viaggio coeso in cui il bisogno dell’uomo, motore di ogni storia e di ogni azione, è sempre la stessa ricerca di nutrimento, da Rebels of the Neon God, nel 1992, a Days, nel 2020. Un nutrimento, un principio di vita, talvolta raro ma ineluttabile come l’acqua che lo rappresenta. Brevi momenti in cui non si soffre la sete.