Un viaggio nella terra
delle promesse infrante,
di Riccardo Rizzo
TR-132
28.06.2025
Da sempre il cinema di Clint Eastwood è legato all’America. Lo stesso regista, sceneggiatore e attore è un simbolo degli Stati Uniti in generale e del cinema americano in particolare. Quasi tutti i suoi film, in qualche modo, raccontano uno spaccato della storia e della società a stelle e strisce. Dalla Frontiera di Unforgiven (Gli spietati, 1992) all’America violenta di Mystic River (2003) e Gran Torino (2008), passando per la Seconda Guerra Mondiale con Letters from Iwo Jima (Lettere da Iwo Jima, 2006) e Flags of Our Fathers (2006), la guerra in Iraq post-11 settembre di American Sniper (2014), la voglia di rivalsa di Million Dollar Baby (2004), l’America di provincia di The Bridges of Madison County (I ponti di Madison County, 1995) e la critica al sistema giudiziario con Juror #2 (Giurato numero 2, 2024): ogni pellicola è un frammento di una storia più grande. Salvo poche eccezioni, tutte le pellicole di Eastwood sono unite da un unico fil rouge, che le inserisce in una narrazione di più ampio respiro: il racconto dell’America e la decostruzione del suo mito.
Per comprendere il cinema eastwoodiano e analizzare la sua visione degli U.S.A. è necessario partire da lontano. Come ogni grande regista americano, a modo suo, anche Eastwood racconta gli Stati Uniti. Il suo è uno sguardo realistico, vicino ai diversi modi di vita degli abitanti del Paese. Uno sguardo profondo e radicato, dunque, che già dalle prime opere si carica di una portata mitica. Un racconto epico, quello dell’America di Clint, che però nasconde la sua stessa decomposizione. È questo lo scopo ultimo delle sue pellicole. Sfruttando gli stilemi classici e tradizionali del cinema statunitense, in particolare l’azione e il destino, Eastwood decostruisce il mito americano in ogni epoca, dal Far West fino ai giorni nostri. Più che film sull’America, invero, le sue opere sono storie americane.
Un giovane Clint Eastwood
L’America di Frontiera: un mito destinato a tramontare ancor prima di sorgere
Il viaggio nell’America eastwoodiana parte dalla Frontiera e dal West incontaminato, un sogno che in Unforgiven sta ormai volgendo al termine. Oltre a essere il primo tassello di questo complesso mosaico, l'opera svolge un ruolo cruciale per la filmografia di Clint Eastwood, in quanto è il film che lo consacra definitivamente come autore. Con Unforgiven cambia il modo in cui la critica guarda al suo cinema. Fino a quel momento, infatti, Clint era considerato “solo” un buon regista di genere, con la sua produzione che si era mossa principalmente tra due generi: il western e il poliziesco/noir - celebri, a tal proposito, White Hunter Black Heart (Cacciatore bianco, cuore nero1990) e Bird (1988). Unforgiven, di fatto, è l’ultimo western di Eastwood, che fa i conti col genere che lo ha lanciato come attore ai tempi della Trilogia del dollaro (1964-1966) di Sergio Leone. L’obiettivo è chiaro: decostruire il mito del West.
Il regista lo mette in chiaro fin da subito. Dopo una primissima immagine d’apertura che mostra le montagne del Wyoming, le sequenze iniziali si concentrano su aree chiuse, quasi claustrofobiche. Scompaiono gli spazi aperti e incontaminati (dalle steppe sconfinate del Midwest ai deserti e alle montagne del profondo Ovest), a beneficio di ambientazioni più delimitate, dove la violenza chiama altra violenza - simbolo che svolge un ruolo centrale nel racconto, in quanto è, a tutti gli effetti, un elemento fondativo della nazione americana.
Clint Eastwood e Sergio Leone
Storicamente gli Stati Uniti sono nati nela violenza, dalla Guerra d’indipendenza alla Guerra civile dell’Ottocento, senza dimenticarsi ovviamente dello sterminio delle popolazioni native. E così i protagonisti di Unforgiven, nonostante la volontà di trovare la pace, finiscono in un ciclo senza fine di morte, sangue e violenza. È appunto dai personaggi che Eastwood parte per la scomposizione del mito della Frontiera. In particolare sono quattro le figure chiave: William Munny (interpretato dallo stesso Clint), Kid, Little Bill e W.W. Beauchamp, lo scrittore. Il primo rappresenta il mito del West, la Leggenda. Una figura mitica che però viene subito decostruita nel prologo, dove si mostra come un personaggio vecchio e stanco. Un processo di demitizzazione che continua per tutto il film, e che si sviluppa anche grazie ai ruoli di Little Bill e Kid, che invece credono ancora nelle opportunità e nelle libertà (morali ed economiche) della Frontiera. Il personaggio dello scrittore, infine, incarna la volontà di raccontare la leggenda del West; quel continuo tentativo, cioè, di trasformare la Storia in Mito.
Unforgiven tuttavia non effettua una demolizione totale della Frontiera americana, stravolgendo le carte in tavola nel finale e restituendo l’aura mitica al personaggio di Munny, che dopo aver scoperto della morte dell’amico Ned supera le sue difficoltà nel tornare a uccidere, ricomincia a bere (aveva smesso grazie alla moglie, ora deceduta) e compie la sua vendetta. Munny incarna a pieno il carattere tragico del suo personaggio (un elemento centrale in tutta la produzione di Eastwood), che tenta di redimersi da un passato insalvabile (ecco spiegato quindi anche il titolo originale del lungometraggio). Quello del West è un ciclo di violenza senza fine, dove non c’è alcuna possibilità di redenzione, di salvezza. Il tragico e la violenza, come detto, sono centrali in molte pellicole del regista, e trovano una naturale evoluzione rispetto a Unforgiven nel binomio di film sulla Seconda Guerra mondiale Letters from Iwo Jima e Flags of Our Fathers.
Unforgiven (Gli spietati, 1992)
Due facce di una stessa medaglia: la battaglia per Iwo Jima
Letters from Iwo Jima e Flags of Our Fathers rappresentano un interessante esperimento cinematografico. Le due opere raccontano lo stesso evento, la battaglia per Iwo Jima, ma da due prospettive opposte e complementari: Flags of Our Fathers è dedicato al fronte americano, e si concentra su come tre dei sei marines fotografati non siano stati effettivamente presenti nell’iconico momento immortalato da Joe Rosenthal; mentre Letters from Iwo Jima racconta dell’invasione americana dal punto di vista dei giapponesi, focalizzandosi anche su tutta la fase antecedente la battaglia. Flags of Our Fathers in particolare, oltre al tema della violenza e del tragico (presenti in egual misura nel suo corrispettivo nipponico), presenta anche un forte simbolismo, che trova massima espressione proprio nella bandiera americana, perno narrativo del film e cuore pulsante della sua riflessione critica. Presente in moltissime altre opere del cineasta, qui la bandiera non è solo il simbolo di un intero Paese, ma è anche il punto di partenza per gli eventi narrati. Eventi che ruotano intorno a una menzogna.
Sì perché i tre marines eretti a simbolo, diventati eterni grazie al fotografo dell’Associated Press, non sono i veri eroi di Iwo Jima. E Flags of Our Fathers (il titolo a tal proposito è esemplificativo) riflette proprio su questo: su dove siano disposti ad arrivare gli Stati Uniti per favorire la propaganda bellica, ottenere nuovi investimenti e celebrare l’imminente vittoria della guerra. Poco importa della memoria dei veri soldati che hanno innalzato la bandiera in nome di tutti i compagni caduti. Poco importa dei sensi di colpa dei marines che si sono ritrovati eroi di un Paese in festa senza neanche comprenderne il perché.
Flags of Our Fathers (2006)
«Nel secondo dopo-guerra l’immagine della bandiera di Iwo Jima è un messaggio trionfante di liberazione e libertà, segnala la fine di un incubo - e l’avvento di un impero che vuole estendere la sua influenza su tutti i continenti in modo, questa volta, permanente. Essa marca un confine ideologico e di politica di potenza, in Europa e non solo; si accompagna e si contrappone con nettezza a un’altra immagine celebre, la fotografia dei soldati sovietici che alzano la loro bandiera, rossa con la falce e il martello, sul Reichstag di Berlino in fiamme il 2 maggio 1945» (Clint Eastwood, Adozione, Alessandro Canadé, Alessia Cervini, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2012). Ecco, Eastwood parte da questo e decostruisce la fotografia di Rosenthal. La spoglia della sua carica simbolica, del suo peso politico e militare, mostrando le conseguenze umane che colpiscono direttamente tre dei soldati raffigurati.
E Letters from Iwo Jima, in questo, svolge un ruolo fondamentale. Il racconto della prospettiva giapponese, della paura e del coraggio dei suoi soldati, smonta definitivamente la narrazione americanocentrica: non esistono buoni o cattivi, ma solo soldati mandati a morire su un’isola sperduta nel Pacifico per contendersi la posizione strategica (e ancora, simbolica) del monte Suribachi. Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima, insieme, rappresentano una decostruzione stessa della guerra, della ritualità e della simbologia che la permeano, indipendentemente dallo schieramento. Un processo di demitizzazione che trova una sua naturale evoluzione in American Sniper, dove il regista fa i conti con l’invasione dell’Iraq conseguente all’attacco alle Torri Gemelle.
Letters from Iwo Jima (2006)
Una guerra senza gloria: il prezzo del mito statunitense
Partendo ancora una volta da una storia vera, quella del SEAL Chris Kyle, American Sniper segue le vicende del cecchino più letale della storia militare americana. E ancora una volta, più che una mitizzazione del personaggio, è una decostruzione dello stesso. Un altro processo di demitizzazione, con Eastwood che racconta le conseguenze psicologiche e sociali della guerra in Iraq. American Sniper non è una celebrazione del conflitto e della potenza degli Stati Uniti, anzi. Nel corso del film quella di Kyle diventa una guerra intima e personale, che lo porta a tornare per ben quattro volte sul campo di battaglia nonostante a casa lo aspettino la moglie e i due figli. Eastwood mostra i dilemmi morali e le contraddizioni del mito americano de “La leggenda” (questo il soprannome di Chris), che deve fare i conti con il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), l’alienazione e le difficoltà del ritorno alla normalità.
Non si tratta di un semplice film sulla guerra. Al centro del racconto vi è l’impatto intimo del conflitto. A essere protagonista è ciò che della guerra rimane in tutti i soldati, anche quando ritornano a casa. American Sniper è il racconto della quotidianità di un conflitto che si combatte lontano, ma che ha conseguenze dirette sulla popolazione americana. Non è solo la storia del miglior cecchino statunitense, ma è anche quella della persona Chris Kyle, le cui prime vittime sono un bambino e una donna che hanno tentato di attaccare una pattuglia di marines, e che a casa ha una moglie che con il tempo capisce di star perdendo suo marito, immerso in un vortice di sangue, sabbia e proiettili calibro 5,56. È la storia di un uomo che non riesce a smettere di combattere, nonostante abbia tutti i motivi per farlo. È la storia di un uomo che alla fine troverà la morte nella sua stessa casa, per mano di un altro reduce dell’Iraq. Chris Kyle, di fatto, è vittima del sistema americano, che non è riuscito a gestire la situazione psicologica dei soldati di ritorno dal Medio Oriente.
Esemplare, a tal proposito, il finale della pellicola, che mostra un corteo funebre di trecentoventi chilometri dove centinaia di persone sventolano la bandiera americana. Eccola, ancora volta, la Old Glory. Invece che fare i conti con quanto successo, sul processo sociale e culturale che ha portato alla morte di Chris, gli Stati Uniti lo hanno trasformato in un mito. In una Leggenda, appunto. E i suoi funerali altro non sono che il sigillo definitivo di questo procedimento. Hanno cristallizzato la sua figura, rendendola un simbolo immortale per tutti i soldati americani e per tutte le azioni belliche all’estero. American Sniper è dunque un antidoto a questa narrazione. Un ulteriore tentativo di attacco al mito americano. Con il film Eastwood non vuole raccontare le gesta de La leggenda, ma della storia vera di Chris Kyle, un soldato del Texas sposato con Taya e con due figli, Colton e McKenna, che ha trovato la morte non in Iraq, in guerra, ma dietro casa sua, negli Stati Uniti d'America.
Storie americane
Nel corso della sua lunga filmografia, sono state varie le volte in cui Clint Eastwood ha preso ispirazione direttamente dalla realtà per raccontare le sue storie. Oltre ad American Sniper, Letters from Iwo Jima e Flags of Our Fathers, anche in altre tre pellicole attinge a piene mani dalla realtà dei fatti: The Mule (2018), Sully (2016) e Million Dollar Baby. Il primo vede come protagonista Earl (direttamente interpretato dallo stesso Clint), che come la controparte reale, Leo Sharp, è un veterano della Guerra di Corea che diventa un corriere della droga per il cartello di Sinaloa. Quella di The Mule è una storia semplice, che non ha un effettivo intreccio, ma piuttosto un esile filo narrativo. È il racconto della vecchiaia di un uomo costretto a vivere con i sensi di colpa per le sue azioni passate e con il sogno di rimediare. Una speranza di redenzione, dunque, che si inserisce perfettamente nel quadro più generale delle opere dell’autore.
A differenza di Mystic River per esempio (ma anche di Unforgiven), dove non c’è possibilità di espiazione, in The Mule la redenzione è possibile. Una redenzione frutto del passaggio del tempo, che non consiste solo nel perdono della famiglia, ma anche nell’assunzione stessa delle proprie responsabilità. La storia è sempre quella di un americano medio, che ha servito in guerra, con una macchina che lo segue sempre (i collegamenti con Gran Torino qui sono fin troppo evidenti, ma ne parleremo tra poco) e che ha dedicato molto, troppo, alla sua sfera sociale, mancando in qualche modo i propri obblighi familiari. Eppure, a differenza di Mystic River, qui una soluzione è possibile. Nel film del 2003 infatti tutto è implicito, dai pensieri alle emozioni dei personaggi, ed è proprio questo non-detto a generare tutto l’intreccio narrativo che porta a una chiusura amara.
The Mule (2018)
Una sensazione che lascia anche il finale di Million Dollar Baby, prodotto di tutt’altro genere ma anch’esso caratterizzato dalla sua natura intrinsecamente americana. La protagonista qui è Maggie (probabilmente ispirata alla pugile Katie Dallam, che dopo aver iniziato a combattere andò incontro a un destino molto simile a quello del personaggio raccontato), che grazie alla sua tenacia diventa una pugile di fama mondiale. Centrale nel racconto è il rapporto che la ragazza instaura con il suo allenatore, Frankie, che inizialmente non vuole allenarla. Frankie viene infatti da un periodo difficile, e non se la sente di iniziare un nuovo percorso. Maggie però non demorde, e alla fine l’uomo cede. I due instaurano così un fortissimo legame padre-figlio, caratterizzato soprattutto dal rispetto e dalla reciproca voglia di riscatto, chi nella boxe, chi nella vita quotidiana. Più di qualsiasi altro film, di fatto, Million Dollar Baby parla del sogno americano: del sogno di riuscire a farcela, di realizzare i propri obiettivi, costi quel che costi. Al centro di tutto ci sono le scelte dei personaggi, che sono padroni del proprio destino. Prendiamo il rapporto tra Maggie e Frankie, che ben riassume questo concetto. Entrambi vengono da un passato familiare complesso (il legame di sangue, per definizione, non è scelto), e quindi scelgono di creare nuove relazioni. Un po’ come quello che succede in Gran Torino, altro film in cui la famiglia e la creazione di nuovi rapporti sono al centro del racconto.
Chiude infine il trittico di storie americane Sully, che narra le vicende del Miracolo sull’Hudson. Nel 2009 il capitano Chesley “Sully” Sullenberger compie un atterraggio di emergenza dopo un impatto con uno stormo di uccelli, salvando tutti e centocinquantacinque i passaggeri a bordo del volo US Airways 1549. Nonostante il mondo lo celebri come un eroe, una commissione d’indagine federale mette in dubbio la decisione dell’ammaraggio, credendo che sarebbe potuto tornare in aeroporto. Tramite un’alternanza di flashback, sogni ricorrenti di Sully e i vari procedimenti investigativi, l'opera riflette sulle pressioni psicologiche di un uomo che ha agito secondo la propria coscienza. I temi principali sono dunque i soliti: la decostruzione del mito, con un Sully che si mostra fragile e determinato (in sostanza, umano); l’eroismo quotidiano e una critica al sistema burocratico americano, che come vedremo sarà protagonista assoluta di Juror #2.
Million Dollar Baby (2004)
Un racconto dell’America
È proprio da Juror #2, ultimo film di Eastwood uscito in sala, che parte l’ultimo filone del racconto della sua filmografia: quello dell’America. Clint non si limita infatti alle storie vere, ma sfrutta anche vicende completamente inventate per riflettere sulle dicotomie e le contraddizioni della sua Nazione. Juror #2 in particolare, come si evince dal nome, è una critica al sistema giudiziario. Nei panni di Justin (il cui nome, tramite assonanza, richiama justice), il regista esplora le falle della giustizia a stelle e strisce, seguendo il processo per la morte, in circostanze misteriose, di una ragazza. Il principale indiziato delle forze dell’ordine è il ragazzo, che però si dichiara innocente. E lo spettatore sa che è la verità. Sì perché l’opera non è un dramma giudiziario. Il suo scopo non è la ricerca della verità, che è chiara fin da subito.
A differenza per esempio di Mystic River, qui la verità viene scoperta subito, a inizio film - invero non c’è nessun momento in cui questa viene esplicitata, ma è sempre allusa e implicita tra i personaggi (è presente uno scarto rispetto al modello classico del genere). Attraverso il dilemma morale del protagonista, Eastwood mostra le falle del sistema, che finisce per arrestare un innocente nonostante manchino le prove a carico dell’imputato. L’avvocato dell’accusa Faith Killebrew infatti è anche in corsa per diventare procuratrice distrettuale, e per ottenere la carica le serve necessariamente una vittoria. Per farlo è disposta anche a sorvolare sull’assenza di prove schiaccianti e a ignorare i crescenti sospetti verso Justin, che da giurato è sempre più in difficoltà nella gestione del processo, non sapendo come salvare James e sé stesso.
Il tema della salvezza è centrale anche in altre due pellicole: Mystic River e Gran Torino. Il primo racconta tre dei mille volti dell’America, che si rispecchiano nei tre protagonisti: l’America violenta e criminale di Jimmy, l’America traumatizzata di Dave e l’America solida di Sean. A contrapporsi sono soprattutto le visioni di Jimmy e Sean, amici per la vita destinati a diventare avversarsi nella ricerca della verità per la morte di Katie. L’America di Jimmy è quella fondativa (del racconto e del Paese), che nasce dall’uccisione di un corpo non violato. Quella di Sean è quella del futuro, quella che ha saputo resistere. Sono i due volti principali dell’America, luce e ombra, libertà e consapevolezza. Ciò che più caratterizza gli U.S.A. di Mystic River però è l’assenza di redenzione. Non c’è possibilità di emendazione, di espiazione dei propri peccati. La colpa non è individuale, strettamente legata al singolo soggetto, ma è collettiva. La colpa è della società, che risulta statica, immodificabile.
Eastwood e Nicholas Hoult sul set di Juror #2 (2024)
Esattamente il contrario di quanto si vede in Mystic River è l’America di Gran Torino. Qui la colpa è individuale, soggettiva, e per questo è emendabile. A differenza di Mystic River, dove tutto è implicito, qui il personaggio è esplicitamente duro, si fa carico del proprio dolore e delle proprie responsabilità. È proprio per questo che alla fine Walt può trovare la redenzione, anche se nella morte. Con il suo sacrificio può salvare la famiglia di Thao e garantirgli un futuro. L’America di Gran Torino, così come quella di Million Dollar Baby, è l’America della scelta, dei legami adottivi. Eastwood costruisce un’America che non solo può rinascere, si può redimere, ma si può costruire ben oltre i legami di sangue, con dei rapporti adottivi. Gli Stati Uniti di fatto sono una grande famiglia adottiva, capace di adottare e farsi adottare. Per farlo, tuttavia, è necessario creare prima di tutto un vuoto: «è necessario che alla legge di natura si sostituisca la legge dell’uomo, che non ci siano più padri naturali [come quelli di Mystic River, che arrivano a uccidere per i propri figli], ma padri adottivi. È necessario quindi che un vuoto si crei perché esso possa non essere lasciato vuoto […]. È in questo spazio che troverà dimora una comunità nuova, capace di assumere su di sé la responsabilità di ripensare peso e forma di ciò che sono il passato, la tradizione, l’eredità» (Clint Eastwood, Adozione, Alessandro Canadé, Alessia Cervini, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2012).
La scelta garantisce ai personaggi l’opportunità di costruire relazioni etiche e politiche, in quanto non si basano sulla naturalità del rapporto tra i soggetti coinvolti. E se in Million Dollar Baby questo si traduce in un rapporto tra due individui, in Gran Torino l’adozione riguarda un’intera comunità. Come si afferma nel volume curato da Alessandro Canadé e Alessia Cervini, «Walt non adotta, infatti, soltanto il giovane Thao, ma con lui tutta la sua famiglia e la comunità in cui essa viene a inserirsi. Il sacrificio di Walt, in questo modo, non salva soltanto la vita di Thao, ma restituisce a un’intera comunità la facoltà di uscire dalla spirale di violenza cieca e vendicativa in cui era finita, per ripensarsi e concedere a sé stessa la possibilità del futuro. È a partire da qui che il cinema di Eastwood fa sempre più propria una poetica dell’adozione che diventa la base per la costruzione di ogni comunità politica e che convoca il cinema e le sue forme come propri testimoni».
Sean Pen nel ruolo del tormentato di Jimmy Markum (per cui si aggiudicò l'Oscar come Miglior Attore protagonista) in Mystic River (2003)
L’America di Eastwood non è però solo quella violenta di Mystic River e Gran Torino. Il regista ha raccontato anche un’America silenziosa, rurale, immersa in una quotidianità alienante. La realtà propria di The Bridges of Madison County. I suoi protagonisti sono Francesca, una casalinga dell’Iowa, e Robert Kincaid, un fotografo di National Geographic che arriva a Madison County per fotografarne i ponti coperti. I due si incontrano per caso, e da lì iniziano una breve quanto intensa storia d’amore. Dopo quattro giorni dal loro primo incontro, infatti, rientreranno il marito e i figli di lei, con Francesca che deve dunque scegliere se rimanere con Richard o scappare con Robert. Quella di Madison County è la vera America di provincia. Un’America contadina, conservatrice. Un’America fatta di strade sterrate, case isolate, ponti di legno e giornate scandite dai pettegolezzi al bar e dal lavoro nei campi. Un luogo dove le persone conducono vite semplici, in apparenza tranquille, ma che interiormente sono segnate da silenzi e rinunce. È l’America del Midwest: morale, devota, spesso immobile. Un’America che si contrappone a quella errante e contemplativa di Robert, che con la sua macchina fotografica e il suo spirito indipendente incarna un’altra idea di esistenza: più libera, poetica e aperta al mondo. La sua sola presenza mette in crisi l’ordine domestico e risveglia un bisogno di autenticità che Francesca aveva represso.
Quella di The Bridges of Madison County, in definitiva, è un’America vera, quotidiana, lontana dal mito urbano ed eroico. È un paesaggio interiore, prima ancora che geografico, in cui si combatte silenziosamente tra ciò che si desidera e ciò che si è obbligati a essere. Quella di Clint Eastwood, in generale, è un’America complessa e sfaccettata, di cui il regista ne racconta alcuni spaccati nelle sue opere, sfruttando più o meno marcatamente il tessuto sociale e storico del Paese per raccontare storie vere, concrete, umane. Nei suoi film non è interessato alla glorificazione degli Stati Uniti e dei suoi “eroi”, né alla mitizzazione della sua storia e del suo passato violento e sanguinario. Piuttosto vuole decostruirne i miti, depotenziando le narrazioni dominanti e mostrando una realtà ben più strutturata e articolata. Una realtà quotidiana, vera, fatta di azioni semplici come prendersi cura della propria Gran Torino o bersi una limonata con un uomo conosciuto da poco. Nella sua riflessione critica, però, Eastwood non vuole giudicare. Non gli interessa. Vuole solo mostrare la profondità dei mille volti degli Stai Uniti, facendo a sua volta riflettere lo spettatore sulla loro Storia, società e cultura.
Meryl Streep, struggente protagonista di The Bridges of Madison County (I ponti di Madison County, 1995)
Un viaggio nella terra
delle promesse infrante,
di Riccardo Rizzo
TR-132
28.06.2025
Da sempre il cinema di Clint Eastwood è legato all’America. Lo stesso regista, sceneggiatore e attore è un simbolo degli Stati Uniti in generale e del cinema americano in particolare. Quasi tutti i suoi film, in qualche modo, raccontano uno spaccato della storia e della società a stelle e strisce. Dalla Frontiera di Unforgiven (Gli spietati, 1992) all’America violenta di Mystic River (2003) e Gran Torino (2008), passando per la Seconda Guerra Mondiale con Letters from Iwo Jima (Lettere da Iwo Jima, 2006) e Flags of Our Fathers (2006), la guerra in Iraq post-11 settembre di American Sniper (2014), la voglia di rivalsa di Million Dollar Baby (2004), l’America di provincia di The Bridges of Madison County (I ponti di Madison County, 1995) e la critica al sistema giudiziario con Juror #2 (Giurato numero 2, 2024): ogni pellicola è un frammento di una storia più grande. Salvo poche eccezioni, tutte le pellicole di Eastwood sono unite da un unico fil rouge, che le inserisce in una narrazione di più ampio respiro: il racconto dell’America e la decostruzione del suo mito.
Per comprendere il cinema eastwoodiano e analizzare la sua visione degli U.S.A. è necessario partire da lontano. Come ogni grande regista americano, a modo suo, anche Eastwood racconta gli Stati Uniti. Il suo è uno sguardo realistico, vicino ai diversi modi di vita degli abitanti del Paese. Uno sguardo profondo e radicato, dunque, che già dalle prime opere si carica di una portata mitica. Un racconto epico, quello dell’America di Clint, che però nasconde la sua stessa decomposizione. È questo lo scopo ultimo delle sue pellicole. Sfruttando gli stilemi classici e tradizionali del cinema statunitense, in particolare l’azione e il destino, Eastwood decostruisce il mito americano in ogni epoca, dal Far West fino ai giorni nostri. Più che film sull’America, invero, le sue opere sono storie americane.
Un giovane Clint Eastwood
L’America di Frontiera: un mito destinato a tramontare ancor prima di sorgere
Il viaggio nell’America eastwoodiana parte dalla Frontiera e dal West incontaminato, un sogno che in Unforgiven sta ormai volgendo al termine. Oltre a essere il primo tassello di questo complesso mosaico, l'opera svolge un ruolo cruciale per la filmografia di Clint Eastwood, in quanto è il film che lo consacra definitivamente come autore. Con Unforgiven cambia il modo in cui la critica guarda al suo cinema. Fino a quel momento, infatti, Clint era considerato “solo” un buon regista di genere, con la sua produzione che si era mossa principalmente tra due generi: il western e il poliziesco/noir - celebri, a tal proposito, White Hunter Black Heart (Cacciatore bianco, cuore nero1990) e Bird (1988). Unforgiven, di fatto, è l’ultimo western di Eastwood, che fa i conti col genere che lo ha lanciato come attore ai tempi della Trilogia del dollaro (1964-1966) di Sergio Leone. L’obiettivo è chiaro: decostruire il mito del West.
Il regista lo mette in chiaro fin da subito. Dopo una primissima immagine d’apertura che mostra le montagne del Wyoming, le sequenze iniziali si concentrano su aree chiuse, quasi claustrofobiche. Scompaiono gli spazi aperti e incontaminati (dalle steppe sconfinate del Midwest ai deserti e alle montagne del profondo Ovest), a beneficio di ambientazioni più delimitate, dove la violenza chiama altra violenza - simbolo che svolge un ruolo centrale nel racconto, in quanto è, a tutti gli effetti, un elemento fondativo della nazione americana.
Clint Eastwood e Sergio Leone
Storicamente gli Stati Uniti sono nati nela violenza, dalla Guerra d’indipendenza alla Guerra civile dell’Ottocento, senza dimenticarsi ovviamente dello sterminio delle popolazioni native. E così i protagonisti di Unforgiven, nonostante la volontà di trovare la pace, finiscono in un ciclo senza fine di morte, sangue e violenza. È appunto dai personaggi che Eastwood parte per la scomposizione del mito della Frontiera. In particolare sono quattro le figure chiave: William Munny (interpretato dallo stesso Clint), Kid, Little Bill e W.W. Beauchamp, lo scrittore. Il primo rappresenta il mito del West, la Leggenda. Una figura mitica che però viene subito decostruita nel prologo, dove si mostra come un personaggio vecchio e stanco. Un processo di demitizzazione che continua per tutto il film, e che si sviluppa anche grazie ai ruoli di Little Bill e Kid, che invece credono ancora nelle opportunità e nelle libertà (morali ed economiche) della Frontiera. Il personaggio dello scrittore, infine, incarna la volontà di raccontare la leggenda del West; quel continuo tentativo, cioè, di trasformare la Storia in Mito.
Unforgiven tuttavia non effettua una demolizione totale della Frontiera americana, stravolgendo le carte in tavola nel finale e restituendo l’aura mitica al personaggio di Munny, che dopo aver scoperto della morte dell’amico Ned supera le sue difficoltà nel tornare a uccidere, ricomincia a bere (aveva smesso grazie alla moglie, ora deceduta) e compie la sua vendetta. Munny incarna a pieno il carattere tragico del suo personaggio (un elemento centrale in tutta la produzione di Eastwood), che tenta di redimersi da un passato insalvabile (ecco spiegato quindi anche il titolo originale del lungometraggio). Quello del West è un ciclo di violenza senza fine, dove non c’è alcuna possibilità di redenzione, di salvezza. Il tragico e la violenza, come detto, sono centrali in molte pellicole del regista, e trovano una naturale evoluzione rispetto a Unforgiven nel binomio di film sulla Seconda Guerra mondiale Letters from Iwo Jima e Flags of Our Fathers.
Unforgiven (Gli spietati, 1992)
Due facce di una stessa medaglia: la battaglia per Iwo Jima
Letters from Iwo Jima e Flags of Our Fathers rappresentano un interessante esperimento cinematografico. Le due opere raccontano lo stesso evento, la battaglia per Iwo Jima, ma da due prospettive opposte e complementari: Flags of Our Fathers è dedicato al fronte americano, e si concentra su come tre dei sei marines fotografati non siano stati effettivamente presenti nell’iconico momento immortalato da Joe Rosenthal; mentre Letters from Iwo Jima racconta dell’invasione americana dal punto di vista dei giapponesi, focalizzandosi anche su tutta la fase antecedente la battaglia. Flags of Our Fathers in particolare, oltre al tema della violenza e del tragico (presenti in egual misura nel suo corrispettivo nipponico), presenta anche un forte simbolismo, che trova massima espressione proprio nella bandiera americana, perno narrativo del film e cuore pulsante della sua riflessione critica. Presente in moltissime altre opere del cineasta, qui la bandiera non è solo il simbolo di un intero Paese, ma è anche il punto di partenza per gli eventi narrati. Eventi che ruotano intorno a una menzogna.
Sì perché i tre marines eretti a simbolo, diventati eterni grazie al fotografo dell’Associated Press, non sono i veri eroi di Iwo Jima. E Flags of Our Fathers (il titolo a tal proposito è esemplificativo) riflette proprio su questo: su dove siano disposti ad arrivare gli Stati Uniti per favorire la propaganda bellica, ottenere nuovi investimenti e celebrare l’imminente vittoria della guerra. Poco importa della memoria dei veri soldati che hanno innalzato la bandiera in nome di tutti i compagni caduti. Poco importa dei sensi di colpa dei marines che si sono ritrovati eroi di un Paese in festa senza neanche comprenderne il perché.
Flags of Our Fathers (2006)
«Nel secondo dopo-guerra l’immagine della bandiera di Iwo Jima è un messaggio trionfante di liberazione e libertà, segnala la fine di un incubo - e l’avvento di un impero che vuole estendere la sua influenza su tutti i continenti in modo, questa volta, permanente. Essa marca un confine ideologico e di politica di potenza, in Europa e non solo; si accompagna e si contrappone con nettezza a un’altra immagine celebre, la fotografia dei soldati sovietici che alzano la loro bandiera, rossa con la falce e il martello, sul Reichstag di Berlino in fiamme il 2 maggio 1945» (Clint Eastwood, Adozione, Alessandro Canadé, Alessia Cervini, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2012). Ecco, Eastwood parte da questo e decostruisce la fotografia di Rosenthal. La spoglia della sua carica simbolica, del suo peso politico e militare, mostrando le conseguenze umane che colpiscono direttamente tre dei soldati raffigurati.
E Letters from Iwo Jima, in questo, svolge un ruolo fondamentale. Il racconto della prospettiva giapponese, della paura e del coraggio dei suoi soldati, smonta definitivamente la narrazione americanocentrica: non esistono buoni o cattivi, ma solo soldati mandati a morire su un’isola sperduta nel Pacifico per contendersi la posizione strategica (e ancora, simbolica) del monte Suribachi. Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima, insieme, rappresentano una decostruzione stessa della guerra, della ritualità e della simbologia che la permeano, indipendentemente dallo schieramento. Un processo di demitizzazione che trova una sua naturale evoluzione in American Sniper, dove il regista fa i conti con l’invasione dell’Iraq conseguente all’attacco alle Torri Gemelle.
Letters from Iwo Jima (2006)
Una guerra senza gloria: il prezzo del mito statunitense
Partendo ancora una volta da una storia vera, quella del SEAL Chris Kyle, American Sniper segue le vicende del cecchino più letale della storia militare americana. E ancora una volta, più che una mitizzazione del personaggio, è una decostruzione dello stesso. Un altro processo di demitizzazione, con Eastwood che racconta le conseguenze psicologiche e sociali della guerra in Iraq. American Sniper non è una celebrazione del conflitto e della potenza degli Stati Uniti, anzi. Nel corso del film quella di Kyle diventa una guerra intima e personale, che lo porta a tornare per ben quattro volte sul campo di battaglia nonostante a casa lo aspettino la moglie e i due figli. Eastwood mostra i dilemmi morali e le contraddizioni del mito americano de “La leggenda” (questo il soprannome di Chris), che deve fare i conti con il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), l’alienazione e le difficoltà del ritorno alla normalità.
Non si tratta di un semplice film sulla guerra. Al centro del racconto vi è l’impatto intimo del conflitto. A essere protagonista è ciò che della guerra rimane in tutti i soldati, anche quando ritornano a casa. American Sniper è il racconto della quotidianità di un conflitto che si combatte lontano, ma che ha conseguenze dirette sulla popolazione americana. Non è solo la storia del miglior cecchino statunitense, ma è anche quella della persona Chris Kyle, le cui prime vittime sono un bambino e una donna che hanno tentato di attaccare una pattuglia di marines, e che a casa ha una moglie che con il tempo capisce di star perdendo suo marito, immerso in un vortice di sangue, sabbia e proiettili calibro 5,56. È la storia di un uomo che non riesce a smettere di combattere, nonostante abbia tutti i motivi per farlo. È la storia di un uomo che alla fine troverà la morte nella sua stessa casa, per mano di un altro reduce dell’Iraq. Chris Kyle, di fatto, è vittima del sistema americano, che non è riuscito a gestire la situazione psicologica dei soldati di ritorno dal Medio Oriente.
Esemplare, a tal proposito, il finale della pellicola, che mostra un corteo funebre di trecentoventi chilometri dove centinaia di persone sventolano la bandiera americana. Eccola, ancora volta, la Old Glory. Invece che fare i conti con quanto successo, sul processo sociale e culturale che ha portato alla morte di Chris, gli Stati Uniti lo hanno trasformato in un mito. In una Leggenda, appunto. E i suoi funerali altro non sono che il sigillo definitivo di questo procedimento. Hanno cristallizzato la sua figura, rendendola un simbolo immortale per tutti i soldati americani e per tutte le azioni belliche all’estero. American Sniper è dunque un antidoto a questa narrazione. Un ulteriore tentativo di attacco al mito americano. Con il film Eastwood non vuole raccontare le gesta de La leggenda, ma della storia vera di Chris Kyle, un soldato del Texas sposato con Taya e con due figli, Colton e McKenna, che ha trovato la morte non in Iraq, in guerra, ma dietro casa sua, negli Stati Uniti d'America.
Storie americane
Nel corso della sua lunga filmografia, sono state varie le volte in cui Clint Eastwood ha preso ispirazione direttamente dalla realtà per raccontare le sue storie. Oltre ad American Sniper, Letters from Iwo Jima e Flags of Our Fathers, anche in altre tre pellicole attinge a piene mani dalla realtà dei fatti: The Mule (2018), Sully (2016) e Million Dollar Baby. Il primo vede come protagonista Earl (direttamente interpretato dallo stesso Clint), che come la controparte reale, Leo Sharp, è un veterano della Guerra di Corea che diventa un corriere della droga per il cartello di Sinaloa. Quella di The Mule è una storia semplice, che non ha un effettivo intreccio, ma piuttosto un esile filo narrativo. È il racconto della vecchiaia di un uomo costretto a vivere con i sensi di colpa per le sue azioni passate e con il sogno di rimediare. Una speranza di redenzione, dunque, che si inserisce perfettamente nel quadro più generale delle opere dell’autore.
A differenza di Mystic River per esempio (ma anche di Unforgiven), dove non c’è possibilità di espiazione, in The Mule la redenzione è possibile. Una redenzione frutto del passaggio del tempo, che non consiste solo nel perdono della famiglia, ma anche nell’assunzione stessa delle proprie responsabilità. La storia è sempre quella di un americano medio, che ha servito in guerra, con una macchina che lo segue sempre (i collegamenti con Gran Torino qui sono fin troppo evidenti, ma ne parleremo tra poco) e che ha dedicato molto, troppo, alla sua sfera sociale, mancando in qualche modo i propri obblighi familiari. Eppure, a differenza di Mystic River, qui una soluzione è possibile. Nel film del 2003 infatti tutto è implicito, dai pensieri alle emozioni dei personaggi, ed è proprio questo non-detto a generare tutto l’intreccio narrativo che porta a una chiusura amara.
The Mule (2018)
Una sensazione che lascia anche il finale di Million Dollar Baby, prodotto di tutt’altro genere ma anch’esso caratterizzato dalla sua natura intrinsecamente americana. La protagonista qui è Maggie (probabilmente ispirata alla pugile Katie Dallam, che dopo aver iniziato a combattere andò incontro a un destino molto simile a quello del personaggio raccontato), che grazie alla sua tenacia diventa una pugile di fama mondiale. Centrale nel racconto è il rapporto che la ragazza instaura con il suo allenatore, Frankie, che inizialmente non vuole allenarla. Frankie viene infatti da un periodo difficile, e non se la sente di iniziare un nuovo percorso. Maggie però non demorde, e alla fine l’uomo cede. I due instaurano così un fortissimo legame padre-figlio, caratterizzato soprattutto dal rispetto e dalla reciproca voglia di riscatto, chi nella boxe, chi nella vita quotidiana. Più di qualsiasi altro film, di fatto, Million Dollar Baby parla del sogno americano: del sogno di riuscire a farcela, di realizzare i propri obiettivi, costi quel che costi. Al centro di tutto ci sono le scelte dei personaggi, che sono padroni del proprio destino. Prendiamo il rapporto tra Maggie e Frankie, che ben riassume questo concetto. Entrambi vengono da un passato familiare complesso (il legame di sangue, per definizione, non è scelto), e quindi scelgono di creare nuove relazioni. Un po’ come quello che succede in Gran Torino, altro film in cui la famiglia e la creazione di nuovi rapporti sono al centro del racconto.
Chiude infine il trittico di storie americane Sully, che narra le vicende del Miracolo sull’Hudson. Nel 2009 il capitano Chesley “Sully” Sullenberger compie un atterraggio di emergenza dopo un impatto con uno stormo di uccelli, salvando tutti e centocinquantacinque i passaggeri a bordo del volo US Airways 1549. Nonostante il mondo lo celebri come un eroe, una commissione d’indagine federale mette in dubbio la decisione dell’ammaraggio, credendo che sarebbe potuto tornare in aeroporto. Tramite un’alternanza di flashback, sogni ricorrenti di Sully e i vari procedimenti investigativi, l'opera riflette sulle pressioni psicologiche di un uomo che ha agito secondo la propria coscienza. I temi principali sono dunque i soliti: la decostruzione del mito, con un Sully che si mostra fragile e determinato (in sostanza, umano); l’eroismo quotidiano e una critica al sistema burocratico americano, che come vedremo sarà protagonista assoluta di Juror #2.
Million Dollar Baby (2004)
Un racconto dell’America
È proprio da Juror #2, ultimo film di Eastwood uscito in sala, che parte l’ultimo filone del racconto della sua filmografia: quello dell’America. Clint non si limita infatti alle storie vere, ma sfrutta anche vicende completamente inventate per riflettere sulle dicotomie e le contraddizioni della sua Nazione. Juror #2 in particolare, come si evince dal nome, è una critica al sistema giudiziario. Nei panni di Justin (il cui nome, tramite assonanza, richiama justice), il regista esplora le falle della giustizia a stelle e strisce, seguendo il processo per la morte, in circostanze misteriose, di una ragazza. Il principale indiziato delle forze dell’ordine è il ragazzo, che però si dichiara innocente. E lo spettatore sa che è la verità. Sì perché l’opera non è un dramma giudiziario. Il suo scopo non è la ricerca della verità, che è chiara fin da subito.
A differenza per esempio di Mystic River, qui la verità viene scoperta subito, a inizio film - invero non c’è nessun momento in cui questa viene esplicitata, ma è sempre allusa e implicita tra i personaggi (è presente uno scarto rispetto al modello classico del genere). Attraverso il dilemma morale del protagonista, Eastwood mostra le falle del sistema, che finisce per arrestare un innocente nonostante manchino le prove a carico dell’imputato. L’avvocato dell’accusa Faith Killebrew infatti è anche in corsa per diventare procuratrice distrettuale, e per ottenere la carica le serve necessariamente una vittoria. Per farlo è disposta anche a sorvolare sull’assenza di prove schiaccianti e a ignorare i crescenti sospetti verso Justin, che da giurato è sempre più in difficoltà nella gestione del processo, non sapendo come salvare James e sé stesso.
Il tema della salvezza è centrale anche in altre due pellicole: Mystic River e Gran Torino. Il primo racconta tre dei mille volti dell’America, che si rispecchiano nei tre protagonisti: l’America violenta e criminale di Jimmy, l’America traumatizzata di Dave e l’America solida di Sean. A contrapporsi sono soprattutto le visioni di Jimmy e Sean, amici per la vita destinati a diventare avversarsi nella ricerca della verità per la morte di Katie. L’America di Jimmy è quella fondativa (del racconto e del Paese), che nasce dall’uccisione di un corpo non violato. Quella di Sean è quella del futuro, quella che ha saputo resistere. Sono i due volti principali dell’America, luce e ombra, libertà e consapevolezza. Ciò che più caratterizza gli U.S.A. di Mystic River però è l’assenza di redenzione. Non c’è possibilità di emendazione, di espiazione dei propri peccati. La colpa non è individuale, strettamente legata al singolo soggetto, ma è collettiva. La colpa è della società, che risulta statica, immodificabile.
Eastwood e Nicholas Hoult sul set di Juror #2 (2024)
Esattamente il contrario di quanto si vede in Mystic River è l’America di Gran Torino. Qui la colpa è individuale, soggettiva, e per questo è emendabile. A differenza di Mystic River, dove tutto è implicito, qui il personaggio è esplicitamente duro, si fa carico del proprio dolore e delle proprie responsabilità. È proprio per questo che alla fine Walt può trovare la redenzione, anche se nella morte. Con il suo sacrificio può salvare la famiglia di Thao e garantirgli un futuro. L’America di Gran Torino, così come quella di Million Dollar Baby, è l’America della scelta, dei legami adottivi. Eastwood costruisce un’America che non solo può rinascere, si può redimere, ma si può costruire ben oltre i legami di sangue, con dei rapporti adottivi. Gli Stati Uniti di fatto sono una grande famiglia adottiva, capace di adottare e farsi adottare. Per farlo, tuttavia, è necessario creare prima di tutto un vuoto: «è necessario che alla legge di natura si sostituisca la legge dell’uomo, che non ci siano più padri naturali [come quelli di Mystic River, che arrivano a uccidere per i propri figli], ma padri adottivi. È necessario quindi che un vuoto si crei perché esso possa non essere lasciato vuoto […]. È in questo spazio che troverà dimora una comunità nuova, capace di assumere su di sé la responsabilità di ripensare peso e forma di ciò che sono il passato, la tradizione, l’eredità» (Clint Eastwood, Adozione, Alessandro Canadé, Alessia Cervini, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2012).
La scelta garantisce ai personaggi l’opportunità di costruire relazioni etiche e politiche, in quanto non si basano sulla naturalità del rapporto tra i soggetti coinvolti. E se in Million Dollar Baby questo si traduce in un rapporto tra due individui, in Gran Torino l’adozione riguarda un’intera comunità. Come si afferma nel volume curato da Alessandro Canadé e Alessia Cervini, «Walt non adotta, infatti, soltanto il giovane Thao, ma con lui tutta la sua famiglia e la comunità in cui essa viene a inserirsi. Il sacrificio di Walt, in questo modo, non salva soltanto la vita di Thao, ma restituisce a un’intera comunità la facoltà di uscire dalla spirale di violenza cieca e vendicativa in cui era finita, per ripensarsi e concedere a sé stessa la possibilità del futuro. È a partire da qui che il cinema di Eastwood fa sempre più propria una poetica dell’adozione che diventa la base per la costruzione di ogni comunità politica e che convoca il cinema e le sue forme come propri testimoni».
Sean Pen nel ruolo del tormentato di Jimmy Markum (per cui si aggiudicò l'Oscar come Miglior Attore protagonista) in Mystic River (2003)
L’America di Eastwood non è però solo quella violenta di Mystic River e Gran Torino. Il regista ha raccontato anche un’America silenziosa, rurale, immersa in una quotidianità alienante. La realtà propria di The Bridges of Madison County. I suoi protagonisti sono Francesca, una casalinga dell’Iowa, e Robert Kincaid, un fotografo di National Geographic che arriva a Madison County per fotografarne i ponti coperti. I due si incontrano per caso, e da lì iniziano una breve quanto intensa storia d’amore. Dopo quattro giorni dal loro primo incontro, infatti, rientreranno il marito e i figli di lei, con Francesca che deve dunque scegliere se rimanere con Richard o scappare con Robert. Quella di Madison County è la vera America di provincia. Un’America contadina, conservatrice. Un’America fatta di strade sterrate, case isolate, ponti di legno e giornate scandite dai pettegolezzi al bar e dal lavoro nei campi. Un luogo dove le persone conducono vite semplici, in apparenza tranquille, ma che interiormente sono segnate da silenzi e rinunce. È l’America del Midwest: morale, devota, spesso immobile. Un’America che si contrappone a quella errante e contemplativa di Robert, che con la sua macchina fotografica e il suo spirito indipendente incarna un’altra idea di esistenza: più libera, poetica e aperta al mondo. La sua sola presenza mette in crisi l’ordine domestico e risveglia un bisogno di autenticità che Francesca aveva represso.
Quella di The Bridges of Madison County, in definitiva, è un’America vera, quotidiana, lontana dal mito urbano ed eroico. È un paesaggio interiore, prima ancora che geografico, in cui si combatte silenziosamente tra ciò che si desidera e ciò che si è obbligati a essere. Quella di Clint Eastwood, in generale, è un’America complessa e sfaccettata, di cui il regista ne racconta alcuni spaccati nelle sue opere, sfruttando più o meno marcatamente il tessuto sociale e storico del Paese per raccontare storie vere, concrete, umane. Nei suoi film non è interessato alla glorificazione degli Stati Uniti e dei suoi “eroi”, né alla mitizzazione della sua storia e del suo passato violento e sanguinario. Piuttosto vuole decostruirne i miti, depotenziando le narrazioni dominanti e mostrando una realtà ben più strutturata e articolata. Una realtà quotidiana, vera, fatta di azioni semplici come prendersi cura della propria Gran Torino o bersi una limonata con un uomo conosciuto da poco. Nella sua riflessione critica, però, Eastwood non vuole giudicare. Non gli interessa. Vuole solo mostrare la profondità dei mille volti degli Stai Uniti, facendo a sua volta riflettere lo spettatore sulla loro Storia, società e cultura.
Meryl Streep, struggente protagonista di The Bridges of Madison County (I ponti di Madison County, 1995)