Il cinema contemporaneo
e la rappresentazione della sofferenza,
di Beatrice Gangi
TR-104
29.06.2024
Anche i bambini muoiono. A volte è un incidente, a volte vengono assassinati. Addirittura, c’è chi li considera vittime particolarmente soddisfacenti. Per una persona sadica, innocenza e vulnerabilità possono essere tratti golosi. Lo sapevi? E sapevi che non sempre i figli sono voluti, non sempre sono amati dalle proprie famiglie? E, parlando di amore, sapevi che la sua forma più intensa è quella non ricambiata? Perché l’amore non è mai equo. È uno sbilanciamento che prevede, nella coppia, una parte disposta a dare e una deputata a prendere. Transazioni che, chi è troppo buono, troppo altruista, semplicemente non sa negoziare bene. Sapevi, che la gentilezza non è che una tacita richiesta di abuso? Che, a conti fatti, la presenza dell’uomo sulla Terra è una mancanza di senso da correggere? Perché “la vita sulla Terra è cattiva, non è qualcosa per cui dispiacersi. Se scomparisse, nessuno ne sentirebbe la mancanza”.
Dati di fatto evidenti, ricorrenti e irreparabili nella filmografia di uno degli autori più influenti - e controversi - del cinema contemporaneo. Lars von Trier, padre di un modo di fare cinema eccezionalmente dolente. Autore e artefice di una scia di tragedie moderne che spaziano da pellicole “buone”, a “ottime”, a “potenziali capolavori”, e di un percorso artistico che si snoda per i maggiori festival internazionali, si serve dei più grandi interpreti, tecnici, e musicisti dell’industria di oggi, e si congeda nelle più prestigiose onorificenze. Di origine danese, tra i fondatori del movimento Dogma 95, von Trier è portatore di un credo per cui la sofferenza è arte, e l’arte è sofferenza. Un modo di fare cinema in cui “gli artisti devono soffrire, perché il risultato è migliore”, così come devono soffrire i loro spettatori e, soprattutto, i loro soggetti.
Ne sono esempio Bess, protagonista di Breaking the Waves (Le onde del destino, 1996), una ragazza profondamente religiosa e di estrema bontà, talmente innocente da lasciarsi stuprare fino alla morte in un tentativo di martirio compiuto in nome dell’amore, Justine, che in Melancholia (2011) non è mai stata così infelice come nel giorno del proprio matrimonio, ma che giudica incantevole il lento incedere di un pianeta minacciosamente prossimo alla collisione con la Terra, o la giovane madre di The House That Jack Built (La Casa di Jack, 2018), invitata a imboccare in un pic-nic i cadaveri dei propri figli, uccisi in una perversa battuta di caccia. Una narrazione coerente, quella di von Trier, che dell’essere umano ama solo ciò che è storto, contraddittorio, insensato, e squallido. Dove, dentro e fuori dallo schermo, “l’Inferno è la vita” e il cinema è l’unica arte in grado di catturarne il sordido fascino.
Pur non essendo il primo artista ad aver legato il tragico al sublime, Lars von Trier è il regista che, forse più di ogni altro, ha saputo catturare la sofferenza umana e servirla tanto alla critica quanto alle masse. Una coniugazione del valore artistico del conflitto, della tragedia, e del suo fascino condiviso, della consapevolezza di come l’essere umano sia attratto dal dolore in modo innato, specialmente quando non ne è il protagonista. Sono infatti rare o forse assenti le opere d’arte prive di conflitto. Allo stesso tempo, il cinema è un’industria, i film sono prodotti, i prodotti devono vendere, e se ogni storia è figlia del tempo in cui viene messa in scena, il cinema contemporaneo è legato a doppio filo ad un mercato che, tra ciò che è artistico e ciò che è attrattivo, tende a prediligere il secondo.
A fine anno 2022, è stato distribuito nelle sale The Whale, regia di Darren Aronofsky e adattamento dell’omonima opera teatrale di Samuel D.Hunter. Nelle parole del regista, The Whale vuole essere un film sull’empatia, sulla connessione interpersonale, sulla lotta alla dipendenza e sullo spirito umano. Il protagonista, Charlie, è un insegnante di letteratura obeso auto-relegatosi nel proprio appartamento. L’ultima settimana di una vita al termine, il film di Aronofsky si apre il lunedì mattina e si chiude il venerdì sera, la gran parte degli spettatori è in lacrime già nelle prime ore del martedì. Si scopre come Charlie abbia perso il proprio compagno, l’amore della sua vita, privatosene perchè omosessuale. Come, per amore, Charlie avesse abbandonato la moglie e, soprattutto, l’adorata figlia. E come ora, rimasto solo, il suo ossessivo consumo di cibo sia solo il veicolo di un lento suicidio.
The Whale è un rompicapo di disgrazie. La trama, i dialoghi, la messa in scena, sono ottimizzati perché lo spettatore provi pena e perché il protagonista soffra. Charlie è continuamente insultato, ridicolizzato, allontanato, umiliato, e rifiutato. Dalla figlia, dall’ex moglie, dai suoi studenti, dal fattorino della pizza. Pensando di meritarselo, respinge solo chi, come l’infermiera Liz, appare troppo comprensivo della sua condizione. Quando mangia, l’occhio del regista indugia su di lui come quello di un documentarista mentre osserva un animale allo stato brado. La macchina da presa lo segue ingozzarsi, guaire, ne osserva il corpo, i rotoli di grasso, le vesciche e il sudore. Lo osserva nel suo non riuscire a passare dalle porte, alzarsi, camminare o piegarsi. Un uomo balena, Charlie è un Moby Dick a cui viene data la caccia, in una parata feticista e voyeuristica che, in un film sull’empatia, forse non risulta così coerente.
Perché è necessario che ogni aspetto della sua vita, per quanto ininfluente alla narrazione, sia permeato dalla tragedia? Chi è Charlie, come uomo, oltre a un catalizzatore di disgrazia? Se il motore di The Whale è il suo tentativo di nascondersi, del suo sentirsi mortificato e giudicato, perché viene braccato e spogliato così violentemente? È così che si mostra l’empatia? È così che si racconta lo spirito umano? E se il film di Aronofsky vuole davvero promuovere la compassione, perché si accanisce sul suo protagonista in questo modo? Che cosa sta offrendo allo spettatore, un crudo ma meditato racconto di una storia pietosa o il morboso posto d’onore in un dramma privato?
Forse, The Whale è solo uno dei tanti esempi di un modo di fare cinema contemporaneo amante del servire drammi d’eccezione prefiggendosi di compatirli. Un tollerante ambasciatore di valori benevoli, ma che strumentalizza la tendenza umana di essere attratti da ciò che è crudele e gratuito. Un cinema conscio di come la sofferenza possa essere resa appetibile, considerata superficialmente arte, solo in virtù di una sua esasperazione. Consapevole della tragedia come di un porto sicuro dell’interesse condiviso. Un cinema in cui il dolore è spettacolo, è manipolatorio, è sterile, è adescatorio ed ipocrita.
La morale del cinema triste
Per quale motivo si porta il dolore sullo schermo? Cosa significa proiettarlo al cinema e proporlo a un pubblico? Effettivamente, il dramma e la sofferenza sono, almeno a livello potenziale, strumenti di empatia. E la loro rappresentazione può assumere il proprio senso in un luogo di connessione, di condivisione, di ricerca. Chi ha sofferto un rapporto di non detti con un genitore potrà facilmente rivedersi in Aftersun (2022), magari esserne rattristato, o magari provare una sorta di catarsi. Una donna che ha perso un figlio vedrà in Pieces of a Woman (2020) un personaggio che, reduce della stessa esperienza, è riuscito ad andare avanti. Chi, dopo un lutto, se ne sente perseguitato, non potrà non empatizzare con il giovane protagonista di The Iron Claw (2023), che lo è realmente. Al contempo, lo spettatore invitato a condividere un proprio dolore, o una propria paura, con il film e con i suoi personaggi, difficilmente potrà valutarlo con un’oggettività critica. Di fatto, ciò che è più ambiguo nella rappresentazione del dolore nei media è la sottile distinzione tra la volontà di stimolare una reazione empatica e quella di estorcere una reazione forte. Una differenza complessa e forse impossibile da discernere.
Riprendendo l’esempio di The Whale, a rendere il film particolarmente subdolo, è la sua “distribuzione”. Immaginando l’esperienza umana come qualcosa in cui gioia e dolore sono, non bilanciati, ma equipresenti, The Whale è caratterizzato dalla totale assenza di momenti neutri o positivi. Di simile fattura, è il cinema di Florian Zeller, acclamato regista di The Father (2020) e The Son (2022). Due tragedie familiari: il primo è la storia di Anne, una donna alle prese con un padre malato di Alzheimer, e la seconda di Peter, un uomo il cui figlio soffre una profonda depressione adolescenziale. Nonostante il già gravoso motore delle storie, Zeller si assicura, in entrambi casi, di portare sullo schermo quanto di più accentuato possibile. Entrambi i protagonisti sono oberati da una contemporanea crisi con il proprio partner, e di entrambi è sottolineato il passato tragico, la morte della giovane sorella per Anne, gli abusi paterni per Peter. Gli è, in ambo i casi, attribuibile solo la colpa di aver arrecato un ulteriore sofferenza alle persone a cui volevano bene. Di essere “causa” della loro disfatta. Le storie di Zeller sono, in linea di massima, prive di redenzione e di una vera morale, storie di un dolore (forse) forzato e (forse) gratuito.
Un anno dopo The Son, Andrew Haigh porta sullo schermo All of Us Strangers (Estranei, 2023), adattamento del romanzo omonimo di Taichi Yamada. Adam è uno sceneggiatore solitario rimasto orfano a dodici anni. Una volta adulto, decide di ritornare nella casa natale, dove trova i fantasmi dei suoi genitori ad attenderlo. Questo viaggio di elaborazione del lutto termina con il protagonista costretto a osservare i genitori morire una seconda volta, rievocando con loro l’incidente in cui avevano perso la vita. Alla storia principale si intreccia la relazione con Harry, un ragazzo più giovane con cui condivide lo stesso sentimento di estraniamento verso il mondo esterno. Il colpo di scena finale rivela come anche Harry sia un fantasma, suicidatosi in seguito a un precedente rifiuto del protagonista. Adam, come il Peter di The Son, è quindi responsabilizzato della morte della persona amata.
Nonostante l’ottima fattura del toccante film di Haigh, è d’interesse il paragone con il romanzo di Yamada da cui è tratto. Pur mantenendo invariata la trama di base, delle importanti differenze tra film e libro appaiono allo scopo di aumentare il livello di trauma a cui è sottoposto il protagonista. Hideo, protagonista del libro e controparte giapponese di Adam, non ne condivide il completo isolamento e le difficoltà lavorative, non è stato vittima di discriminazione poichè omosessuale, e non è costretto a subire una grafica rievocazione della morte dei genitori. Soprattutto, pur venendo esplicitamente incolpato della morte del suo interesse romantico, Kei, è sottolineato dall’autore come imputare a uno sconosciuto un suicidio altrui sia “folle”. Inoltre, sempre al contrario di Adam, il viaggio di Hideo lo porterà a superare il lutto anziché diventarne schiavo. Per quanto All of Us Strangers sia stato fortemente apprezzato da pubblico e critica, è difficile non leggerci una voluta esasperazione del morboso, anche in virtù di cambiamenti così specifici in un adattamento per il resto fedele.
Negli stessi anni di queste pellicole, più precisamente nel maggio 2021, viene inserito sull’Urban Dictionary (il dizionario online dedicato a slang e neologismi in lingua inglese) il termine “trauma porn”, appunto la “glorificazione di un trauma da parte di un autore, che ne esagera gli aspetti così da generare un sentimento di angoscia nello spettatore”, in risposta alla fascinazione del pubblico verso eventi traumatici vissuti da altre persone. Un’attrazione indirizzata non solamente verso le opere di finzione, ma anche verso fatti mediatici e reali, condivisi, prevalentemente sui social, come beni di consumo moderni. La discussione sulla pornografia del dolore indaga sulle intenzioni di un’opera, sulla differenza tra compatire e manipolare, e sul suo vizio primario, ovvero mancare di rispetto al suo stesso trauma.
Traumi e altre tendenze
In una società basata sul contenuto immediato, il dolore è diventato una tendenza. Qualitativamente e quantitativamente. Ampiamente disponibile e senza più bisogno di mediatori. Tragedie politiche, tragedie sociali, tragedie private, alla portata, nei dettagli, sullo schermo di tutti. Osservabili, condivisibili e confrontabili. Un portafoglio di sofferenze eterogeneo e inesauribile in cui, un’offerta ormai eccessiva, implica la presenza di contenuti più interessanti di altri. In cui “più interessante” può indicare un dramma “particolarmente esplicito”, come “particolarmente drammatico”, come “particolarmente estetico”. Nei giornali così come nei cinema, la sublimazione e la ricerca di un modo di soffrire più estremo, più spregevole, più soddisfacente. Di un dolore pornografico.
Il rischio del consumo di dolore come di uno stimolante è quello di farne diventare i portatori dei pornodivi del nuovo millennio. Tra i film più popolari del 2023 si può facilmente classificare Saltburn, commedia nera satirica diretta da Emerald Fennell. Un film dall’intento commerciale e allo stesso tempo provocatorio, che trova il suo reale interesse nel parallelismo con il suo - non dichiarato - riferimento narrativo a The Talented Mr. Ripley (Il Talento di Mr. Ripley). Film del 1999 diretto da Anthony Minghella, The Talented Mr. Ripley è, analogamente a Saltburn, la storia di un corteggiamento, non tanto verso una persona ma nei confronti di un’intera classe sociale.
I rispettivi protagonisti, Tom nel 1999 e Oliver nel 2023, si fingono ciò che è più seducente agli occhi dell’oggetto del loro desiderio: i giovani rampolli Dickie e Felix. Eppure, dove Tom decide di vendersi come un ragazzo di eccezionale talento, Oliver pretende di essere un ragazzo eccezionalmente tragico. È stato (fortuitamente) ammesso a Oxford, ma il suo retaggio è così umile da impedirgli di integrarsi con gli altri (privilegiati) studenti. I suoi genitori sono tossicodipendenti, sua madre è malata di mente, suo padre è un criminale moribondo. Una tragedia di cui Felix sarà felice di farsi patrono. Oliver viene infatti accolto nella tenuta della sua famiglia e invitato a farne, per un’estate, da ospite e animatore, un animale da circo corriere di una storia triste e mendicante di carità.
Si scopre come la vera tragedia di Oliver sia l’essere nella media. I suoi genitori sono in salute, sono affettuosi, ma sono borghesi. Non potendo e non sapendo fingersi un ragazzo di particolare arguzia o talento, l’unico modo che Oliver ha di avvicinarsi all’élite è di stuzzicarne l’ego. Lusingare il senso di superiorità di chi si trova non solo nella posizione di poter compatire, ma di trasformarsi, senza sforzo, in un filantropo. Perché un tratto fondamentale alla base del consumo del dolore, è il sollievo di starne più in alto. Quando ciò non è fattibile bisogna appropriarsene, renderlo (e rendersi) conturbante. Ciò che Oliver comprende è che, per ravvivare il proprio ego, l’eroe necessita di una vittima. E una vittima è tanto eccezionale quanto il suo benefattore, da un lato, o vessatore, dall’altro.
Non a caso, dal 2020 è tornata in tendenza la Sad Girl, l’estetica della ragazza in lacrime. Nata su Tumblr intorno al 2015, quella della ragazza triste è un'angoscia generalizzata propria delle generazioni più giovani, principalmente Millennials e Gen Z. Influenzata dalla musica di Lana del Rey e dai romanzi di Sally Rooney, appare sullo schermo nelle vesti di personaggi come la Julie di Verdens verste menneske (La persona peggiore del mondo, 2021), una giovane donna confusa, inquieta, mai realmente appagata o soddisfatta. Bella, bianca, cisgender e abbastanza tormentata da essere interessante ma non abbastanza da essere ripugnante (Rebecca Liu, The Making Of A Millennial Woman), quello della donna del nuovo millennio è un archetipo che, dalla catartica riappropriazione dell’emozionalità femminile (qui espresso in modo riduttivo, dal diritto di essere “triste”), è degenerato in una romanticizzazione dei comportamenti autodistruttivi e del malessere mentale.
Il nuovo sinonimo di bellezza e sofferenza ha iniziato a esprimersi nella forma di trend social, come il crying girl make-up, virale su Tik Tok alla fine del 2022, rossetto sfumato, palpebre arrossate, lacrime finte, o nei poetici tributi all’autunno come stagione più malinconica del 2023, rinominati Sad Girl Autumn.
Patire è diventato, oltre che un’estetica, il tratto di una personalità accattivante, forse in virtù di essere qualcosa con cui è così facile associarsi. Tra 2021 e 2023 sono approdate al cinema tre pellicole biografiche di icone femminili senza tempo, Spencer (2021) per Lady Diana, Blonde (2022) per Marilyn Monroe e Priscilla (2023), per Priscilla Presley. Pur trattandosi di tre film dal livello di sensibilità eterogeneo ne sono protagonisti, più delle loro eroine, depressione, aborto, violenza sessuale e abuso domestico. Storie in cui per la compassione di Diana, lo spirito di Marilyn, e il fascino di Priscilla, non è rimasto spazio. Personalità complesse, retrocesse alle loro tragedie, donne che nell’essere celebrate sono state ridotte ad essere solo ciò di cui hanno sofferto: una donna tradita, un’attrice oltraggiata, una serva. Tre belle ragazze tristi.
Fotografie di guerra da premio Pulitzer
Parlare di arte significa parlare di estetica, e un’immagine non vale l’altra quando si tratta di documentare una disgrazia. Una buona inquadratura, una buona luce rendono meglio, così com’è importante una composizione bilanciata. Il passo finale nel portare la violenza sugli schermi, che sia bella da vedere. La foto migliore in tempi di guerra, è, in alta definizione e non troppo satura, il volto di una persona nel momento in cui muore. Ne è consapevole Lee, che nel corso di una moderna guerra civile americana, è pronta a rischiare la vita pur di immortalare il presidente nel momento della sua esecuzione, una fotografia, viene sottolineato, degna del Pulitzer.
Civil War, film di Alex Garland distribuito nel 2024, è una delle più pungenti esposizioni dell’ipocrisia dei media moderni. Reporter che, in nome della causa di documentare gli orrori di una guerra, ne diventano anestetizzati. L’evidenza è Jessie, giovanissima ragazza, dapprima colta dal panico nel corso di un bombardamento suicida e in seguito osservata nel fotografare, con noncuranza, la morte della propria mentore. Il percorso di una persona dapprima sensibile che, dal voler condannare la crudeltà dello scontro, ne diventa complice.
Seppur una distopia, il film di Garland è spaventosamente vicino a realtà che purtroppo conosciamo bene. Immortalate tutti i giorni, ma non sul suolo americano. Perché nel 2024 il rapporto dei media con temi come la guerra è, in realtà, pericolosamente vicino allo sciacallaggio. Un terreno fertile per tragedie reali da trasformare in arte, al peggio in intrattenimento. Vittime che diventano numeri, classificate per età, per genere, per etnia, così da stabilirne il valore. Social inondati da immagini, le più crudeli, “di qualità”, in tendenza. Sono una libertà fondamentale e un privilegio quelli della stampa nelle condizioni di documentare una guerra, mezzi di consapevolezza. Almeno finché non smettono di esserlo, nel momento in cui un (solo) corpo non è più tanto male, non dopo i reportage di bambini smembrati e fosforo bianco.
Purtroppo, ciò che Garland ha colto in Civil War è vero, ovvero come sia essenziale documentare, ma sia inumana la caccia al materiale migliore. Come l’esposizione sensazionalistica al drammatico, ormai ampiamente diffusa da stampa a televisione, non renda più sensibili, ma invogli a consumarne di più. Delimitando, in questo modo, il dolore di serie A, fuori norma, per cui sconvolgersi, da quello di serie B, quotidiano, non così grave. Ed è preoccupante in quanto, paradossalmente, la sovraesposizione al trauma sia uno strumento di assuefazione. Lo spettatore esposto ad accadimenti dolorosi e ingiusti non potrà che diventarne dipendente a livello inconscio, in un circolo vizioso in cui reazioni emotive forti spingono al consumo compulsivo di questo tipo di narrazioni. Ma, più di tutto, la mercificazione del dolore connota il rischio di iniziare ad attribuirne, come con qualsiasi altro prodotto, un merito inflazionato sulla base delle sue “specifiche”.
C’è valore nelle emozioni negative e portare sullo schermo la sofferenza è e rimane essenziale. È essenziale dare voce a chi ne è vittima quanto educarne verso le cause, ma, se il cinema è davvero in grado di formare le menti, rappresentarlo con cognizione dovrebbe essere una responsabilità dei suoi fattori, apparentemente così indifferenti a quanto sia più facile desensibilizzare rispetto al suo opposto. Dove è più rilevante la brutalità di ciò che sta venendo inquadrato rispetto al motivo per cui ciò che ci sta venendo mostrato è brutale, l’autore dovrebbe forse riconoscerlo per ciò che è, una scelta conscia e motivata, non un’inevitabile causalità.
Se un regista come Lars von Trier ha accettato di diventare controverso nel dichiarare di vedere nel dolore qualcosa di estremamente affascinante, autori come Aronofsky e Zeller dovrebbero dichiarare che non esiste l’empatia senza l’abuso, che una donna è più bella quando il suo volto è triste, che una storia di dannazione è più valida di una di rinascita, che non tutte le morti valgono allo stesso modo e che un’esistenza triste è migliore di un’esistenza banale, perché è questo quello che ci stanno mostrando.
Il cinema contemporaneo
e la rappresentazione della sofferenza,
di Beatrice Gangi
TR-104
29.06.2024
Anche i bambini muoiono. A volte è un incidente, a volte vengono assassinati. Addirittura, c’è chi li considera vittime particolarmente soddisfacenti. Per una persona sadica, innocenza e vulnerabilità possono essere tratti golosi. Lo sapevi? E sapevi che non sempre i figli sono voluti, non sempre sono amati dalle proprie famiglie? E, parlando di amore, sapevi che la sua forma più intensa è quella non ricambiata? Perché l’amore non è mai equo. È uno sbilanciamento che prevede, nella coppia, una parte disposta a dare e una deputata a prendere. Transazioni che, chi è troppo buono, troppo altruista, semplicemente non sa negoziare bene. Sapevi, che la gentilezza non è che una tacita richiesta di abuso? Che, a conti fatti, la presenza dell’uomo sulla Terra è una mancanza di senso da correggere? Perché “la vita sulla Terra è cattiva, non è qualcosa per cui dispiacersi. Se scomparisse, nessuno ne sentirebbe la mancanza”.
Dati di fatto evidenti, ricorrenti e irreparabili nella filmografia di uno degli autori più influenti - e controversi - del cinema contemporaneo. Lars von Trier, padre di un modo di fare cinema eccezionalmente dolente. Autore e artefice di una scia di tragedie moderne che spaziano da pellicole “buone”, a “ottime”, a “potenziali capolavori”, e di un percorso artistico che si snoda per i maggiori festival internazionali, si serve dei più grandi interpreti, tecnici, e musicisti dell’industria di oggi, e si congeda nelle più prestigiose onorificenze. Di origine danese, tra i fondatori del movimento Dogma 95, von Trier è portatore di un credo per cui la sofferenza è arte, e l’arte è sofferenza. Un modo di fare cinema in cui “gli artisti devono soffrire, perché il risultato è migliore”, così come devono soffrire i loro spettatori e, soprattutto, i loro soggetti.
Ne sono esempio Bess, protagonista di Breaking the Waves (Le onde del destino, 1996), una ragazza profondamente religiosa e di estrema bontà, talmente innocente da lasciarsi stuprare fino alla morte in un tentativo di martirio compiuto in nome dell’amore, Justine, che in Melancholia (2011) non è mai stata così infelice come nel giorno del proprio matrimonio, ma che giudica incantevole il lento incedere di un pianeta minacciosamente prossimo alla collisione con la Terra, o la giovane madre di The House That Jack Built (La Casa di Jack, 2018), invitata a imboccare in un pic-nic i cadaveri dei propri figli, uccisi in una perversa battuta di caccia. Una narrazione coerente, quella di von Trier, che dell’essere umano ama solo ciò che è storto, contraddittorio, insensato, e squallido. Dove, dentro e fuori dallo schermo, “l’Inferno è la vita” e il cinema è l’unica arte in grado di catturarne il sordido fascino.
Pur non essendo il primo artista ad aver legato il tragico al sublime, Lars von Trier è il regista che, forse più di ogni altro, ha saputo catturare la sofferenza umana e servirla tanto alla critica quanto alle masse. Una coniugazione del valore artistico del conflitto, della tragedia, e del suo fascino condiviso, della consapevolezza di come l’essere umano sia attratto dal dolore in modo innato, specialmente quando non ne è il protagonista. Sono infatti rare o forse assenti le opere d’arte prive di conflitto. Allo stesso tempo, il cinema è un’industria, i film sono prodotti, i prodotti devono vendere, e se ogni storia è figlia del tempo in cui viene messa in scena, il cinema contemporaneo è legato a doppio filo ad un mercato che, tra ciò che è artistico e ciò che è attrattivo, tende a prediligere il secondo.
A fine anno 2022, è stato distribuito nelle sale The Whale, regia di Darren Aronofsky e adattamento dell’omonima opera teatrale di Samuel D.Hunter. Nelle parole del regista, The Whale vuole essere un film sull’empatia, sulla connessione interpersonale, sulla lotta alla dipendenza e sullo spirito umano. Il protagonista, Charlie, è un insegnante di letteratura obeso auto-relegatosi nel proprio appartamento. L’ultima settimana di una vita al termine, il film di Aronofsky si apre il lunedì mattina e si chiude il venerdì sera, la gran parte degli spettatori è in lacrime già nelle prime ore del martedì. Si scopre come Charlie abbia perso il proprio compagno, l’amore della sua vita, privatosene perchè omosessuale. Come, per amore, Charlie avesse abbandonato la moglie e, soprattutto, l’adorata figlia. E come ora, rimasto solo, il suo ossessivo consumo di cibo sia solo il veicolo di un lento suicidio.
The Whale è un rompicapo di disgrazie. La trama, i dialoghi, la messa in scena, sono ottimizzati perché lo spettatore provi pena e perché il protagonista soffra. Charlie è continuamente insultato, ridicolizzato, allontanato, umiliato, e rifiutato. Dalla figlia, dall’ex moglie, dai suoi studenti, dal fattorino della pizza. Pensando di meritarselo, respinge solo chi, come l’infermiera Liz, appare troppo comprensivo della sua condizione. Quando mangia, l’occhio del regista indugia su di lui come quello di un documentarista mentre osserva un animale allo stato brado. La macchina da presa lo segue ingozzarsi, guaire, ne osserva il corpo, i rotoli di grasso, le vesciche e il sudore. Lo osserva nel suo non riuscire a passare dalle porte, alzarsi, camminare o piegarsi. Un uomo balena, Charlie è un Moby Dick a cui viene data la caccia, in una parata feticista e voyeuristica che, in un film sull’empatia, forse non risulta così coerente.
Perché è necessario che ogni aspetto della sua vita, per quanto ininfluente alla narrazione, sia permeato dalla tragedia? Chi è Charlie, come uomo, oltre a un catalizzatore di disgrazia? Se il motore di The Whale è il suo tentativo di nascondersi, del suo sentirsi mortificato e giudicato, perché viene braccato e spogliato così violentemente? È così che si mostra l’empatia? È così che si racconta lo spirito umano? E se il film di Aronofsky vuole davvero promuovere la compassione, perché si accanisce sul suo protagonista in questo modo? Che cosa sta offrendo allo spettatore, un crudo ma meditato racconto di una storia pietosa o il morboso posto d’onore in un dramma privato?
Forse, The Whale è solo uno dei tanti esempi di un modo di fare cinema contemporaneo amante del servire drammi d’eccezione prefiggendosi di compatirli. Un tollerante ambasciatore di valori benevoli, ma che strumentalizza la tendenza umana di essere attratti da ciò che è crudele e gratuito. Un cinema conscio di come la sofferenza possa essere resa appetibile, considerata superficialmente arte, solo in virtù di una sua esasperazione. Consapevole della tragedia come di un porto sicuro dell’interesse condiviso. Un cinema in cui il dolore è spettacolo, è manipolatorio, è sterile, è adescatorio ed ipocrita.
La morale del cinema triste
Per quale motivo si porta il dolore sullo schermo? Cosa significa proiettarlo al cinema e proporlo a un pubblico? Effettivamente, il dramma e la sofferenza sono, almeno a livello potenziale, strumenti di empatia. E la loro rappresentazione può assumere il proprio senso in un luogo di connessione, di condivisione, di ricerca. Chi ha sofferto un rapporto di non detti con un genitore potrà facilmente rivedersi in Aftersun (2022), magari esserne rattristato, o magari provare una sorta di catarsi. Una donna che ha perso un figlio vedrà in Pieces of a Woman (2020) un personaggio che, reduce della stessa esperienza, è riuscito ad andare avanti. Chi, dopo un lutto, se ne sente perseguitato, non potrà non empatizzare con il giovane protagonista di The Iron Claw (2023), che lo è realmente. Al contempo, lo spettatore invitato a condividere un proprio dolore, o una propria paura, con il film e con i suoi personaggi, difficilmente potrà valutarlo con un’oggettività critica. Di fatto, ciò che è più ambiguo nella rappresentazione del dolore nei media è la sottile distinzione tra la volontà di stimolare una reazione empatica e quella di estorcere una reazione forte. Una differenza complessa e forse impossibile da discernere.
Riprendendo l’esempio di The Whale, a rendere il film particolarmente subdolo, è la sua “distribuzione”. Immaginando l’esperienza umana come qualcosa in cui gioia e dolore sono, non bilanciati, ma equipresenti, The Whale è caratterizzato dalla totale assenza di momenti neutri o positivi. Di simile fattura, è il cinema di Florian Zeller, acclamato regista di The Father (2020) e The Son (2022). Due tragedie familiari: il primo è la storia di Anne, una donna alle prese con un padre malato di Alzheimer, e la seconda di Peter, un uomo il cui figlio soffre una profonda depressione adolescenziale. Nonostante il già gravoso motore delle storie, Zeller si assicura, in entrambi casi, di portare sullo schermo quanto di più accentuato possibile. Entrambi i protagonisti sono oberati da una contemporanea crisi con il proprio partner, e di entrambi è sottolineato il passato tragico, la morte della giovane sorella per Anne, gli abusi paterni per Peter. Gli è, in ambo i casi, attribuibile solo la colpa di aver arrecato un ulteriore sofferenza alle persone a cui volevano bene. Di essere “causa” della loro disfatta. Le storie di Zeller sono, in linea di massima, prive di redenzione e di una vera morale, storie di un dolore (forse) forzato e (forse) gratuito.
Un anno dopo The Son, Andrew Haigh porta sullo schermo All of Us Strangers (Estranei, 2023), adattamento del romanzo omonimo di Taichi Yamada. Adam è uno sceneggiatore solitario rimasto orfano a dodici anni. Una volta adulto, decide di ritornare nella casa natale, dove trova i fantasmi dei suoi genitori ad attenderlo. Questo viaggio di elaborazione del lutto termina con il protagonista costretto a osservare i genitori morire una seconda volta, rievocando con loro l’incidente in cui avevano perso la vita. Alla storia principale si intreccia la relazione con Harry, un ragazzo più giovane con cui condivide lo stesso sentimento di estraniamento verso il mondo esterno. Il colpo di scena finale rivela come anche Harry sia un fantasma, suicidatosi in seguito a un precedente rifiuto del protagonista. Adam, come il Peter di The Son, è quindi responsabilizzato della morte della persona amata.
Nonostante l’ottima fattura del toccante film di Haigh, è d’interesse il paragone con il romanzo di Yamada da cui è tratto. Pur mantenendo invariata la trama di base, delle importanti differenze tra film e libro appaiono allo scopo di aumentare il livello di trauma a cui è sottoposto il protagonista. Hideo, protagonista del libro e controparte giapponese di Adam, non ne condivide il completo isolamento e le difficoltà lavorative, non è stato vittima di discriminazione poichè omosessuale, e non è costretto a subire una grafica rievocazione della morte dei genitori. Soprattutto, pur venendo esplicitamente incolpato della morte del suo interesse romantico, Kei, è sottolineato dall’autore come imputare a uno sconosciuto un suicidio altrui sia “folle”. Inoltre, sempre al contrario di Adam, il viaggio di Hideo lo porterà a superare il lutto anziché diventarne schiavo. Per quanto All of Us Strangers sia stato fortemente apprezzato da pubblico e critica, è difficile non leggerci una voluta esasperazione del morboso, anche in virtù di cambiamenti così specifici in un adattamento per il resto fedele.
Negli stessi anni di queste pellicole, più precisamente nel maggio 2021, viene inserito sull’Urban Dictionary (il dizionario online dedicato a slang e neologismi in lingua inglese) il termine “trauma porn”, appunto la “glorificazione di un trauma da parte di un autore, che ne esagera gli aspetti così da generare un sentimento di angoscia nello spettatore”, in risposta alla fascinazione del pubblico verso eventi traumatici vissuti da altre persone. Un’attrazione indirizzata non solamente verso le opere di finzione, ma anche verso fatti mediatici e reali, condivisi, prevalentemente sui social, come beni di consumo moderni. La discussione sulla pornografia del dolore indaga sulle intenzioni di un’opera, sulla differenza tra compatire e manipolare, e sul suo vizio primario, ovvero mancare di rispetto al suo stesso trauma.
Traumi e altre tendenze
In una società basata sul contenuto immediato, il dolore è diventato una tendenza. Qualitativamente e quantitativamente. Ampiamente disponibile e senza più bisogno di mediatori. Tragedie politiche, tragedie sociali, tragedie private, alla portata, nei dettagli, sullo schermo di tutti. Osservabili, condivisibili e confrontabili. Un portafoglio di sofferenze eterogeneo e inesauribile in cui, un’offerta ormai eccessiva, implica la presenza di contenuti più interessanti di altri. In cui “più interessante” può indicare un dramma “particolarmente esplicito”, come “particolarmente drammatico”, come “particolarmente estetico”. Nei giornali così come nei cinema, la sublimazione e la ricerca di un modo di soffrire più estremo, più spregevole, più soddisfacente. Di un dolore pornografico.
Il rischio del consumo di dolore come di uno stimolante è quello di farne diventare i portatori dei pornodivi del nuovo millennio. Tra i film più popolari del 2023 si può facilmente classificare Saltburn, commedia nera satirica diretta da Emerald Fennell. Un film dall’intento commerciale e allo stesso tempo provocatorio, che trova il suo reale interesse nel parallelismo con il suo - non dichiarato - riferimento narrativo a The Talented Mr. Ripley (Il Talento di Mr. Ripley). Film del 1999 diretto da Anthony Minghella, The Talented Mr. Ripley è, analogamente a Saltburn, la storia di un corteggiamento, non tanto verso una persona ma nei confronti di un’intera classe sociale.
I rispettivi protagonisti, Tom nel 1999 e Oliver nel 2023, si fingono ciò che è più seducente agli occhi dell’oggetto del loro desiderio: i giovani rampolli Dickie e Felix. Eppure, dove Tom decide di vendersi come un ragazzo di eccezionale talento, Oliver pretende di essere un ragazzo eccezionalmente tragico. È stato (fortuitamente) ammesso a Oxford, ma il suo retaggio è così umile da impedirgli di integrarsi con gli altri (privilegiati) studenti. I suoi genitori sono tossicodipendenti, sua madre è malata di mente, suo padre è un criminale moribondo. Una tragedia di cui Felix sarà felice di farsi patrono. Oliver viene infatti accolto nella tenuta della sua famiglia e invitato a farne, per un’estate, da ospite e animatore, un animale da circo corriere di una storia triste e mendicante di carità.
Si scopre come la vera tragedia di Oliver sia l’essere nella media. I suoi genitori sono in salute, sono affettuosi, ma sono borghesi. Non potendo e non sapendo fingersi un ragazzo di particolare arguzia o talento, l’unico modo che Oliver ha di avvicinarsi all’élite è di stuzzicarne l’ego. Lusingare il senso di superiorità di chi si trova non solo nella posizione di poter compatire, ma di trasformarsi, senza sforzo, in un filantropo. Perché un tratto fondamentale alla base del consumo del dolore, è il sollievo di starne più in alto. Quando ciò non è fattibile bisogna appropriarsene, renderlo (e rendersi) conturbante. Ciò che Oliver comprende è che, per ravvivare il proprio ego, l’eroe necessita di una vittima. E una vittima è tanto eccezionale quanto il suo benefattore, da un lato, o vessatore, dall’altro.
Non a caso, dal 2020 è tornata in tendenza la Sad Girl, l’estetica della ragazza in lacrime. Nata su Tumblr intorno al 2015, quella della ragazza triste è un'angoscia generalizzata propria delle generazioni più giovani, principalmente Millennials e Gen Z. Influenzata dalla musica di Lana del Rey e dai romanzi di Sally Rooney, appare sullo schermo nelle vesti di personaggi come la Julie di Verdens verste menneske (La persona peggiore del mondo, 2021), una giovane donna confusa, inquieta, mai realmente appagata o soddisfatta. Bella, bianca, cisgender e abbastanza tormentata da essere interessante ma non abbastanza da essere ripugnante (Rebecca Liu, The Making Of A Millennial Woman), quello della donna del nuovo millennio è un archetipo che, dalla catartica riappropriazione dell’emozionalità femminile (qui espresso in modo riduttivo, dal diritto di essere “triste”), è degenerato in una romanticizzazione dei comportamenti autodistruttivi e del malessere mentale.
Il nuovo sinonimo di bellezza e sofferenza ha iniziato a esprimersi nella forma di trend social, come il crying girl make-up, virale su Tik Tok alla fine del 2022, rossetto sfumato, palpebre arrossate, lacrime finte, o nei poetici tributi all’autunno come stagione più malinconica del 2023, rinominati Sad Girl Autumn.
Patire è diventato, oltre che un’estetica, il tratto di una personalità accattivante, forse in virtù di essere qualcosa con cui è così facile associarsi. Tra 2021 e 2023 sono approdate al cinema tre pellicole biografiche di icone femminili senza tempo, Spencer (2021) per Lady Diana, Blonde (2022) per Marilyn Monroe e Priscilla (2023), per Priscilla Presley. Pur trattandosi di tre film dal livello di sensibilità eterogeneo ne sono protagonisti, più delle loro eroine, depressione, aborto, violenza sessuale e abuso domestico. Storie in cui per la compassione di Diana, lo spirito di Marilyn, e il fascino di Priscilla, non è rimasto spazio. Personalità complesse, retrocesse alle loro tragedie, donne che nell’essere celebrate sono state ridotte ad essere solo ciò di cui hanno sofferto: una donna tradita, un’attrice oltraggiata, una serva. Tre belle ragazze tristi.
Fotografie di guerra da premio Pulitzer
Parlare di arte significa parlare di estetica, e un’immagine non vale l’altra quando si tratta di documentare una disgrazia. Una buona inquadratura, una buona luce rendono meglio, così com’è importante una composizione bilanciata. Il passo finale nel portare la violenza sugli schermi, che sia bella da vedere. La foto migliore in tempi di guerra, è, in alta definizione e non troppo satura, il volto di una persona nel momento in cui muore. Ne è consapevole Lee, che nel corso di una moderna guerra civile americana, è pronta a rischiare la vita pur di immortalare il presidente nel momento della sua esecuzione, una fotografia, viene sottolineato, degna del Pulitzer.
Civil War, film di Alex Garland distribuito nel 2024, è una delle più pungenti esposizioni dell’ipocrisia dei media moderni. Reporter che, in nome della causa di documentare gli orrori di una guerra, ne diventano anestetizzati. L’evidenza è Jessie, giovanissima ragazza, dapprima colta dal panico nel corso di un bombardamento suicida e in seguito osservata nel fotografare, con noncuranza, la morte della propria mentore. Il percorso di una persona dapprima sensibile che, dal voler condannare la crudeltà dello scontro, ne diventa complice.
Seppur una distopia, il film di Garland è spaventosamente vicino a realtà che purtroppo conosciamo bene. Immortalate tutti i giorni, ma non sul suolo americano. Perché nel 2024 il rapporto dei media con temi come la guerra è, in realtà, pericolosamente vicino allo sciacallaggio. Un terreno fertile per tragedie reali da trasformare in arte, al peggio in intrattenimento. Vittime che diventano numeri, classificate per età, per genere, per etnia, così da stabilirne il valore. Social inondati da immagini, le più crudeli, “di qualità”, in tendenza. Sono una libertà fondamentale e un privilegio quelli della stampa nelle condizioni di documentare una guerra, mezzi di consapevolezza. Almeno finché non smettono di esserlo, nel momento in cui un (solo) corpo non è più tanto male, non dopo i reportage di bambini smembrati e fosforo bianco.
Purtroppo, ciò che Garland ha colto in Civil War è vero, ovvero come sia essenziale documentare, ma sia inumana la caccia al materiale migliore. Come l’esposizione sensazionalistica al drammatico, ormai ampiamente diffusa da stampa a televisione, non renda più sensibili, ma invogli a consumarne di più. Delimitando, in questo modo, il dolore di serie A, fuori norma, per cui sconvolgersi, da quello di serie B, quotidiano, non così grave. Ed è preoccupante in quanto, paradossalmente, la sovraesposizione al trauma sia uno strumento di assuefazione. Lo spettatore esposto ad accadimenti dolorosi e ingiusti non potrà che diventarne dipendente a livello inconscio, in un circolo vizioso in cui reazioni emotive forti spingono al consumo compulsivo di questo tipo di narrazioni. Ma, più di tutto, la mercificazione del dolore connota il rischio di iniziare ad attribuirne, come con qualsiasi altro prodotto, un merito inflazionato sulla base delle sue “specifiche”.
C’è valore nelle emozioni negative e portare sullo schermo la sofferenza è e rimane essenziale. È essenziale dare voce a chi ne è vittima quanto educarne verso le cause, ma, se il cinema è davvero in grado di formare le menti, rappresentarlo con cognizione dovrebbe essere una responsabilità dei suoi fattori, apparentemente così indifferenti a quanto sia più facile desensibilizzare rispetto al suo opposto. Dove è più rilevante la brutalità di ciò che sta venendo inquadrato rispetto al motivo per cui ciò che ci sta venendo mostrato è brutale, l’autore dovrebbe forse riconoscerlo per ciò che è, una scelta conscia e motivata, non un’inevitabile causalità.
Se un regista come Lars von Trier ha accettato di diventare controverso nel dichiarare di vedere nel dolore qualcosa di estremamente affascinante, autori come Aronofsky e Zeller dovrebbero dichiarare che non esiste l’empatia senza l’abuso, che una donna è più bella quando il suo volto è triste, che una storia di dannazione è più valida di una di rinascita, che non tutte le morti valgono allo stesso modo e che un’esistenza triste è migliore di un’esistenza banale, perché è questo quello che ci stanno mostrando.