di Omar Franini
NC-191
29.02.2024
La scorsa domenica si è conclusa la settantaquattresima edizione del Festival di Berlino e, come di consueto, è arrivato il momento di trarre le somme e analizzare nel dettaglio i vincitori.
La settantaquattresima Berlinale sarà ricordata come l’ultima dei co-direttori Carlo Chatrian e Mariette Risenbeck. Una notizia davvero sconfortante, poiché il lavoro svolto negli ultimi anni da questi due grandi professionisti è stato eccelso; dall’introduzione della nuova categoria Encounters, fino alla selezione eterogenea e “internazionale” nelle varie sezioni. Con queste idee, Chatrian e Rissenbeck sono riusciti a creare una manifestazione in grado di competere con i festival di Cannes e Venezia, distaccandosi però da essi attraverso una selezione che predilige un cinema radicale, non convenzionale, e che da l’opportunità a giovani cineasti di calcare uno dei palchi più influenti del circuito festivaliero.
La selezione della Competizione di quest’anno riflette un’enorme varietà di generi e i gli stessi principi a cui siamo stati abituati negli anni precedenti. Si è potuto assistere ad opere che spaziano dal genere horror alla commedia, dal thriller al coming of age e che provengono da ogni parte del mondo - dal Nepal alla Colombia, dalla Corea fino alla Danimarca. Infine è da segnalare anche il grande mix di rinomati autori, come Olivier Assayas, Hong Sang-soo o Abderrahmane Sissako, e nuovi talenti, come Nelson Carlos De Los Santos Arias e Min Bahadur Bham.
Passando ora ai vincitori, la giuria presieduta da Lupita Nyong’o, e formata da Albert Serra, Christian Petzold, Jasmine Trinca, Brady Corbet, Ann Hui e Oksana Zabuzhko, ha assegnato l’Orso d’Oro a Dahomey di Mati Diop. Il secondo lungometraggio della cineasta Franco-Senegalese è un documentario che narra la riconsegna, da parte del Louvre, di 26 opere legate alla storia del Regno di Dahomey al suo paese d’origine, ovvero La Repubblica di Benin. Il film, nella sua semplicità, ha colpito per la sua potenza visiva e narrativa. Il modo in cui la cineasta segue il viaggio di queste statue donandogli una “voce”, ha stupito per la sua originalità.
Inoltre, nella seconda parte dell’opera, spicca l'utilizzo di dibattiti per far comprendere l’importanza e l’impatto che il ritorno di questi manufatti ha avuto sulla popolazione locale. La vittoria di Dahomey ha convinto e soddisfatto, ed è inoltre interessante notare che, per il secondo anno di fila, è un documentario ad aggiudicarsi l’Orso d’Oro, dopo il successo di Nicolas Philibert con Sur L’Adamant dello scorso anno.
“Non so cosa avete visto di speciale nel film, ma grazie.” Sono state queste le parole, rivolte alla giuria, di Hong Sang-soo, vincitore del Gran Premio della Giuria per A Traveler’s Needs. Al centro della storia raccontata da Hong c’è Iris (Isabelle Huppert, alla terza collaborazione con il regista), una una misteriosa donna francese, caratterizzata da un simpatico cappello di paglia e un golfino verde, che vaga per le vie di un paesino coreano cercando persone con lo scopo di “insegnare” loro il francese in cambio di cospicue somme di denaro. Un premio più che meritato per una delle opere più riuscite ed esilaranti del prolifico cineasta coreano.
Il Premio della Giuria invece è andato a Bruno Dumont per L’Empire, satira sul genere sci-fi e sulla, spesso banale, rappresentazione della lotta tra le forze del bene e del male. Pur tendendo alla parodia, il film presenta i tratti caratteristici del cinema di Dumont, dal suo pungente umorismo fino all’uso di una palette formata per lo più da colori freddi. Inoltre, il lungometraggio è ambientato nello stesso “universe” di P’tit Quinquin (2014) - splendida miniserie che il regista francese diresse nel 2014 - altro dettaglio che rafforza la natura satirica dell’opera. In linea con la sua personalità sopra le righe e una volta sul palco, Bruno Dumont ha ringraziato la giuria e ha estratto un dispositivo dalla tasca, facendo partire un discorso registrato da una voce robotica.
Ad un primo istante si pensava che la ragione di questo gesto fosse ricollegabile al fatto che il cineasta non se la sentiva di compiere un ringraziamento in lingua inglese, ma ben presto l’escamotage è stato compreso. “A cinema film has no sex, a cinema film has no skin colour, a cinema film is a cinema film”: sono state queste le parole che hanno caratterizzato il discorso, e l’utilizzo di una voce AI è un altro modo per rimarcare la satira del film, in questo caso prendendosi gioco dei timori dell’industria cinematografica per le tecnologie legate all’Intelligenza Artificiale. Una volta terminato il discorso, il regista ha richiamato l’attenzione del pubblico presente e… ha fatto ripartire il discorso per una seconda volta, una scelta esilarante che ha creato un simpatico siparietto che ha lasciato a bocca aperta alcuni membri della giuria.
Passando ora ai premi per la recitazione, le due scelte della giuria sono state piuttosto buone, anche se bisogna ammettere che c’erano alternative più valide. Sebastian Stan ha trionfato nella categoria di “protagonista” con la sua ottima performance in A Different Man di Aaron Schimberg, dove interpreta il ruolo di Edward, un aspirante attore dal viso malformato che decide di sottoporsi ad un intervento chirurgico per cambiare il suo aspetto e cercare di avere più opportunità, ma ben presto la situazione si trasformerà in un incubo. Stan eccelle nel mostrare le varie sfaccettature della spirale discendente del suo personaggio, comprendendo appieno il tono tragicomico dell’opera seconda di Schimberg. Una vittoria più che meritata, ma ci si aspettava un altro scenario, ovvero il trionfo di Sidse Babett Knudsen per la sua magistrale interpretazione in Vogter di Gustaf Möller, la più grande performance attoriale del festival.
Per quanto riguarda la categoria di “non protagonista”, Emily Watson si è aggiudicata il premio per Small Things Like These di Tim Mielants, film nel quale interpreta Suor Mary, madre superiore di una Casa Magdalena - una tipologia di istituti femminili, finiti al centro di una grande scandalo, che accoglievano ragazze orfane o ritenute “immorali” con lo scopo di sfruttarle ed esporle a violenze ed abusi. L’interpretazione di Watson è più che buona ed eleva un personaggio dalla scrittura piuttosto monodimensionale, rispetto a Sebastian Stan però, le alternative a Watson erano molteplici e si sarebbe preferito vedere sul palcoscenico Adam Pearson o Renate Reinsve per l’appena citato A Different Man, Ronald Zehrfeld per Sterben oppure Nina Hoss per Langue étrangère di Claire Burger.
Il premio per la Miglior Regia è stato invece vinto da Nelson Carlos De Los Santos Arias per Pepe, film che segue le vicende di uno dei tre ippopotami che Pablo Escobar esportò dall’Africa per arricchire il suo zoo privato. La regia innovativa, caratterizzata da una forte natura sperimentale dal punto di vista stilistico e visivo, mostra una certa volontà da parte del cineasta di voler “rivoluzionare” il linguaggio cinematografico e distaccarsi da una narrativa convenzionale, la sua vittoria è stata quindi una delle più soddisfacenti dell’intera serata dei premi.
Il regista tedesco Matthias Glasner si è invece dovuto solo accontentare del premio alla Miglior Sceneggiatura per l’eccellente Sterben. Il film segue le cronache dei Lunies, una famiglia disfunzionale caratterizzata da dipendenze, depressione e soprattutto astio reciproco. Quello che ammalia è il tono dell’opera e il modo con cui Glasner analizza certi argomenti tabù, evitando di cadere nel classico moralismo e presentando certe situazioni come qualcosa di normale e a tratti ironico.
L’ambiziosa struttura narrativa, le magistrali interpretazioni del cast e l’operazione sul tono, facevano pensare ad un premio più importante, se non addirittura all’Orso d’Oro, anche perché Sterben è stata l’opera migliore presentata in Competizione. Un vero peccato, ma fa comunque piacere vedere un cineasta sottovalutato come Matthias Glasner vincere il suo primo importante riconoscimento.
Concludiamo i premi principali con quello al Miglior Contributo Artistico, assegnato al direttore della fotografia Martin Gschlacht per il suo lavoro in The Devil’s Bath di Veronika Franz e Severin Fiala. La vittoria ha lasciato un po’ l’amaro in bocca; se si voleva premiare un aspetto tecnico del film, si poteva optare per le musiche di Anja Plaschg (che interpreta anche il ruolo di protagonista), che creano quell’atmosfera inquietante tanto necessaria per il film. Oppure, sempre per quanto riguarda il campo della fotografia, un premio a La Cocina o Shambhala sarebbero state scelte più meritevoli. Soprattutto quest’ultimo, il cui abile uso del piano sequenza acquista anche un valore metaforico all’interno dell’opera.
Durante la serata di chiusura è stato conferito anche il premio per il Miglior Debutto, e la giuria chiamata a votare, presieduta da Eliza Hittman, ha optato per Cu Li Never Cries della cineasta vietnamita Pham Ngoc Lân. Il film ruota attorno a Mrs. Nguyen, una donna che ha ereditato dal marito, con il quale era separata da tempo, un piccolo primate della giungla. Quello che colpisce dell’opera è il tono melanconico con il quale la regista rappresenta la difficile situazione di Mrs. Nguyen e l’uso convincente del bianco e nero per rimarcare la sensazione di nostalgia della protagonista. La vittoria della giovane Pham Ngoc Lân è una testimonianza del buon momento che il cinema vietnamita sta attraversando, infatti, bisogna ricordare che lo scorso anno a Cannes era uscito vincitore, nella stessa categoria, Pham Thien An con Inside the Yellow Cocoon Shell.
Come per la Competizione, nella sezione Encounters ha trionfato un documentario francese. La giuria formata da Lisandro Alonso, Tizza Covi e Denis Côté ha assegnato il premio per miglior film a Direct Action di Guillaume Cailleau e Ben Russell, opera imponente dalla durata di tre ore e mezza che documenta la quotidianità di una delle comunità di attivisti più importanti in Francia e i loro metodi radicali di protesta. Direct Action ha sorpreso per la sua audacia e struttura narrativa, composta da una quarantina di sequenze, ed è il film che più ci ha impressionato da Encounters.
Il premio di miglior regia è stato assegnato invece a Juliana Rojas per Cidade; Campo, il secondo lungometraggio da “solista” della cineasta brasiliana. Il film affronta due affascinanti storie di emigrazione; quella di Joana, che si vede costretta a spostarsi a São Paulo dopo che un’alluvione ha distrutto la sua casa, e quella di Flavia, che si trasferisce dalla città alla campagna con la moglie Mara per prendersi cura della fattoria del defunto padre. Sulla carta il film risultava interessante, ma Rojas, in uno dei due racconti, inserisce elementi horror e fantasy che risultano forzati, superflui e che danneggiano parzialmente la buona riuscita dell’opera. La vittoria di Rojas non ha convinto del tutto e avremmo apprezzato di più un premio a Nehe Wolatz per Dormir de olhos abertos o Ruth Beckermann per Favoriten.
Il Gran Premio della Giuria della sezione Encounters è stato un ex aequo tra due opere prime, Some Rain Must Fall di Qiu Yang e The Great Yawn of History di Aliyar Rasti, due film completamente diversi in forma e stile che ci hanno provocato reazioni contrastanti. Il debutto di Qiu Yang sembrava promettente - soprattutto per il modo in cui la cineasta costruisce la storia tramite l’impeccabile uso del tableaux vivant e perché, nella prima parte del film, lo spettatore, come la protagonista, si trova catapultato in un mondo ambiguo e pieno di incertezze - ma, man mano che la storia prosegue, la narrazione diventa sempre più convenzionale e meno convincente.
The Great Yawn of History segue invece le vicende di due uomini, dalle diverse credenze, che decidono di collaborare per andare in cerca di alcune monete d’oro nascoste in una cava. Rasti dimostra che certe volte bisogna prediligere una buona scrittura e gestione degli attori, piuttosto che compiere un “esercizio di stile” come nel caso di Qiu Yang. L’opera prima del cineasta iraniano mette in mostra un nuovo talento da tener d’occhio, e bisogna solo sperare che l’oppressione del governo locale non vieti certe opportunità ad i artisti come lui.
Quest’ultimo commento può essere applicato sopratutto al caso di Betash Sanaeeah e Maryam Moghaddam, i registi di My Favourite Cake, film presentato nella Competizione. Il duo doveva recarsi a Parigi lo scorso settembre per finire la produzione del film, ma il governo ha confiscato i loro passaporti e da quel momento Sanaeeah e Moghaddam sono bloccati in Iran. Questo è l’ennesimo, triste, episodio che condiziona il cinema e i grandi artisti iraniani.
Concludiamo il resoconto sulla Berlinale di quest’anno citando due premi onorifici assegnati a due grandi maestri del cinema. Edgar Reitz ha ricevuto la Berlinale Camera, riconoscimento conferito a personalità e istituzioni cinematografiche che hanno dato un importante contributo alla rassegna. Reitz, inoltre, ha presentato nella sezione Berlinale Special Filmstunde_23, la sua ultima, brillante, opera nella quale il regista re incontra, dopo cinquant’anni, le ragazze di una classe a cui aveva insegnato cinema, un esperimento educativo estremamente innovativo per l’epoca.
A Martin Scorsese hanno invece conferito l’Orso d’Oro alla carriera, premio consegnato durante la serata del 20 febbraio poco prima di una proiezione speciale di The Departed (2006). A consegnare il premio è stato Wim Wenders, una leggenda del cinema tedesco, e vedere entrambi i cineasti condividere lo stesso palcoscenico è stato piuttosto evocativo ed emozionante.
di Omar Franini
NC-191
29.02.2024
La scorsa domenica si è conclusa la settantaquattresima edizione del Festival di Berlino e, come di consueto, è arrivato il momento di trarre le somme e analizzare nel dettaglio i vincitori.
La settantaquattresima Berlinale sarà ricordata come l’ultima dei co-direttori Carlo Chatrian e Mariette Risenbeck. Una notizia davvero sconfortante, poiché il lavoro svolto negli ultimi anni da questi due grandi professionisti è stato eccelso; dall’introduzione della nuova categoria Encounters, fino alla selezione eterogenea e “internazionale” nelle varie sezioni. Con queste idee, Chatrian e Rissenbeck sono riusciti a creare una manifestazione in grado di competere con i festival di Cannes e Venezia, distaccandosi però da essi attraverso una selezione che predilige un cinema radicale, non convenzionale, e che da l’opportunità a giovani cineasti di calcare uno dei palchi più influenti del circuito festivaliero.
La selezione della Competizione di quest’anno riflette un’enorme varietà di generi e i gli stessi principi a cui siamo stati abituati negli anni precedenti. Si è potuto assistere ad opere che spaziano dal genere horror alla commedia, dal thriller al coming of age e che provengono da ogni parte del mondo - dal Nepal alla Colombia, dalla Corea fino alla Danimarca. Infine è da segnalare anche il grande mix di rinomati autori, come Olivier Assayas, Hong Sang-soo o Abderrahmane Sissako, e nuovi talenti, come Nelson Carlos De Los Santos Arias e Min Bahadur Bham.
Passando ora ai vincitori, la giuria presieduta da Lupita Nyong’o, e formata da Albert Serra, Christian Petzold, Jasmine Trinca, Brady Corbet, Ann Hui e Oksana Zabuzhko, ha assegnato l’Orso d’Oro a Dahomey di Mati Diop. Il secondo lungometraggio della cineasta Franco-Senegalese è un documentario che narra la riconsegna, da parte del Louvre, di 26 opere legate alla storia del Regno di Dahomey al suo paese d’origine, ovvero La Repubblica di Benin. Il film, nella sua semplicità, ha colpito per la sua potenza visiva e narrativa. Il modo in cui la cineasta segue il viaggio di queste statue donandogli una “voce”, ha stupito per la sua originalità.
Inoltre, nella seconda parte dell’opera, spicca l'utilizzo di dibattiti per far comprendere l’importanza e l’impatto che il ritorno di questi manufatti ha avuto sulla popolazione locale. La vittoria di Dahomey ha convinto e soddisfatto, ed è inoltre interessante notare che, per il secondo anno di fila, è un documentario ad aggiudicarsi l’Orso d’Oro, dopo il successo di Nicolas Philibert con Sur L’Adamant dello scorso anno.
“Non so cosa avete visto di speciale nel film, ma grazie.” Sono state queste le parole, rivolte alla giuria, di Hong Sang-soo, vincitore del Gran Premio della Giuria per A Traveler’s Needs. Al centro della storia raccontata da Hong c’è Iris (Isabelle Huppert, alla terza collaborazione con il regista), una una misteriosa donna francese, caratterizzata da un simpatico cappello di paglia e un golfino verde, che vaga per le vie di un paesino coreano cercando persone con lo scopo di “insegnare” loro il francese in cambio di cospicue somme di denaro. Un premio più che meritato per una delle opere più riuscite ed esilaranti del prolifico cineasta coreano.
Il Premio della Giuria invece è andato a Bruno Dumont per L’Empire, satira sul genere sci-fi e sulla, spesso banale, rappresentazione della lotta tra le forze del bene e del male. Pur tendendo alla parodia, il film presenta i tratti caratteristici del cinema di Dumont, dal suo pungente umorismo fino all’uso di una palette formata per lo più da colori freddi. Inoltre, il lungometraggio è ambientato nello stesso “universe” di P’tit Quinquin (2014) - splendida miniserie che il regista francese diresse nel 2014 - altro dettaglio che rafforza la natura satirica dell’opera. In linea con la sua personalità sopra le righe e una volta sul palco, Bruno Dumont ha ringraziato la giuria e ha estratto un dispositivo dalla tasca, facendo partire un discorso registrato da una voce robotica.
Ad un primo istante si pensava che la ragione di questo gesto fosse ricollegabile al fatto che il cineasta non se la sentiva di compiere un ringraziamento in lingua inglese, ma ben presto l’escamotage è stato compreso. “A cinema film has no sex, a cinema film has no skin colour, a cinema film is a cinema film”: sono state queste le parole che hanno caratterizzato il discorso, e l’utilizzo di una voce AI è un altro modo per rimarcare la satira del film, in questo caso prendendosi gioco dei timori dell’industria cinematografica per le tecnologie legate all’Intelligenza Artificiale. Una volta terminato il discorso, il regista ha richiamato l’attenzione del pubblico presente e… ha fatto ripartire il discorso per una seconda volta, una scelta esilarante che ha creato un simpatico siparietto che ha lasciato a bocca aperta alcuni membri della giuria.
Passando ora ai premi per la recitazione, le due scelte della giuria sono state piuttosto buone, anche se bisogna ammettere che c’erano alternative più valide. Sebastian Stan ha trionfato nella categoria di “protagonista” con la sua ottima performance in A Different Man di Aaron Schimberg, dove interpreta il ruolo di Edward, un aspirante attore dal viso malformato che decide di sottoporsi ad un intervento chirurgico per cambiare il suo aspetto e cercare di avere più opportunità, ma ben presto la situazione si trasformerà in un incubo. Stan eccelle nel mostrare le varie sfaccettature della spirale discendente del suo personaggio, comprendendo appieno il tono tragicomico dell’opera seconda di Schimberg. Una vittoria più che meritata, ma ci si aspettava un altro scenario, ovvero il trionfo di Sidse Babett Knudsen per la sua magistrale interpretazione in Vogter di Gustaf Möller, la più grande performance attoriale del festival.
Per quanto riguarda la categoria di “non protagonista”, Emily Watson si è aggiudicata il premio per Small Things Like These di Tim Mielants, film nel quale interpreta Suor Mary, madre superiore di una Casa Magdalena - una tipologia di istituti femminili, finiti al centro di una grande scandalo, che accoglievano ragazze orfane o ritenute “immorali” con lo scopo di sfruttarle ed esporle a violenze ed abusi. L’interpretazione di Watson è più che buona ed eleva un personaggio dalla scrittura piuttosto monodimensionale, rispetto a Sebastian Stan però, le alternative a Watson erano molteplici e si sarebbe preferito vedere sul palcoscenico Adam Pearson o Renate Reinsve per l’appena citato A Different Man, Ronald Zehrfeld per Sterben oppure Nina Hoss per Langue étrangère di Claire Burger.
Il premio per la Miglior Regia è stato invece vinto da Nelson Carlos De Los Santos Arias per Pepe, film che segue le vicende di uno dei tre ippopotami che Pablo Escobar esportò dall’Africa per arricchire il suo zoo privato. La regia innovativa, caratterizzata da una forte natura sperimentale dal punto di vista stilistico e visivo, mostra una certa volontà da parte del cineasta di voler “rivoluzionare” il linguaggio cinematografico e distaccarsi da una narrativa convenzionale, la sua vittoria è stata quindi una delle più soddisfacenti dell’intera serata dei premi.
Il regista tedesco Matthias Glasner si è invece dovuto solo accontentare del premio alla Miglior Sceneggiatura per l’eccellente Sterben. Il film segue le cronache dei Lunies, una famiglia disfunzionale caratterizzata da dipendenze, depressione e soprattutto astio reciproco. Quello che ammalia è il tono dell’opera e il modo con cui Glasner analizza certi argomenti tabù, evitando di cadere nel classico moralismo e presentando certe situazioni come qualcosa di normale e a tratti ironico.
L’ambiziosa struttura narrativa, le magistrali interpretazioni del cast e l’operazione sul tono, facevano pensare ad un premio più importante, se non addirittura all’Orso d’Oro, anche perché Sterben è stata l’opera migliore presentata in Competizione. Un vero peccato, ma fa comunque piacere vedere un cineasta sottovalutato come Matthias Glasner vincere il suo primo importante riconoscimento.
Concludiamo i premi principali con quello al Miglior Contributo Artistico, assegnato al direttore della fotografia Martin Gschlacht per il suo lavoro in The Devil’s Bath di Veronika Franz e Severin Fiala. La vittoria ha lasciato un po’ l’amaro in bocca; se si voleva premiare un aspetto tecnico del film, si poteva optare per le musiche di Anja Plaschg (che interpreta anche il ruolo di protagonista), che creano quell’atmosfera inquietante tanto necessaria per il film. Oppure, sempre per quanto riguarda il campo della fotografia, un premio a La Cocina o Shambhala sarebbero state scelte più meritevoli. Soprattutto quest’ultimo, il cui abile uso del piano sequenza acquista anche un valore metaforico all’interno dell’opera.
Durante la serata di chiusura è stato conferito anche il premio per il Miglior Debutto, e la giuria chiamata a votare, presieduta da Eliza Hittman, ha optato per Cu Li Never Cries della cineasta vietnamita Pham Ngoc Lân. Il film ruota attorno a Mrs. Nguyen, una donna che ha ereditato dal marito, con il quale era separata da tempo, un piccolo primate della giungla. Quello che colpisce dell’opera è il tono melanconico con il quale la regista rappresenta la difficile situazione di Mrs. Nguyen e l’uso convincente del bianco e nero per rimarcare la sensazione di nostalgia della protagonista. La vittoria della giovane Pham Ngoc Lân è una testimonianza del buon momento che il cinema vietnamita sta attraversando, infatti, bisogna ricordare che lo scorso anno a Cannes era uscito vincitore, nella stessa categoria, Pham Thien An con Inside the Yellow Cocoon Shell.
Come per la Competizione, nella sezione Encounters ha trionfato un documentario francese. La giuria formata da Lisandro Alonso, Tizza Covi e Denis Côté ha assegnato il premio per miglior film a Direct Action di Guillaume Cailleau e Ben Russell, opera imponente dalla durata di tre ore e mezza che documenta la quotidianità di una delle comunità di attivisti più importanti in Francia e i loro metodi radicali di protesta. Direct Action ha sorpreso per la sua audacia e struttura narrativa, composta da una quarantina di sequenze, ed è il film che più ci ha impressionato da Encounters.
Il premio di miglior regia è stato assegnato invece a Juliana Rojas per Cidade; Campo, il secondo lungometraggio da “solista” della cineasta brasiliana. Il film affronta due affascinanti storie di emigrazione; quella di Joana, che si vede costretta a spostarsi a São Paulo dopo che un’alluvione ha distrutto la sua casa, e quella di Flavia, che si trasferisce dalla città alla campagna con la moglie Mara per prendersi cura della fattoria del defunto padre. Sulla carta il film risultava interessante, ma Rojas, in uno dei due racconti, inserisce elementi horror e fantasy che risultano forzati, superflui e che danneggiano parzialmente la buona riuscita dell’opera. La vittoria di Rojas non ha convinto del tutto e avremmo apprezzato di più un premio a Nehe Wolatz per Dormir de olhos abertos o Ruth Beckermann per Favoriten.
Il Gran Premio della Giuria della sezione Encounters è stato un ex aequo tra due opere prime, Some Rain Must Fall di Qiu Yang e The Great Yawn of History di Aliyar Rasti, due film completamente diversi in forma e stile che ci hanno provocato reazioni contrastanti. Il debutto di Qiu Yang sembrava promettente - soprattutto per il modo in cui la cineasta costruisce la storia tramite l’impeccabile uso del tableaux vivant e perché, nella prima parte del film, lo spettatore, come la protagonista, si trova catapultato in un mondo ambiguo e pieno di incertezze - ma, man mano che la storia prosegue, la narrazione diventa sempre più convenzionale e meno convincente.
The Great Yawn of History segue invece le vicende di due uomini, dalle diverse credenze, che decidono di collaborare per andare in cerca di alcune monete d’oro nascoste in una cava. Rasti dimostra che certe volte bisogna prediligere una buona scrittura e gestione degli attori, piuttosto che compiere un “esercizio di stile” come nel caso di Qiu Yang. L’opera prima del cineasta iraniano mette in mostra un nuovo talento da tener d’occhio, e bisogna solo sperare che l’oppressione del governo locale non vieti certe opportunità ad i artisti come lui.
Quest’ultimo commento può essere applicato sopratutto al caso di Betash Sanaeeah e Maryam Moghaddam, i registi di My Favourite Cake, film presentato nella Competizione. Il duo doveva recarsi a Parigi lo scorso settembre per finire la produzione del film, ma il governo ha confiscato i loro passaporti e da quel momento Sanaeeah e Moghaddam sono bloccati in Iran. Questo è l’ennesimo, triste, episodio che condiziona il cinema e i grandi artisti iraniani.
Concludiamo il resoconto sulla Berlinale di quest’anno citando due premi onorifici assegnati a due grandi maestri del cinema. Edgar Reitz ha ricevuto la Berlinale Camera, riconoscimento conferito a personalità e istituzioni cinematografiche che hanno dato un importante contributo alla rassegna. Reitz, inoltre, ha presentato nella sezione Berlinale Special Filmstunde_23, la sua ultima, brillante, opera nella quale il regista re incontra, dopo cinquant’anni, le ragazze di una classe a cui aveva insegnato cinema, un esperimento educativo estremamente innovativo per l’epoca.
A Martin Scorsese hanno invece conferito l’Orso d’Oro alla carriera, premio consegnato durante la serata del 20 febbraio poco prima di una proiezione speciale di The Departed (2006). A consegnare il premio è stato Wim Wenders, una leggenda del cinema tedesco, e vedere entrambi i cineasti condividere lo stesso palcoscenico è stato piuttosto evocativo ed emozionante.