di Pavel Belli Micati
NC-317
27.06.2025
Nelle immagini di Liryc Dela Cruz, la scelta del buio non è indice di vuoto. Il buio è uno spazio abitato da fantasmi, ricordi sfumati e desideri rimossi; colmo di voci che esitano, gesti inconsulti, sguardi in attesa di rivelazioni che non arrivano mai. Come la Notte, il suo primo lungometraggio in concorso nella sezione Perspectives alla scorsa Berlinale, è un’opera paradossale tanto quanto il tentativo di categorizzarla: dramma familiare, ma anche esercizio stilistico; testamento poetico e al contempo dispositivo politico; racconto di una diaspora e insieme riflessione sul trauma dell’eredità coloniale. Siamo nell’Italia attuale. Ci sono una villa, tre fratelli e una promessa che sembra piuttosto una maledizione. Lilia, dopo trent’anni di lavoro al servizio di Patrizia, una ricca signora che muore durante il covid, eredita da lei la sua grande magione. Rosa e Manny, i fratelli che non vede da tempo, le fanno visita. Per la prima volta scoprono come la sorella, da diversi anni, trascorre solitaria la sua vecchiaia; preoccupati per lei, cercano di convincerla a vendere la proprietà e a tornare a vivere con loro. La donna però ha stretto un patto con la signora, prima che morisse: finché sarà viva, si prenderà cura della sua casa.
Superato il cancello, l’abbraccio dei fratelli riuniti spezza la malinconia del passato. Lilia prepara loro una ricetta di famiglia e i tre si abbandonano ad aneddoti, memorie e reminiscenze. Nel riverbero del nido familiare appena ricomposto si agitano però vecchi rancori. La notte scende e il buio illumina ciò che la luce del giorno trattiene: sono le ferite non rimarginate, le colpe stratificate e le confessioni mai rivelate dalla lunga lontananza vissuta tra di loro. “Tienimi lontana dal male e da ogni disgrazia che potrebbe arrivare nella mia vita”, sussurra Lilia appena sveglia alla statua della Madonna accanto al suo letto: la preghiera precede i pasti, i lavori, la vita stessa. Lilia attraversa lentamente stanze enormi, cammina al riparo di soffitti altissimi e indugia in un presente eterno. Con ostinazione rituale pulisce ogni angolo della casa e lava gli interstizi uno ad uno. Il fisico domestico è anche corpo penitenziale. I fratelli la guardano e si chiedono perché si forza a occupare uno spazio così scomodo da abitare? Quella che dovrebbe essere una ricompensa, per Rosa e Manny appare come una pena che solo Lilia sconta. La donna giace in uno spazio che non le appartiene: nel custodirlo, è come se lo espiasse. La casa assume così un doppio valore: tomba di un passato concluso, diventa altare del suo rimosso.
I tre protagonisti di Come la notte (2025)
Dela Cruz intreccia temi attuali – diaspora, migrazione, identità – ispirandosi all’eredità poetica di cineasti come Chantal Akerman e Lav Diaz. Come la Jeanne Dielman (1975) di Akerman, anche Lilia ripete le faccende domestiche con una precisione stremata, da performance teatrale. Ogni gestualità, mostrata, cancellata o ripetuta, si carica di memoria e dolore. La scelta del bianco e nero, omaggio alla tradizione del cinema filippino rappresentato da Diaz, ne sovverte l’uso simbolico. Il chiaroscuro non illumina gli elementi narrativi, bensì evidenzia ciò che nel buio prende forma: le ombre dicono più della luce, il tempo della narrazione si dilata all’interno delle sue stesse scene e la fissità della regia, riflessa dall’immobilità della scena, diventa rivelazione che premia l’attesa. L’inquadratura racchiude forme che rimandano di continuo ad altro: i lunghi corridoi si aprono come ferite non rimarginate, i corpi stesi in penombra sono monumenti al desiderio rimosso e i volti riversi nell’oscurità raccontano il terrore che produce l’attesa. Ogni gesto, ogni esitazione, si fa rivelazione di un senso irriducibile e umano: ora la rabbia, ora l’affetto, ora la frustrazione. Stile e tecnica, più che formalità, reggono la struttura di una filosofia che viene descritta dal suo tema: per carpirla, non basta soltanto vederla.
Rosa spiega a Lilia che l’impossibilità di apprezzare il regalo della signora risulta da un senso di colpa atavico, sentimento integrato nella loro storia e tradizione filippine. La migrazione, dunque, non è solo spostamento fisico: è anche condizione del nomadismo spirituale che regola l’identità straniera. Il cattolicesimo poi, sublimato nello spirito di un paese devastato da conquiste e soprusi e osservato nell’atteggiamento penitenziale della sua protagonista, pervade e irradia lo spazio narrativo: così, la pulizia diventa una forma di pentimento e il servizio prestato si fa garante di un posto nell’aldilà. Ecco perché la durata delle sequenze talvolta eccede la sua utilità o la regia insiste occasionalmente su una scena conclusa: non dentro la cornice, la storia di Come la Notte vive della sua stessa cornice; i suoi personaggi pure, non sono altro che dispositivi stilistici, contenitori semantici che cambiano insieme alla scena. Se per Dela Cruz il buio dice più della luce, allora è nel non-movimento che sta la rivelazione. In Come la Notte l’identità si fa verbo, e la diaspora carne. La villa registra la sofferenza millenaria di storie che, riportate alla luce, adesso mostrano le cicatrici della loro assenza storica.
Una sequenza di Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (1975) di Chantal Akerman
La forza politica del messaggio poetico risiede tutta nel suo muto sperimentalismo. Non è esplicito e nemmeno sovversivo; non urla, anzi parla poco e tace spesso, come i personaggi di Come la Notte. Ma il silenzio di cui sono portatori è feroce. L’austerità formale interroga il presente contemporaneo sulla ricezione di un’immagine di alterità: è la condizione dei lavoratori stranieri, lo sradicamento come trauma collettivo, il lavoro domestico come forma intima e sottile di espropriazione. Il concetto di gratitudine, quando è esplicitato o imposto, diventa una forma di controllo; quando è riportato poi all’immaginario collettivo che regola la domesticità filippina – mite, devota, penitente – ne denuncia la descrizione coloniale. Cosa cambia tra essere un’artista e lavorare in casa degli altri, nella condizione di straniero in Italia? “La divisa, forse. Il resto è uguale”, risponde Dela Cruz: al corpo migrante, come all’io artistico, è sempre richiesto di prestare servizio, di svolgere la performance richiesta. Così per il soggetto filippino la cura diventa particella pronominale e il silenzio la sua grammatica normativa. La coniugazione è sempre quella però: un presente neutro senza radici e pieno di clausole da osservare.
Godersi la vita?” Lilia ironica cerca di ricordare cosa significhi quell’espressione. Come la luce tecnica, così anche il tema della memoria segue una ratio particolare: Rosa e Manny condividono ricordi che sono vividi nella loro mente, ma totalmente assenti in quella di Lilia che, in un momento successivo, rivela ai fratelli di aver dovuto dimenticare molto della vita nelle Filippine per necessità, anche se le capita ancora di sognare la loro vecchia casa. Anche l’oblio è una forma di resistenza, così come la penitenza. Dimenticare per sopravvivere non come scelta o privilegio, ma qui come bisogno fisiologico camuffato da speranza religiosa. Come tutte le forme di resistenza però, anche l’oblio ha le sue conseguenze pericolose: a Lilia le ha cancellato la memoria, l’ha modificata esportandone solo i ricordi migliori, tollerabili, nostalgici. Ma Dela Cruz, drammatizzando l’arte del ricordo, ne denuncia il suo potenziale corrosivo: una memoria frammentata, inaffidabile, caotica, è comunque testimonianza reale, unica, necessaria. Se l’oblio riposa nel limine, dove dorme il ricordo? Non c’è pace per chi ha memoria e non c’è identità per chi dimentica. Il finale a sorpresa non consola. Nessuno si può salvare, nemmeno chi prega: ciascuno è vittima della presenza, spesso ingombrante, della propria assenza.
“La mia promessa… di un amore senza fine… vivrà per sempre…”, Rosa intona la canzoncina che Lilia cantava a lei e Manny quando erano piccoli, per addormentarsi, nella promessa di una pace che non nega il dolore della lontananza e non cancella la violenza del distacco, ma che trionfi sul loro ricordo. Non solo preghiera, ma nemmeno una maledizione, Come la Notte è un esorcismo che rimane sulla punta della lingua, una supplica sussurrata a bassa voce, una catarsi appena accennata. Parabola post-cristiana che insegna che il dolore non ha alcuna morale da insegnare, questa narrazione non si espone alla luce e non riposa nel buio. Permane, leggera ed evanescente, nel limine del chiaroscuro: tra finzione e documento, desiderio e sopravvivenza, sogno e realtà. Senza grandi ostentazioni, questo piccolo dramma chiede giusto di essere ascoltato. In bilico tra identità, spostamento e memoria, l’esordio cinematografico di Liryc Dela Cruz dona nuova forma al miracolo di rivoluzioni millenarie. Una contestazione poetica singolare al trauma dell’identità coloniale e all’eredità, corporea, della sua trasmissione storica. Come la Notte chiama all’attesa, all’esitazione, alla riflessione. Così pure lavora l’arte della memoria: non solo vecchie filastrocche o sapori di una terra lontana, anche il dolore resta.
Come la notte (2025)
di Pavel Belli Micati
NC-317
27.06.2025
Nelle immagini di Liryc Dela Cruz, la scelta del buio non è indice di vuoto. Il buio è uno spazio abitato da fantasmi, ricordi sfumati e desideri rimossi; colmo di voci che esitano, gesti inconsulti, sguardi in attesa di rivelazioni che non arrivano mai. Come la Notte, il suo primo lungometraggio in concorso nella sezione Perspectives alla scorsa Berlinale, è un’opera paradossale tanto quanto il tentativo di categorizzarla: dramma familiare, ma anche esercizio stilistico; testamento poetico e al contempo dispositivo politico; racconto di una diaspora e insieme riflessione sul trauma dell’eredità coloniale. Siamo nell’Italia attuale. Ci sono una villa, tre fratelli e una promessa che sembra piuttosto una maledizione. Lilia, dopo trent’anni di lavoro al servizio di Patrizia, una ricca signora che muore durante il covid, eredita da lei la sua grande magione. Rosa e Manny, i fratelli che non vede da tempo, le fanno visita. Per la prima volta scoprono come la sorella, da diversi anni, trascorre solitaria la sua vecchiaia; preoccupati per lei, cercano di convincerla a vendere la proprietà e a tornare a vivere con loro. La donna però ha stretto un patto con la signora, prima che morisse: finché sarà viva, si prenderà cura della sua casa.
Superato il cancello, l’abbraccio dei fratelli riuniti spezza la malinconia del passato. Lilia prepara loro una ricetta di famiglia e i tre si abbandonano ad aneddoti, memorie e reminiscenze. Nel riverbero del nido familiare appena ricomposto si agitano però vecchi rancori. La notte scende e il buio illumina ciò che la luce del giorno trattiene: sono le ferite non rimarginate, le colpe stratificate e le confessioni mai rivelate dalla lunga lontananza vissuta tra di loro. “Tienimi lontana dal male e da ogni disgrazia che potrebbe arrivare nella mia vita”, sussurra Lilia appena sveglia alla statua della Madonna accanto al suo letto: la preghiera precede i pasti, i lavori, la vita stessa. Lilia attraversa lentamente stanze enormi, cammina al riparo di soffitti altissimi e indugia in un presente eterno. Con ostinazione rituale pulisce ogni angolo della casa e lava gli interstizi uno ad uno. Il fisico domestico è anche corpo penitenziale. I fratelli la guardano e si chiedono perché si forza a occupare uno spazio così scomodo da abitare? Quella che dovrebbe essere una ricompensa, per Rosa e Manny appare come una pena che solo Lilia sconta. La donna giace in uno spazio che non le appartiene: nel custodirlo, è come se lo espiasse. La casa assume così un doppio valore: tomba di un passato concluso, diventa altare del suo rimosso.
I tre protagonisti di Come la notte (2025)
Dela Cruz intreccia temi attuali – diaspora, migrazione, identità – ispirandosi all’eredità poetica di cineasti come Chantal Akerman e Lav Diaz. Come la Jeanne Dielman (1975) di Akerman, anche Lilia ripete le faccende domestiche con una precisione stremata, da performance teatrale. Ogni gestualità, mostrata, cancellata o ripetuta, si carica di memoria e dolore. La scelta del bianco e nero, omaggio alla tradizione del cinema filippino rappresentato da Diaz, ne sovverte l’uso simbolico. Il chiaroscuro non illumina gli elementi narrativi, bensì evidenzia ciò che nel buio prende forma: le ombre dicono più della luce, il tempo della narrazione si dilata all’interno delle sue stesse scene e la fissità della regia, riflessa dall’immobilità della scena, diventa rivelazione che premia l’attesa. L’inquadratura racchiude forme che rimandano di continuo ad altro: i lunghi corridoi si aprono come ferite non rimarginate, i corpi stesi in penombra sono monumenti al desiderio rimosso e i volti riversi nell’oscurità raccontano il terrore che produce l’attesa. Ogni gesto, ogni esitazione, si fa rivelazione di un senso irriducibile e umano: ora la rabbia, ora l’affetto, ora la frustrazione. Stile e tecnica, più che formalità, reggono la struttura di una filosofia che viene descritta dal suo tema: per carpirla, non basta soltanto vederla.
Rosa spiega a Lilia che l’impossibilità di apprezzare il regalo della signora risulta da un senso di colpa atavico, sentimento integrato nella loro storia e tradizione filippine. La migrazione, dunque, non è solo spostamento fisico: è anche condizione del nomadismo spirituale che regola l’identità straniera. Il cattolicesimo poi, sublimato nello spirito di un paese devastato da conquiste e soprusi e osservato nell’atteggiamento penitenziale della sua protagonista, pervade e irradia lo spazio narrativo: così, la pulizia diventa una forma di pentimento e il servizio prestato si fa garante di un posto nell’aldilà. Ecco perché la durata delle sequenze talvolta eccede la sua utilità o la regia insiste occasionalmente su una scena conclusa: non dentro la cornice, la storia di Come la Notte vive della sua stessa cornice; i suoi personaggi pure, non sono altro che dispositivi stilistici, contenitori semantici che cambiano insieme alla scena. Se per Dela Cruz il buio dice più della luce, allora è nel non-movimento che sta la rivelazione. In Come la Notte l’identità si fa verbo, e la diaspora carne. La villa registra la sofferenza millenaria di storie che, riportate alla luce, adesso mostrano le cicatrici della loro assenza storica.
Una sequenza di Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (1975) di Chantal Akerman
La forza politica del messaggio poetico risiede tutta nel suo muto sperimentalismo. Non è esplicito e nemmeno sovversivo; non urla, anzi parla poco e tace spesso, come i personaggi di Come la Notte. Ma il silenzio di cui sono portatori è feroce. L’austerità formale interroga il presente contemporaneo sulla ricezione di un’immagine di alterità: è la condizione dei lavoratori stranieri, lo sradicamento come trauma collettivo, il lavoro domestico come forma intima e sottile di espropriazione. Il concetto di gratitudine, quando è esplicitato o imposto, diventa una forma di controllo; quando è riportato poi all’immaginario collettivo che regola la domesticità filippina – mite, devota, penitente – ne denuncia la descrizione coloniale. Cosa cambia tra essere un’artista e lavorare in casa degli altri, nella condizione di straniero in Italia? “La divisa, forse. Il resto è uguale”, risponde Dela Cruz: al corpo migrante, come all’io artistico, è sempre richiesto di prestare servizio, di svolgere la performance richiesta. Così per il soggetto filippino la cura diventa particella pronominale e il silenzio la sua grammatica normativa. La coniugazione è sempre quella però: un presente neutro senza radici e pieno di clausole da osservare.
Godersi la vita?” Lilia ironica cerca di ricordare cosa significhi quell’espressione. Come la luce tecnica, così anche il tema della memoria segue una ratio particolare: Rosa e Manny condividono ricordi che sono vividi nella loro mente, ma totalmente assenti in quella di Lilia che, in un momento successivo, rivela ai fratelli di aver dovuto dimenticare molto della vita nelle Filippine per necessità, anche se le capita ancora di sognare la loro vecchia casa. Anche l’oblio è una forma di resistenza, così come la penitenza. Dimenticare per sopravvivere non come scelta o privilegio, ma qui come bisogno fisiologico camuffato da speranza religiosa. Come tutte le forme di resistenza però, anche l’oblio ha le sue conseguenze pericolose: a Lilia le ha cancellato la memoria, l’ha modificata esportandone solo i ricordi migliori, tollerabili, nostalgici. Ma Dela Cruz, drammatizzando l’arte del ricordo, ne denuncia il suo potenziale corrosivo: una memoria frammentata, inaffidabile, caotica, è comunque testimonianza reale, unica, necessaria. Se l’oblio riposa nel limine, dove dorme il ricordo? Non c’è pace per chi ha memoria e non c’è identità per chi dimentica. Il finale a sorpresa non consola. Nessuno si può salvare, nemmeno chi prega: ciascuno è vittima della presenza, spesso ingombrante, della propria assenza.
“La mia promessa… di un amore senza fine… vivrà per sempre…”, Rosa intona la canzoncina che Lilia cantava a lei e Manny quando erano piccoli, per addormentarsi, nella promessa di una pace che non nega il dolore della lontananza e non cancella la violenza del distacco, ma che trionfi sul loro ricordo. Non solo preghiera, ma nemmeno una maledizione, Come la Notte è un esorcismo che rimane sulla punta della lingua, una supplica sussurrata a bassa voce, una catarsi appena accennata. Parabola post-cristiana che insegna che il dolore non ha alcuna morale da insegnare, questa narrazione non si espone alla luce e non riposa nel buio. Permane, leggera ed evanescente, nel limine del chiaroscuro: tra finzione e documento, desiderio e sopravvivenza, sogno e realtà. Senza grandi ostentazioni, questo piccolo dramma chiede giusto di essere ascoltato. In bilico tra identità, spostamento e memoria, l’esordio cinematografico di Liryc Dela Cruz dona nuova forma al miracolo di rivoluzioni millenarie. Una contestazione poetica singolare al trauma dell’identità coloniale e all’eredità, corporea, della sua trasmissione storica. Come la Notte chiama all’attesa, all’esitazione, alla riflessione. Così pure lavora l’arte della memoria: non solo vecchie filastrocche o sapori di una terra lontana, anche il dolore resta.
Come la notte (2025)