INT-68
18.04.2024
Una delle opere prime che ci ha più affascinato nella scorsa edizione di Cannes è stata Augure - Ritorno alle origini di Baloji, artista eclettico e pluripremiato musicista di origini congolesi. Il regista prende spunto dalla propria esperienza per raccontare una storia sulla stregoneria unica nel suo genere. Diviso in quattro sezioni distinte, il lungometraggio segue le vicende di diversi personaggi congolesi e il loro legame con il mondo della magia e delle superstizioni.
L’incipit della storia è il sofferto ritorno in Congo di Koffi (Marc Zinga) per presentare la sua compagna alla famiglia. Sofferto poiché, quindici anni prima, l'uomo era fuggito dal suo villaggio perché considerato dagli abitanti del luogo uno “zabolo”, uno stregone. Le sue vicende si intrecceranno con quelle della sorella Tshala (Eliane Umuhire), la madre Mujila (Yves-Marina Gnahoua) e Paco (Marcel Otete Kabeya), un ragazzo di strada, tre personaggi che vivono il medesimo stigma del protagonista. Solo attraverso il sostegno reciproco e la riconciliazione con il proprio passato, potranno liberarsi dalla maledizione che li affligge.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare ed intervistare Baloji, che ci ha parlato delle diverse difficoltà che ha dovuto affrontare durante la fase di produzione, dell’importanza della musica all’interno dell’opera e del perché di determinate scelte stilistiche che caratterizzano il film.
Augure - Ritorno alle origini viene distribuito a partire da oggi nei cinema italiani grazie ad Arthouse, la label di I Wonder Pictures dedicata al cinema d’autore più innovativo.
Quale è stato il punto di partenza di Augure?
Mio padre è venuto mancare nel dicembre del 2019, e il giorno dopo la sua morte tante persone si sono recate nella sua casa per piangere la sua perdita, proprio come succede nel film. Questo pianto collettivo è stato un momento di catarsi, dove abbiamo “liberato” il dolore che avevamo dentro. La stanza era come se fosse “piena” dell’acqua delle nostre lacrime, e dopo aver assistito a quel momento ho pensato che potevo scrivere qualcosa a riguardo. Sono stato a casa per otto settimane e ho scritto la sceneggiatura di Augure. Ho partecipato a diversi camp per sceneggiatori e ho potuto collaborare con scrittori più esperti e anche con diversi produttori. Questi continuavano a dirmi come dovevo scrivere per compiacere le commissioni e i possibili compratori. Ho deciso di non ascoltarli e fare di testa mia perché volevo realizzare il film a modo mio. Le commissioni all’inizio non hanno finanziato il progetto e mi dicevano “devi fare questo e quell’altro per ottenere i soldi” e dentro di me pensavo “oh cavolo”.
E alla fine come hai ottenuto i fondi per il fare il film?
È stato un periodo difficile. In Belgio c’è questa commissione che è disposta a finanziare nuovi progetti, ci ho provato per ben tre volte e mi hanno detto di no. Quindi ho pensato che dovevo arrangiarmi, ho iniziato a produrre e finanziare i miei cortometraggi usando i miei soldi. Ma, allo stesso tempo, i cortometraggi non ricevono una grossa distribuzione… dovevo inventare qualcosa per risolvere la situazione, quindi ho deciso di inserire diverse forme “artistiche” all’interno dei miei lavori, come la musica e la pittura. Mi è andata piuttosto bene e ho iniziato a ricevere diversi riconoscimenti. A quel punto sono tornato dalla commissione belga e non potevano dirmi di no... così sono comunque stati gli unici ad approvare Augure.
Augure è un film piuttosto originale ed audace, quali sono state le critiche che i finanziatori ti hanno rivolto?
Beh, erano del tipo “come cavolo fanno queste persone a creare una fontana con le loro lacrime, è stupido e non finanziamo certa roba”. Oppure criticavano la mia carriera d’artista dicendo che sono solo un musicista e non un cineasta. Capisco leggermente queste critiche, perché bisogna pur sempre tenere in considerazione che il mondo del cinema è mosso da questioni economiche e di business, e a volte i produttori prediligono determinati aspetti rispetto al contenuto del film.
C’è qualche connessione tra Augure e i tuoi precedenti cortometraggi?
Non molte per quanto riguarda le storie e i contenuti, ma l’approccio stilistico ed estetico è simile, più che altro perché sono interessato alla cinestesia: mi piace creare delle connessioni tra il colore, il suono e le sensazioni che si possono provare tramite il loro uso. Per esempio, nel film, ad ogni personaggio è associato un colore diverso. Poi ho voluto anche sperimentare usando diversi stili cinematografici; la sezione che riguarda la madre è stata per lo più ispirata dai lavori di Pedro Costa, mentre per le sezioni incentrate su Paco e Kofi volevo creare un certo contrasto, usando per lo più la camera a mano per le scene con il primo e la steady camera per il secondo. Ho cercato di “giocare” e sperimentare con il mezzo cinematografico più che potevo.
Ora vivi in Belgio, come è stato tornare in Congo per girare il film?
Augure è il quinto progetto che ho girato in Congo ma il primo lungometraggio, è stato piuttosto difficile, soprattutto per le logistiche e il numero di persone con cui dovevo lavorare. È andato tutto liscio per fortuna. Forse la più grande difficoltà è apparsa all’inizio delle riprese, perché abbiamo cercato di replicare il modo in cui si gira in Europa in Africa; per farti un esempio, se un europeo vuole girare a Los Angelese deve seguire certe regole, dettate dai sindacati o da altro, lo stesso in Giappone e via dicendo. La gente pensa che, siccome stiamo girando in Africa, non ci siano delle “regole” da rispettare, e questa è una concezione sbagliata.
Puoi farmi qualche esempio di queste “regole”?
Si certo. Avevo un calendario piuttosto fitto, con soli ventitré giorni di riprese e non potevo permettermi di saltarne neanche uno. Le date combaciavano con il periodo pasquale e il co-produttore locale mi ha detto che non potevo girare il giorno di Pasqua. Ma volevo fare di testa mia e filmare lo stesso... l’autista del pullman con tutto l'equipement per girare si è presentato solo alle due del pomeriggio, e di solito inizio le riprese alle otto del mattino. Gli ho detto “hey amico, sapevi che dovevamo girare presto”, ma lui mi ha fatto capire che rispettare certe regole è davvero fondamentale. Questo scontro culturale ha causato delle incomprensioni.
Ora vorrei chiederti del personaggio di Paco, più che altro perché gli altri tre protagonisti sono connessi da legami famigliari, mentre lui è “solo” un ragazzo di strada. Come mai hai deciso di inserire ed approfondire questo personaggio?
Semplicemente per creare un contrasto con il personaggio di Koffi, sono uno l’immagine speculare dell’altro; ma Paco, a differenza di Koffi, ha accettato il proprio stile di vita da stregone, non lo vede come un difetto, ma più come un qualcosa che possa portare ad un vantaggio.
Vista la complessità narrativa e stilistica del tuo film, mi chiedevo come fossi riuscito a “spiegarlo” ai produttori e alla crew prima dell’inizio delle riprese. Immagino tu abbia utilizzato qualche sostegno audiovisivo insieme alla sceneggiatura.
Si vero, ho dovuto utilizzare diverse moodboards (il regista ride, n.d.r.) e inoltre, per far comprendere meglio i quattro protagonisti, ho creato degli album musicali che rispecchiassero la loro personalità; con Koffi ho voluto ricreare delle sinfonie più “europee”, con Paco volevo trasmettere quelle atmosfere più “di strada” della regione di Kinshasa, mentre con Tshala ho utilizzato ritmi energici, “femminili”, implementando suoni che richiamano l’Africa, ed infine per la madre ho utilizzato composizioni più solenni e riflessive. Queste musiche hanno aiutato gli attori a capire la mia visione e concezione dei personaggi. Ma non solo, queste composizioni sono risultate utili anche per il direttore della fotografia. Una volta sul set, mettevamo la colonna sonora in sottofondo e, accompagnati dal suo ritmo, cercavamo di capire come posizionare la camera, lo stesso per i costumi e le scenografie.
I costumi all’interno del film mi hanno davvero affascinato, avevi qualche reference cinematografica, letteraria o artistica quando li hai disegnati?
Molte, volevo creare questo mix tra modernità e folklore, che rappresenta questo universo mitologico che non esiste di fatto. La creazione di questo mondo non reale è stata dettata anche da una questione logistica, perché abbiamo girato il film in due città diverse che distano a tremila chilometri l’una dall’altra; Kinshasa, la capitale congolese in cui abitano quindici milioni di persone, e Lubumbashi. Ero interessato a girare il film nella seconda città che ho citato perché non ha un vero “centro” e, inoltre, è affascinante notare che non ci sono autostrade che la colleghino a Kinshasa, come se la gente del luogo volesse preservare la propria identità rispetto a quella della capitale. Ho voluto sperimentare e perché no, giocare, su questa questione geografica.
Quando ho visto il film per la prima volta, mi ha colpito la reazione del pubblico in determinate scene, come quella del pianto collettivo. Ho notato che diverse persone ridevano, ti immaginavi una reazione simile? Era qualcosa di voluto?
Mi piace giocare con l’assurdo e con quel sottotesto comico che si può ricavare da situazioni tragiche. Anche se la scena che citi è piuttosto profonda ed emotiva, ho esagerato un po’ con il contesto, utilizzando diversi linguaggi cinematografici e sperimentando con il tono dell’opera.
Come mai volevi sperimentare proprio su questi aspetti?
Prendi come esempio il personaggio di Tshala, volevo un tipo di umorismo assurdo per lei, vista la sua apparente disconnessione con il resto della popolazione. Questa “caratterizzazione grottesca” si può trovare anche in Mujila, che internalizza quella struttura misogina alla base della società in cui vive e la difende addirittura. Per me è stato interessante analizzare i diversi conflitti interiori e morali dei personaggi.
INT-68
18.04.2024
Una delle opere prime che ci ha più affascinato nella scorsa edizione di Cannes è stata Augure - Ritorno alle origini di Baloji, artista eclettico e pluripremiato musicista di origini congolesi. Il regista prende spunto dalla propria esperienza per raccontare una storia sulla stregoneria unica nel suo genere. Diviso in quattro sezioni distinte, il lungometraggio segue le vicende di diversi personaggi congolesi e il loro legame con il mondo della magia e delle superstizioni.
L’incipit della storia è il sofferto ritorno in Congo di Koffi (Marc Zinga) per presentare la sua compagna alla famiglia. Sofferto poiché, quindici anni prima, l'uomo era fuggito dal suo villaggio perché considerato dagli abitanti del luogo uno “zabolo”, uno stregone. Le sue vicende si intrecceranno con quelle della sorella Tshala (Eliane Umuhire), la madre Mujila (Yves-Marina Gnahoua) e Paco (Marcel Otete Kabeya), un ragazzo di strada, tre personaggi che vivono il medesimo stigma del protagonista. Solo attraverso il sostegno reciproco e la riconciliazione con il proprio passato, potranno liberarsi dalla maledizione che li affligge.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare ed intervistare Baloji, che ci ha parlato delle diverse difficoltà che ha dovuto affrontare durante la fase di produzione, dell’importanza della musica all’interno dell’opera e del perché di determinate scelte stilistiche che caratterizzano il film.
Augure - Ritorno alle origini viene distribuito a partire da oggi nei cinema italiani grazie ad Arthouse, la label di I Wonder Pictures dedicata al cinema d’autore più innovativo.
Quale è stato il punto di partenza di Augure?
Mio padre è venuto mancare nel dicembre del 2019, e il giorno dopo la sua morte tante persone si sono recate nella sua casa per piangere la sua perdita, proprio come succede nel film. Questo pianto collettivo è stato un momento di catarsi, dove abbiamo “liberato” il dolore che avevamo dentro. La stanza era come se fosse “piena” dell’acqua delle nostre lacrime, e dopo aver assistito a quel momento ho pensato che potevo scrivere qualcosa a riguardo. Sono stato a casa per otto settimane e ho scritto la sceneggiatura di Augure. Ho partecipato a diversi camp per sceneggiatori e ho potuto collaborare con scrittori più esperti e anche con diversi produttori. Questi continuavano a dirmi come dovevo scrivere per compiacere le commissioni e i possibili compratori. Ho deciso di non ascoltarli e fare di testa mia perché volevo realizzare il film a modo mio. Le commissioni all’inizio non hanno finanziato il progetto e mi dicevano “devi fare questo e quell’altro per ottenere i soldi” e dentro di me pensavo “oh cavolo”.
E alla fine come hai ottenuto i fondi per il fare il film?
È stato un periodo difficile. In Belgio c’è questa commissione che è disposta a finanziare nuovi progetti, ci ho provato per ben tre volte e mi hanno detto di no. Quindi ho pensato che dovevo arrangiarmi, ho iniziato a produrre e finanziare i miei cortometraggi usando i miei soldi. Ma, allo stesso tempo, i cortometraggi non ricevono una grossa distribuzione… dovevo inventare qualcosa per risolvere la situazione, quindi ho deciso di inserire diverse forme “artistiche” all’interno dei miei lavori, come la musica e la pittura. Mi è andata piuttosto bene e ho iniziato a ricevere diversi riconoscimenti. A quel punto sono tornato dalla commissione belga e non potevano dirmi di no... così sono comunque stati gli unici ad approvare Augure.
Augure è un film piuttosto originale ed audace, quali sono state le critiche che i finanziatori ti hanno rivolto?
Beh, erano del tipo “come cavolo fanno queste persone a creare una fontana con le loro lacrime, è stupido e non finanziamo certa roba”. Oppure criticavano la mia carriera d’artista dicendo che sono solo un musicista e non un cineasta. Capisco leggermente queste critiche, perché bisogna pur sempre tenere in considerazione che il mondo del cinema è mosso da questioni economiche e di business, e a volte i produttori prediligono determinati aspetti rispetto al contenuto del film.
C’è qualche connessione tra Augure e i tuoi precedenti cortometraggi?
Non molte per quanto riguarda le storie e i contenuti, ma l’approccio stilistico ed estetico è simile, più che altro perché sono interessato alla cinestesia: mi piace creare delle connessioni tra il colore, il suono e le sensazioni che si possono provare tramite il loro uso. Per esempio, nel film, ad ogni personaggio è associato un colore diverso. Poi ho voluto anche sperimentare usando diversi stili cinematografici; la sezione che riguarda la madre è stata per lo più ispirata dai lavori di Pedro Costa, mentre per le sezioni incentrate su Paco e Kofi volevo creare un certo contrasto, usando per lo più la camera a mano per le scene con il primo e la steady camera per il secondo. Ho cercato di “giocare” e sperimentare con il mezzo cinematografico più che potevo.
Ora vivi in Belgio, come è stato tornare in Congo per girare il film?
Augure è il quinto progetto che ho girato in Congo ma il primo lungometraggio, è stato piuttosto difficile, soprattutto per le logistiche e il numero di persone con cui dovevo lavorare. È andato tutto liscio per fortuna. Forse la più grande difficoltà è apparsa all’inizio delle riprese, perché abbiamo cercato di replicare il modo in cui si gira in Europa in Africa; per farti un esempio, se un europeo vuole girare a Los Angelese deve seguire certe regole, dettate dai sindacati o da altro, lo stesso in Giappone e via dicendo. La gente pensa che, siccome stiamo girando in Africa, non ci siano delle “regole” da rispettare, e questa è una concezione sbagliata.
Puoi farmi qualche esempio di queste “regole”?
Si certo. Avevo un calendario piuttosto fitto, con soli ventitré giorni di riprese e non potevo permettermi di saltarne neanche uno. Le date combaciavano con il periodo pasquale e il co-produttore locale mi ha detto che non potevo girare il giorno di Pasqua. Ma volevo fare di testa mia e filmare lo stesso... l’autista del pullman con tutto l'equipement per girare si è presentato solo alle due del pomeriggio, e di solito inizio le riprese alle otto del mattino. Gli ho detto “hey amico, sapevi che dovevamo girare presto”, ma lui mi ha fatto capire che rispettare certe regole è davvero fondamentale. Questo scontro culturale ha causato delle incomprensioni.
Ora vorrei chiederti del personaggio di Paco, più che altro perché gli altri tre protagonisti sono connessi da legami famigliari, mentre lui è “solo” un ragazzo di strada. Come mai hai deciso di inserire ed approfondire questo personaggio?
Semplicemente per creare un contrasto con il personaggio di Koffi, sono uno l’immagine speculare dell’altro; ma Paco, a differenza di Koffi, ha accettato il proprio stile di vita da stregone, non lo vede come un difetto, ma più come un qualcosa che possa portare ad un vantaggio.
Vista la complessità narrativa e stilistica del tuo film, mi chiedevo come fossi riuscito a “spiegarlo” ai produttori e alla crew prima dell’inizio delle riprese. Immagino tu abbia utilizzato qualche sostegno audiovisivo insieme alla sceneggiatura.
Si vero, ho dovuto utilizzare diverse moodboards (il regista ride, n.d.r.) e inoltre, per far comprendere meglio i quattro protagonisti, ho creato degli album musicali che rispecchiassero la loro personalità; con Koffi ho voluto ricreare delle sinfonie più “europee”, con Paco volevo trasmettere quelle atmosfere più “di strada” della regione di Kinshasa, mentre con Tshala ho utilizzato ritmi energici, “femminili”, implementando suoni che richiamano l’Africa, ed infine per la madre ho utilizzato composizioni più solenni e riflessive. Queste musiche hanno aiutato gli attori a capire la mia visione e concezione dei personaggi. Ma non solo, queste composizioni sono risultate utili anche per il direttore della fotografia. Una volta sul set, mettevamo la colonna sonora in sottofondo e, accompagnati dal suo ritmo, cercavamo di capire come posizionare la camera, lo stesso per i costumi e le scenografie.
I costumi all’interno del film mi hanno davvero affascinato, avevi qualche reference cinematografica, letteraria o artistica quando li hai disegnati?
Molte, volevo creare questo mix tra modernità e folklore, che rappresenta questo universo mitologico che non esiste di fatto. La creazione di questo mondo non reale è stata dettata anche da una questione logistica, perché abbiamo girato il film in due città diverse che distano a tremila chilometri l’una dall’altra; Kinshasa, la capitale congolese in cui abitano quindici milioni di persone, e Lubumbashi. Ero interessato a girare il film nella seconda città che ho citato perché non ha un vero “centro” e, inoltre, è affascinante notare che non ci sono autostrade che la colleghino a Kinshasa, come se la gente del luogo volesse preservare la propria identità rispetto a quella della capitale. Ho voluto sperimentare e perché no, giocare, su questa questione geografica.
Quando ho visto il film per la prima volta, mi ha colpito la reazione del pubblico in determinate scene, come quella del pianto collettivo. Ho notato che diverse persone ridevano, ti immaginavi una reazione simile? Era qualcosa di voluto?
Mi piace giocare con l’assurdo e con quel sottotesto comico che si può ricavare da situazioni tragiche. Anche se la scena che citi è piuttosto profonda ed emotiva, ho esagerato un po’ con il contesto, utilizzando diversi linguaggi cinematografici e sperimentando con il tono dell’opera.
Come mai volevi sperimentare proprio su questi aspetti?
Prendi come esempio il personaggio di Tshala, volevo un tipo di umorismo assurdo per lei, vista la sua apparente disconnessione con il resto della popolazione. Questa “caratterizzazione grottesca” si può trovare anche in Mujila, che internalizza quella struttura misogina alla base della società in cui vive e la difende addirittura. Per me è stato interessante analizzare i diversi conflitti interiori e morali dei personaggi.