di Omar Franini
NC-162
23.08.2023
Dopo aver dato una panoramica su quella che è stata la 76ª edizione del Festival di Locarno, e cercato di analizzare le scelte della giuria e i vari vincitori, è arrivato il momento di approfondire le pellicole che ci hanno maggiormente colpito. Vi proponiamo quindi una selezione dei titoli presentati in concorso e di alcune opere presenti nelle altre sezioni del Festival.
Baan, di Leonor Teles
Dopo il suo sensazionale lavoro come direttrice della fotografia per João Canijo nei film Viver Mal e Mal Viver, Leonor Teles dirige il suo secondo lungometraggio, Baan, presentato nel Concorso Internazionale. Al centro c’è il “viaggio” emotivo di L., architetto che, appena arrivata a Bangkok, incontra la misteriosa K. innamorandosi presto di lei. Con questa semplice premessa, Teles dirige un’opera che, in un primo momento, potrebbe sembrare la classica storia su una relazione “tossica”, ma che in realtà è in grado di andare oltre, analizzando come la giovane protagonista debba imparare a convivere con la solitudine, aspetto sottolineato dall’uso di una narrativa non lineare. Come già mostrato nei film di Canijo, l’uso della palette di colori e l’impostazione stilistica sono saggiamente adoperate dalla regista per mostrare i diversi salti geo-temporali della storia. Da sottolineare anche le influenze di due grandi maestri del cinema asiatico, Wong Kar-wai e Hou Hsiao-hsien, quest’ultimo omaggiato da Teles in una sequenza identica alla scena iniziale di Millennium Mambo (2001). Baan mette in mostra il grande talento di Leonor Teles, cineasta da tenere sott’occhio nei prossimi anni.
Bonjour la langue, di Paul Vecchiali
Il cineasta francese è venuto a mancare lo scorso gennaio e al Festival di Locarno è stata presentata fuori concorso la sua ultima opera, Bonjour la langue. Dopo non aver visto o parlato con il padre per sei anni, Jean-Luc (Pascal Cervo) decide di fare una visita improvvisa a Charles (interpretato dallo stesso Vecchiali) per cercare di ripristinare il rapporto perso da anni. Quello che segue è un ritratto, intimo e malinconico, sul rimpianto e la mortalità. La mise en scène minimalista è per lo più incentrata sui lunghi dialoghi tra i due protagonisti, che permettono di ricostruire il dramma famigliare e le ragioni di tale separazione. Bonjour la langue raggiunge il suo apice emotivo nella parte finale, dove una rivelazione che Charles fa al figlio acquista, con il senno di poi, un significato più profondo vista la morte del cineasta. Girato in sole ventiquattr’ore e con l’uso di un’unica location, il lavoro fatto da Vecchiali è lodevole e rappresenta il giusto epilogo di una carriera cinematografica prolifica che vanta quasi settanta film.
Essential Truths of the Lake, di Lav Diaz
Durante l’intervista che abbiamo condotto l’anno scorso, Lav Diaz aveva accennato che When the Waves are Gone era solo la prima parte di un progetto più complesso. Tenendo fede alle sue promesse, un paio di settimane fa a Locarno il regista filippino ha presentato Essential Truths of the Lake, che segue ancora una volta le vicende del detective Hermes. Anche questa pellicola viene ambientata durante il periodo della “guerra alla droga” sotto la presidenza di Duterte, il fulcro delle indagini del protagonista riguarda la scomparsa di Esmeralda Stuart, conosciuta come “Aquila delle Filippine”, un’attrice e attivista ecologica probabilmente vista come un nemico politico. Durante le sue ricerche, Hermes entrerà in contatto con diverse realtà, sia illecite che non, come la scena artistica underground, dove spicca un interessante sequenza dove il detective inizia a collaborare con una regista che si sta occupando di un documentario su Esmeralda. Diaz mostra un lato più sperimentale per portare avanti l’ennesima opera politica. Il film, che stupisce sia dal punto di vista narrativo che artistico, presenta diversi formati cinematografici - venendo girato sia in pellicola che in digitale - e vari linguaggi, tra cui la performance teatrale o il già citato documentario, permettendo al cineasta di affrontare la storia in maniera tutt’altro che scontata.
Mademoiselle Kenopsia, di Denis Côté
Una donna vaga tra le mura di un edificio abbandonato, dove si trovi o cosa stia cercando ci è sconosciuto. Continua ad osservare le pareti spoglie e gli spazi aridi fino a quando, all’improvviso, sente un rumore che la infastidisce. La donna prova a cercare delle spiegazioni e telefona a qualcuno, ma dopo poco inizia a porsi dei quesiti sulla propria esistenza. Côté dirige un’opera sperimentale per i suoi standard, dove lo spazio e il tempo della narrazione vengono utilizzati per trasmettere un incessante stato di angoscia e alienazione. La vita in solitudine che sta conducendo la protagonista le sta facendo perdere sempre di più il contatto con la realtà, dettaglio messo in scena dal regista canadese nella migliore sequenza del film, ovvero quando la protagonista incontra una misteriosa figura che compie un monologo sul vizio del fumo proprio mentre sta fumando una sigaretta. Nonostante qualche incertezza legata all’ultima parte, girata “al di fuori” dell’edificio, Mademoiselle Kenopsia ci ha affascinato e, a tratti, ipnotizzato.
Manga D’Terra, di Basil Da Cunha
Manga D’Terra è il terzo lungometraggio di Basil Da Cunha che, come nei suoi lavori precedenti, torna a raccontare una storia sul quartiere di Reboleira. Al centro della storia c’è Rosa, una giovane ventenne che decide di lasciare la propria casa a Capo Verde con l’obbiettivo di cercare un futuro migliore per la sua famiglia. La protagonista capirà presto che la condizione che l’aspetta non è rosea come le sembrava e, dopo una breve esperienza da cameriera, viene licenziata e perde il posto in cui abita. Solo grazie al sostegno delle altre donne della comunità di Reboleira, saprà andare avanti a testa alta. Da Cunha dirige un’opera interessante che mischia il genere musicale ad un approccio neorealista, dove spicca l’uso di attori non professionisti, il cui contributo è stato fondamentale nella lavorazione e produzione del film. Infatti, tramite l’uso della musica tradizionale, il regista rende omaggio agli immigrati di Capo Verde, aggiungendo in questo modo una certa profondità nei personaggi, soprattutto in quello di Rosa, interpretato in maniera convincente da parte dell’attrice Eliana Rosa.
Première Affaire, di Victoria Musiedlak
Nora (Noeé Abita) è una giovane avvocatessa di ventisei anni che viene incaricata del suo primo caso, la difesa di un ragazzo accusato di omicidio. Ma, tutt’un tratto, si ritroverà in un mondo spietato e cinico a cui non era preparata. Première Affaire è un discreto racconto di formazione che mostra una realtà in cui i giovani, nonostante un percorso di studi eccelso, non sono ancora in grado di affrontare la vita lavorativa. La regista, infatti, non nasconde l’ingenuità e le insicurezze della protagonista, non solo in campo lavorativo, ma anche sentimentale. Nora inizierà ad avere una relazione travolgente, e a tratti tossica, con il commissario (Anders Danielsen Lie) con cui sta lavorando. Première Affaire funziona al meglio quando si concentra esclusivamente su come la protagonista stia cercando di affrontare questi nuovi aspetti della sua quotidianità, facendo invece fatica ad esplorare la spietatezza del mestiere di avvocato o a criticare il sistema giudiziario francese.
What Remains, di Ran Huang
Uno dei grandi eventi del Festival è stata la consegna del Leopard Club Award a Stellan Skarsgård e, per tale occasione, è stato proiettato fuori concorso What Remains. Ispirato da una storia vera, il film segue le vicende di Mads Lake (Gustaf Skarsgård), un recluso che confessa degli omicidi di cui non riesce ad avere memoria. La psichiatra Anna Rudebeck (Andrea Riseborough) e il poliziotto Sören Rank (Stellan Skarsgård) cercheranno di ricomporre la verità mettendo a dura prova la loro etica professionale. Infatti, la morbosa ricerca di una risposta, soprattutto da parte di Anna, peggiorerà la fragile condizione di Mads, arrivando fino a manipolare i traumi repressi dell’uomo per ricostruire la verità della vicenda. Se da un lato la decisione di seguire così pedissequamente i tre protagonisti non ha permesso al regista Ran Huang di compiere un discorso più complesso sulla società svedese, dall’altro ha spinto i tre interpreti a trovare la complessità psicologica dietro i loro personaggi. What Remains è un thriller più che solido, ma dalle potenzialità inespresse.
di Omar Franini
NC-162
23.08.2023
Dopo aver dato una panoramica su quella che è stata la 76ª edizione del Festival di Locarno, e cercato di analizzare le scelte della giuria e i vari vincitori, è arrivato il momento di approfondire le pellicole che ci hanno maggiormente colpito. Vi proponiamo quindi una selezione dei titoli presentati in concorso e di alcune opere presenti nelle altre sezioni del Festival.
Baan, di Leonor Teles
Dopo il suo sensazionale lavoro come direttrice della fotografia per João Canijo nei film Viver Mal e Mal Viver, Leonor Teles dirige il suo secondo lungometraggio, Baan, presentato nel Concorso Internazionale. Al centro c’è il “viaggio” emotivo di L., architetto che, appena arrivata a Bangkok, incontra la misteriosa K. innamorandosi presto di lei. Con questa semplice premessa, Teles dirige un’opera che, in un primo momento, potrebbe sembrare la classica storia su una relazione “tossica”, ma che in realtà è in grado di andare oltre, analizzando come la giovane protagonista debba imparare a convivere con la solitudine, aspetto sottolineato dall’uso di una narrativa non lineare. Come già mostrato nei film di Canijo, l’uso della palette di colori e l’impostazione stilistica sono saggiamente adoperate dalla regista per mostrare i diversi salti geo-temporali della storia. Da sottolineare anche le influenze di due grandi maestri del cinema asiatico, Wong Kar-wai e Hou Hsiao-hsien, quest’ultimo omaggiato da Teles in una sequenza identica alla scena iniziale di Millennium Mambo (2001). Baan mette in mostra il grande talento di Leonor Teles, cineasta da tenere sott’occhio nei prossimi anni.
Bonjour la langue, di Paul Vecchiali
Il cineasta francese è venuto a mancare lo scorso gennaio e al Festival di Locarno è stata presentata fuori concorso la sua ultima opera, Bonjour la langue. Dopo non aver visto o parlato con il padre per sei anni, Jean-Luc (Pascal Cervo) decide di fare una visita improvvisa a Charles (interpretato dallo stesso Vecchiali) per cercare di ripristinare il rapporto perso da anni. Quello che segue è un ritratto, intimo e malinconico, sul rimpianto e la mortalità. La mise en scène minimalista è per lo più incentrata sui lunghi dialoghi tra i due protagonisti, che permettono di ricostruire il dramma famigliare e le ragioni di tale separazione. Bonjour la langue raggiunge il suo apice emotivo nella parte finale, dove una rivelazione che Charles fa al figlio acquista, con il senno di poi, un significato più profondo vista la morte del cineasta. Girato in sole ventiquattr’ore e con l’uso di un’unica location, il lavoro fatto da Vecchiali è lodevole e rappresenta il giusto epilogo di una carriera cinematografica prolifica che vanta quasi settanta film.
Essential Truths of the Lake, di Lav Diaz
Durante l’intervista che abbiamo condotto l’anno scorso, Lav Diaz aveva accennato che When the Waves are Gone era solo la prima parte di un progetto più complesso. Tenendo fede alle sue promesse, un paio di settimane fa a Locarno il regista filippino ha presentato Essential Truths of the Lake, che segue ancora una volta le vicende del detective Hermes. Anche questa pellicola viene ambientata durante il periodo della “guerra alla droga” sotto la presidenza di Duterte, il fulcro delle indagini del protagonista riguarda la scomparsa di Esmeralda Stuart, conosciuta come “Aquila delle Filippine”, un’attrice e attivista ecologica probabilmente vista come un nemico politico. Durante le sue ricerche, Hermes entrerà in contatto con diverse realtà, sia illecite che non, come la scena artistica underground, dove spicca un interessante sequenza dove il detective inizia a collaborare con una regista che si sta occupando di un documentario su Esmeralda. Diaz mostra un lato più sperimentale per portare avanti l’ennesima opera politica. Il film, che stupisce sia dal punto di vista narrativo che artistico, presenta diversi formati cinematografici - venendo girato sia in pellicola che in digitale - e vari linguaggi, tra cui la performance teatrale o il già citato documentario, permettendo al cineasta di affrontare la storia in maniera tutt’altro che scontata.
Mademoiselle Kenopsia, di Denis Côté
Una donna vaga tra le mura di un edificio abbandonato, dove si trovi o cosa stia cercando ci è sconosciuto. Continua ad osservare le pareti spoglie e gli spazi aridi fino a quando, all’improvviso, sente un rumore che la infastidisce. La donna prova a cercare delle spiegazioni e telefona a qualcuno, ma dopo poco inizia a porsi dei quesiti sulla propria esistenza. Côté dirige un’opera sperimentale per i suoi standard, dove lo spazio e il tempo della narrazione vengono utilizzati per trasmettere un incessante stato di angoscia e alienazione. La vita in solitudine che sta conducendo la protagonista le sta facendo perdere sempre di più il contatto con la realtà, dettaglio messo in scena dal regista canadese nella migliore sequenza del film, ovvero quando la protagonista incontra una misteriosa figura che compie un monologo sul vizio del fumo proprio mentre sta fumando una sigaretta. Nonostante qualche incertezza legata all’ultima parte, girata “al di fuori” dell’edificio, Mademoiselle Kenopsia ci ha affascinato e, a tratti, ipnotizzato.
Manga D’Terra, di Basil Da Cunha
Manga D’Terra è il terzo lungometraggio di Basil Da Cunha che, come nei suoi lavori precedenti, torna a raccontare una storia sul quartiere di Reboleira. Al centro della storia c’è Rosa, una giovane ventenne che decide di lasciare la propria casa a Capo Verde con l’obbiettivo di cercare un futuro migliore per la sua famiglia. La protagonista capirà presto che la condizione che l’aspetta non è rosea come le sembrava e, dopo una breve esperienza da cameriera, viene licenziata e perde il posto in cui abita. Solo grazie al sostegno delle altre donne della comunità di Reboleira, saprà andare avanti a testa alta. Da Cunha dirige un’opera interessante che mischia il genere musicale ad un approccio neorealista, dove spicca l’uso di attori non professionisti, il cui contributo è stato fondamentale nella lavorazione e produzione del film. Infatti, tramite l’uso della musica tradizionale, il regista rende omaggio agli immigrati di Capo Verde, aggiungendo in questo modo una certa profondità nei personaggi, soprattutto in quello di Rosa, interpretato in maniera convincente da parte dell’attrice Eliana Rosa.
Première Affaire, di Victoria Musiedlak
Nora (Noeé Abita) è una giovane avvocatessa di ventisei anni che viene incaricata del suo primo caso, la difesa di un ragazzo accusato di omicidio. Ma, tutt’un tratto, si ritroverà in un mondo spietato e cinico a cui non era preparata. Première Affaire è un discreto racconto di formazione che mostra una realtà in cui i giovani, nonostante un percorso di studi eccelso, non sono ancora in grado di affrontare la vita lavorativa. La regista, infatti, non nasconde l’ingenuità e le insicurezze della protagonista, non solo in campo lavorativo, ma anche sentimentale. Nora inizierà ad avere una relazione travolgente, e a tratti tossica, con il commissario (Anders Danielsen Lie) con cui sta lavorando. Première Affaire funziona al meglio quando si concentra esclusivamente su come la protagonista stia cercando di affrontare questi nuovi aspetti della sua quotidianità, facendo invece fatica ad esplorare la spietatezza del mestiere di avvocato o a criticare il sistema giudiziario francese.
What Remains, di Ran Huang
Uno dei grandi eventi del Festival è stata la consegna del Leopard Club Award a Stellan Skarsgård e, per tale occasione, è stato proiettato fuori concorso What Remains. Ispirato da una storia vera, il film segue le vicende di Mads Lake (Gustaf Skarsgård), un recluso che confessa degli omicidi di cui non riesce ad avere memoria. La psichiatra Anna Rudebeck (Andrea Riseborough) e il poliziotto Sören Rank (Stellan Skarsgård) cercheranno di ricomporre la verità mettendo a dura prova la loro etica professionale. Infatti, la morbosa ricerca di una risposta, soprattutto da parte di Anna, peggiorerà la fragile condizione di Mads, arrivando fino a manipolare i traumi repressi dell’uomo per ricostruire la verità della vicenda. Se da un lato la decisione di seguire così pedissequamente i tre protagonisti non ha permesso al regista Ran Huang di compiere un discorso più complesso sulla società svedese, dall’altro ha spinto i tre interpreti a trovare la complessità psicologica dietro i loro personaggi. What Remains è un thriller più che solido, ma dalle potenzialità inespresse.