
di Lorenzo Sartor
NC-319
07.07.2025
Il cinema contemporaneo recente ha più volte dimostrato la sua reverenza nei confronti del cinema italiano di genere degli anni ’60/’70, omaggiando autori come Mario Bava e Lucio Fulci e rielaborando i codici delle loro opere alla luce di una consapevolezza post-moderna. Il cinema di questi autori ha trovato fortuna non solo grazie alla creazione di immaginari iconici e di motivi ricorrenti che ancora oggi vengono riciclati e riprodotti, ma anche per l’attenzione rivolta alla pulsione scopica dello spettatore, alle sue tendenze voyeuristiche e a quella che i teorici definiscono come “euforia dello sguardo”.
Secondo Fredic Jameson questa euforia è una reazione da parte dello spettatore rispetto alla realtà che lo circonda, in cui egli si sente perennemente osservato e controllato. Una volta presa consapevolezza del potere del proprio sguardo lo spettatore riesce a raggiungere un “sublime isterico” che in questi film veniva esplicitato proprio dall’accumularsi di punti di vista, di soggettive impossibili e altri strumenti che restituivano stilisticamente la frammentazione identitaria e scopica provata dall’uomo moderno.
Tra i registi che hanno tentato di omaggiare e radicalizzare le istanze che hanno contraddistinto questa fase della cinematografia italiana, la coppia di cineasti belga composta da Hélène Cattet e Bruno Forzani si è distinta per le modalità attraverso cui hanno calato i codici del gotico baviano, del giallo all’italiana e di altri sottogeneri, all’interno di dimensioni oniriche e impressioniste del cinema da festival, creando degli esercizi di stile in cui il piacere della narrazione viene quasi sempre sottratto allo spettatore, lasciandolo a giocare con i fantasmi di storie di cui possono rimanere solo ombre e suggestioni.
Per quanto ambigui e illeggibili possano sembrare i meccanismi su cui lavorano, alla base del cinema dei due autori possiamo trovare la volontà di esplicitare il disvelamento del dispositivo cinematografico e la natura artificiale dello sguardo della macchina da presa, nonché le istanze psicologiche e la tensione libidica dei personaggi, da sempre sedimentata sotto la pelle di film come Sei donne per l’assassino (Mario Bava, 1964) o Una lucertola con la pelle di donna (Lucio Fulci, 1971).


Florinda Bolkan in Una lucertola con la pelle di donna (1971) di Lucio Fulci
L’uscita nelle sale della loro nuova opera, Reflection in a Dead Diamond (Reflet dans un diamant mort, 2025) rappresenta quindi l’occasione per ritornare alle suggestioni della loro breve ma intrigante carriera, riflettendo sul senso di ritornare oggi alle immagini del passato e di come è cambiato il nostro modo di guardare a immaginari ormai così iconici e quasi sacralizzati.
Le istanze freudiane che hanno costituito il fulcro tematico del giallo all’italiana in film come 4 mosche di velluto grigio (Dario Argento, 1971) raggiungono la loro massima esibizione nella prima opera della coppia, Amer (2009), in cui la tripartizione dinamica della psiche, divisa in Es, Io e Super-Io, viene ripercorsa nella struttura narrativa del film, distinta in tre atti rappresentanti altrettante fasi della vita del personaggio di Ana.
In questo viaggio muto e quasi interamente ancorato all’esperienza soggettiva della protagonista, lo sguardo rappresenta il centro della costruzione della sua identità e delle sue pulsioni sessuali. La prima parte della pellicola altro non è che un lungo labirinto orrorifico - che quasi richiama alla vaghezza astratta di La Chute de la Maison Usher (La caduta della casa Usher , 1928) di Jean Epstein - in cui lo sviluppo della psicosessualità femminile passa dall’affrontare l’invidia del pene e il Complesso di Elettra (con cui la bambina viene a capo attraverso il confronto con l’anonimo padre, nell’identificazione scopica con la madre e nel rapporto grottesco con l’icona del defunto nonno), portando ogni scena a venire interamente incentrata sulle soggettive del personaggio.
I colori si fanno accesi come nel più estremo dei gialli all’italiana, i collegamenti tra una stanza e l’altra della villa diventano quasi indecifrabili e aleatori e i ricordi d’infanzia della ragazza vengono contaminati da un sentimento arcano, da un’irrequietezza provocata proprio dal non aver ancora eluso il trauma dei propri incubi infantili. Così nel terzo atto il killer si palesa e si impossessa del ruolo di soggetto-guardante dominante sull’oggetto-donna guardata, in un ultimo lungo inseguimento in cui la villa simbolo del passato della protagonista diventa un museo di suggestioni cinematografiche defunte.

Reflection in a Dead Diamond (Reflet dans un diamant mort, 2025)
La punizione finale per la donna passa attraverso la perdita del proprio sguardo e l’imposizione di uno maschile, facendo diventare la pellicola una sorta di auto-dichiarata manifestazione delle modalità con cui nel giallo all’italiana il male gaze riusciva a imporsi pure sulla visione della spettatrice e sull’identificazione con le vittime femminili. Perché, infatti, la tensione verso il sesso presente nel cinema di genere ha spesso coinciso con una tensione verso la morte e il sadismo e ciò viene ancora più esposto nella successiva opera di Cattet-Forzani, Lacrime di sangue (L’Etrage Couleur des larmes de ton corps, 2013).
L’onirica ricerca da parte di un uomo (Klaus Tange) della propria moglie verrà così narrata simultaneamente alle immagini fisse, reminescenti de La Jetée (Chris Marker, 1962), in cui si assiste all’avversa sorte della donna, in un caotico susseguirsi di vicoli ciechi e ridondanze che costituisce esclusivamente un pretesto per permettere ai due registi di palesare la vicinanza tra la psiche frammentata del protagonsita e i funzionamenti del dispositivo cinematografico. Emblematica è la dissolvenza incrociata che unisce il nastro di una registrazione all’occhio che gira del personaggio, mostrando come la sua ossessione di scoprire il mistero dietro la scomparsa della coniuge passi inevitabilmente attraverso la sua frustrazione psicosessuale e la sua impossibilità di ricostruire un’immagine coerente della persona perduta.
Come nel noir classico i personaggi maschili investigavano sulla donna-feticcio cercando di ricostruire la loro figura e di venire a capo con il trauma della castrazione, anche qui la ricerca senza uscita del protagonista si rivela un disorientante viaggio in un’identità maschile che senza il suo io-femminile non sembra riuscire a ritrovare un’unità. Come se fosse un Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966) contaminato dai codici del giallo argentiano, più il protagonista si cala nel mistero, più le immagini che ha davanti cominciano a disfarsi e a ripetersi e nemmeno lo strumento della registrazione sonora riesce più a rivelargli ciò che progressivamente viene rimosso dalla sua mente. L’improvvisato detective deve fare i conti con l’indefinitezza di ciò che osserva, in un’operazione di sovversione del canone classico in cui il protagonista diventa oggetto del suo stesso vedere e perde così la capacità di dominare quanto lo circonda.

Una sequenza di Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni
Quella donna (che già nel nome Laura richiama sia alla femme fatale-oggetto di piacere dell’omonimo film di Otto Preminger che alla vittima del mistero che ruota attorno alla celebre serie televisiva di David Lynch) verrà così smembrata, disseminata, indagata, fino a diventare matrioska di infinite donne diverse e a liberarsi della capacità del male gaze di cristallizzarla in un’icona ben definita. Dell’amata rimane così solo il fantasma di un’immagine che non appartiene più all’uomo come soggetto dominante e la rievocazione virtuale di un trauma riguardante un’altrettanto anonima figura materna, che risiede oltre una porta che l’Io bambino dell’uomo continua a desiderare di raggiungere.
Le modalità attraverso cui Cattet e Forzani deformano le dimensioni spaziali e temporali delle loro opere ritornano nel successivo Laissez bronzer les cadavres (2017), film in unità di luogo, memore questa volta del lascito dello spaghetti-western. Già autori come Leone o Corbucci si emancipavano dal western classico per il modo in cui distendevano la lineare successione temporale degli scontri, creando un tempo mitico e indefinito che permetteva al pubblico di esperire la percezione soggettiva dei personaggi.
I due cineasti belga portano così questa decostruzione temporale all’estremo, suddividendo ogni momento in tanti piccoli frammenti che restituscono la globalità di punti di vista che invece lo spaghetti-western riduceva a due o tre soggetti dominanti rispetto agli altri. Il panorama in cui agiscono i registi è quello del sovraccarico di sguardi della contemporaneità, in un caleidoscopio di flashback e ripetizioni in cui la parola viene sostituita dal gesto puro e le identità dei vari caratteri non sono definiti dai dialoghi o dalla narrazione, ma dalle dinamiche di potere che si instaurano nell’atto stesso del vedere e nell’essere visti. Più che a una lotta tra due pistoleri si assiste a una lotta tra controcampi, tra occhi che oggettivano e corpi oggettificati.

Laissez bronzer les cadavres (2017)
Anche in questo caso si assottiglia sempre di più la linea di demarcazione tra morte e sessualità: seni sprizzano champagne e tacchi a spillo penetrano negli occhi dei pistoleri uomini, mentre sagome di donne nude si ergono sopra le scenografie come per poterle dominare. Ancor più esibito è qui il dispositivo cinematografico, l’artificiosa natura dell’ambiente in cui i personaggi sono calati come formiche, mentre dall’alto l’occhio di Dio (ossia l’occhio meccanico dei due registi) si erge su di loro per condurli verso un destino inevitabile a chiunque sia guidato dal piacere e dal desiderio edonistico.
In questo showdown esoterico in cui pure la sensazione del calore incontrastabile opprime lo spettatore, i “corpi abbronzati” del titolo non sono solo quelli delle vittime del massacro. Il cadavere reale è quello del vecchio cinema di genere italiano, che molti registi tentano di replicare (attraverso lettere d’amore per il passato che finiscono più per assomigliare ad atti poco lucidi di necrofilia di immaginari deceduti), ma che solo i due cineasti belga guardano con la stessa tensione in bilico tra piacere sessuale e morte con cui i protagonisti dei loro film guardano e vengono guardati.
Quel cinema del passato nella filmografia di Cattet e Forzani altro non è che una casa di fantasmi, un simulacro di un immaginario in stato di decomposizione, un riflesso in un diamante morto che noi inevitabilmente guardiamo con lo stesso piacere feticistico con cui si spolverano vecchi mobili impolverati o con cui si contemplano le rovine di una civiltà passata. Del vecchio cinema di Bava, Argento e Fulci in film come Amer e Lacrime di Sangue non rimane altro che lo scheletro, scardinato da qualsiasi contesto narrativo e destinato a rimanere nella memoria come pura immagine.
Allo stesso modo in cui il protagonista del loro nuovo film tenterà di trovare una risposta agli enigmi di una memoria frantumata e a comprendere i limiti tra realtà e finzione, Cattet e Forzani continuano ancora adesso a trovare il punto d’incontro tra l’ossessione voyeuristica verso i fantasmi del vecchio cinema e la nuova consapevolezza dell’epoca postmoderna. D’altro canto, lo stesso Ray Bradbury diceva: “Si fa il cinema con i morti. Si prendono i morti, si fanno caminare e questo è il cinema”.

Amer (2009)
di Lorenzo Sartor
NC-319
07.07.2025

Il cinema contemporaneo recente ha più volte dimostrato la sua reverenza nei confronti del cinema italiano di genere degli anni ’60/’70, omaggiando autori come Mario Bava e Lucio Fulci e rielaborando i codici delle loro opere alla luce di una consapevolezza post-moderna. Il cinema di questi autori ha trovato fortuna non solo grazie alla creazione di immaginari iconici e di motivi ricorrenti che ancora oggi vengono riciclati e riprodotti, ma anche per l’attenzione rivolta alla pulsione scopica dello spettatore, alle sue tendenze voyeuristiche e a quella che i teorici definiscono come “euforia dello sguardo”.
Secondo Fredic Jameson questa euforia è una reazione da parte dello spettatore rispetto alla realtà che lo circonda, in cui egli si sente perennemente osservato e controllato. Una volta presa consapevolezza del potere del proprio sguardo lo spettatore riesce a raggiungere un “sublime isterico” che in questi film veniva esplicitato proprio dall’accumularsi di punti di vista, di soggettive impossibili e altri strumenti che restituivano stilisticamente la frammentazione identitaria e scopica provata dall’uomo moderno.
Tra i registi che hanno tentato di omaggiare e radicalizzare le istanze che hanno contraddistinto questa fase della cinematografia italiana, la coppia di cineasti belga composta da Hélène Cattet e Bruno Forzani si è distinta per le modalità attraverso cui hanno calato i codici del gotico baviano, del giallo all’italiana e di altri sottogeneri, all’interno di dimensioni oniriche e impressioniste del cinema da festival, creando degli esercizi di stile in cui il piacere della narrazione viene quasi sempre sottratto allo spettatore, lasciandolo a giocare con i fantasmi di storie di cui possono rimanere solo ombre e suggestioni.
Per quanto ambigui e illeggibili possano sembrare i meccanismi su cui lavorano, alla base del cinema dei due autori possiamo trovare la volontà di esplicitare il disvelamento del dispositivo cinematografico e la natura artificiale dello sguardo della macchina da presa, nonché le istanze psicologiche e la tensione libidica dei personaggi, da sempre sedimentata sotto la pelle di film come Sei donne per l’assassino (Mario Bava, 1964) o Una lucertola con la pelle di donna (Lucio Fulci, 1971).

Florinda Bolkan in Una lucertola con la pelle di donna (1971) di Lucio Fulci
L’uscita nelle sale della loro nuova opera, Reflection in a Dead Diamond (Reflet dans un diamant mort, 2025) rappresenta quindi l’occasione per ritornare alle suggestioni della loro breve ma intrigante carriera, riflettendo sul senso di ritornare oggi alle immagini del passato e di come è cambiato il nostro modo di guardare a immaginari ormai così iconici e quasi sacralizzati.
Le istanze freudiane che hanno costituito il fulcro tematico del giallo all’italiana in film come 4 mosche di velluto grigio (Dario Argento, 1971) raggiungono la loro massima esibizione nella prima opera della coppia, Amer (2009), in cui la tripartizione dinamica della psiche, divisa in Es, Io e Super-Io, viene ripercorsa nella struttura narrativa del film, distinta in tre atti rappresentanti altrettante fasi della vita del personaggio di Ana.
In questo viaggio muto e quasi interamente ancorato all’esperienza soggettiva della protagonista, lo sguardo rappresenta il centro della costruzione della sua identità e delle sue pulsioni sessuali. La prima parte della pellicola altro non è che un lungo labirinto orrorifico - che quasi richiama alla vaghezza astratta di La Chute de la Maison Usher (La caduta della casa Usher , 1928) di Jean Epstein - in cui lo sviluppo della psicosessualità femminile passa dall’affrontare l’invidia del pene e il Complesso di Elettra (con cui la bambina viene a capo attraverso il confronto con l’anonimo padre, nell’identificazione scopica con la madre e nel rapporto grottesco con l’icona del defunto nonno), portando ogni scena a venire interamente incentrata sulle soggettive del personaggio.
I colori si fanno accesi come nel più estremo dei gialli all’italiana, i collegamenti tra una stanza e l’altra della villa diventano quasi indecifrabili e aleatori e i ricordi d’infanzia della ragazza vengono contaminati da un sentimento arcano, da un’irrequietezza provocata proprio dal non aver ancora eluso il trauma dei propri incubi infantili. Così nel terzo atto il killer si palesa e si impossessa del ruolo di soggetto-guardante dominante sull’oggetto-donna guardata, in un ultimo lungo inseguimento in cui la villa simbolo del passato della protagonista diventa un museo di suggestioni cinematografiche defunte.

Reflection in a Dead Diamond (Reflet dans un diamant mort, 2025)
La punizione finale per la donna passa attraverso la perdita del proprio sguardo e l’imposizione di uno maschile, facendo diventare la pellicola una sorta di auto-dichiarata manifestazione delle modalità con cui nel giallo all’italiana il male gaze riusciva a imporsi pure sulla visione della spettatrice e sull’identificazione con le vittime femminili. Perché, infatti, la tensione verso il sesso presente nel cinema di genere ha spesso coinciso con una tensione verso la morte e il sadismo e ciò viene ancora più esposto nella successiva opera di Cattet-Forzani, Lacrime di sangue (L’Etrage Couleur des larmes de ton corps, 2013).
L’onirica ricerca da parte di un uomo (Klaus Tange) della propria moglie verrà così narrata simultaneamente alle immagini fisse, reminescenti de La Jetée (Chris Marker, 1962), in cui si assiste all’avversa sorte della donna, in un caotico susseguirsi di vicoli ciechi e ridondanze che costituisce esclusivamente un pretesto per permettere ai due registi di palesare la vicinanza tra la psiche frammentata del protagonsita e i funzionamenti del dispositivo cinematografico. Emblematica è la dissolvenza incrociata che unisce il nastro di una registrazione all’occhio che gira del personaggio, mostrando come la sua ossessione di scoprire il mistero dietro la scomparsa della coniuge passi inevitabilmente attraverso la sua frustrazione psicosessuale e la sua impossibilità di ricostruire un’immagine coerente della persona perduta.
Come nel noir classico i personaggi maschili investigavano sulla donna-feticcio cercando di ricostruire la loro figura e di venire a capo con il trauma della castrazione, anche qui la ricerca senza uscita del protagonista si rivela un disorientante viaggio in un’identità maschile che senza il suo io-femminile non sembra riuscire a ritrovare un’unità. Come se fosse un Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966) contaminato dai codici del giallo argentiano, più il protagonista si cala nel mistero, più le immagini che ha davanti cominciano a disfarsi e a ripetersi e nemmeno lo strumento della registrazione sonora riesce più a rivelargli ciò che progressivamente viene rimosso dalla sua mente. L’improvvisato detective deve fare i conti con l’indefinitezza di ciò che osserva, in un’operazione di sovversione del canone classico in cui il protagonista diventa oggetto del suo stesso vedere e perde così la capacità di dominare quanto lo circonda.

Una sequenza di Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni
Quella donna (che già nel nome Laura richiama sia alla femme fatale-oggetto di piacere dell’omonimo film di Otto Preminger che alla vittima del mistero che ruota attorno alla celebre serie televisiva di David Lynch) verrà così smembrata, disseminata, indagata, fino a diventare matrioska di infinite donne diverse e a liberarsi della capacità del male gaze di cristallizzarla in un’icona ben definita. Dell’amata rimane così solo il fantasma di un’immagine che non appartiene più all’uomo come soggetto dominante e la rievocazione virtuale di un trauma riguardante un’altrettanto anonima figura materna, che risiede oltre una porta che l’Io bambino dell’uomo continua a desiderare di raggiungere.
Le modalità attraverso cui Cattet e Forzani deformano le dimensioni spaziali e temporali delle loro opere ritornano nel successivo Laissez bronzer les cadavres (2017), film in unità di luogo, memore questa volta del lascito dello spaghetti-western. Già autori come Leone o Corbucci si emancipavano dal western classico per il modo in cui distendevano la lineare successione temporale degli scontri, creando un tempo mitico e indefinito che permetteva al pubblico di esperire la percezione soggettiva dei personaggi.
I due cineasti belga portano così questa decostruzione temporale all’estremo, suddividendo ogni momento in tanti piccoli frammenti che restituscono la globalità di punti di vista che invece lo spaghetti-western riduceva a due o tre soggetti dominanti rispetto agli altri. Il panorama in cui agiscono i registi è quello del sovraccarico di sguardi della contemporaneità, in un caleidoscopio di flashback e ripetizioni in cui la parola viene sostituita dal gesto puro e le identità dei vari caratteri non sono definiti dai dialoghi o dalla narrazione, ma dalle dinamiche di potere che si instaurano nell’atto stesso del vedere e nell’essere visti. Più che a una lotta tra due pistoleri si assiste a una lotta tra controcampi, tra occhi che oggettivano e corpi oggettificati.

Laissez bronzer les cadavres (2017)
Anche in questo caso si assottiglia sempre di più la linea di demarcazione tra morte e sessualità: seni sprizzano champagne e tacchi a spillo penetrano negli occhi dei pistoleri uomini, mentre sagome di donne nude si ergono sopra le scenografie come per poterle dominare. Ancor più esibito è qui il dispositivo cinematografico, l’artificiosa natura dell’ambiente in cui i personaggi sono calati come formiche, mentre dall’alto l’occhio di Dio (ossia l’occhio meccanico dei due registi) si erge su di loro per condurli verso un destino inevitabile a chiunque sia guidato dal piacere e dal desiderio edonistico.
In questo showdown esoterico in cui pure la sensazione del calore incontrastabile opprime lo spettatore, i “corpi abbronzati” del titolo non sono solo quelli delle vittime del massacro. Il cadavere reale è quello del vecchio cinema di genere italiano, che molti registi tentano di replicare (attraverso lettere d’amore per il passato che finiscono più per assomigliare ad atti poco lucidi di necrofilia di immaginari deceduti), ma che solo i due cineasti belga guardano con la stessa tensione in bilico tra piacere sessuale e morte con cui i protagonisti dei loro film guardano e vengono guardati.
Quel cinema del passato nella filmografia di Cattet e Forzani altro non è che una casa di fantasmi, un simulacro di un immaginario in stato di decomposizione, un riflesso in un diamante morto che noi inevitabilmente guardiamo con lo stesso piacere feticistico con cui si spolverano vecchi mobili impolverati o con cui si contemplano le rovine di una civiltà passata. Del vecchio cinema di Bava, Argento e Fulci in film come Amer e Lacrime di Sangue non rimane altro che lo scheletro, scardinato da qualsiasi contesto narrativo e destinato a rimanere nella memoria come pura immagine.
Allo stesso modo in cui il protagonista del loro nuovo film tenterà di trovare una risposta agli enigmi di una memoria frantumata e a comprendere i limiti tra realtà e finzione, Cattet e Forzani continuano ancora adesso a trovare il punto d’incontro tra l’ossessione voyeuristica verso i fantasmi del vecchio cinema e la nuova consapevolezza dell’epoca postmoderna. D’altro canto, lo stesso Ray Bradbury diceva: “Si fa il cinema con i morti. Si prendono i morti, si fanno caminare e questo è il cinema”.

Amer (2009)