
di Omar Franini
NC-360
02.11.2025
“Autumn night falls over the beach of Gaza
Planes are bombing destruction, destruction
Look the IDF is crossing the line to annihilate the swastika-bearers
In another year there will be nothing there
and we will safely return to our homes
Within a year we will annihilate everyone
and then we will return to plow our fields
And we will remember everyone
the pretty and the pure
We will never let our hearts forget a friendship like that
Love sacrificed with blood
You will return and bloom amongst us…”
Le parole appena riportate sono tratte dal brano, se così si può definire, We are the children of the victory generation, una raccapricciante campagna di propaganda dell’organizzazione israeliana The Civil Front che nel novembre 2023 pubblicò un video in cui diversi bambini inneggiano a questo testo, una versione alterata di The Brotherhood (HaRe’ut), scritto dal poeta Haim Gouri nel 1947, che trasforma il ricordo in minaccia. Questo brano, nel suo tono infantile e al contempo terrificante, stabilisce un collegamento diretto con il tema centrale di Yes di Nadav Lapid, ovvero l’uso perverso della parola e della memoria come strumenti di legittimazione della violenza.
Questa atmosfera di distorsione emerge nel nuovo film del cineasta israeliano, dove il protagonista Y., artista cinico e incline al kitsch della classe superiore, riceve l’incarico di scrivere un nuovo inno nazionale che celebri l’identità israeliana. Le frasi citate, terribili e minacciose, sono proprio quelle “proposte” da Y., trasformando l’atto creativo in uno specchio inquietante della propaganda e ponendo lo spettatore davanti a una domanda morale centrale: fino a che punto le parole che pretendono di incarnare l’identità di un Paese possono legittimare la violenza e la memoria collettiva senza tradire la coscienza individuale?

Y. e Yasmine mentre "intrattengono" l’elite israeliana
Il cinema di Nadav Lapid ruota attorno al tema dell’identità, intesa come spazio di conflitto tra appartenenza nazionale, lingua e memoria personale. Le sue opere, spesso filtrate da esperienze autobiografiche, esplorano la tensione tra individuo e collettività, tra il bisogno di appartenenza e il desiderio di distacco. Dopo Synonyms (2019), premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e incentrato su un giovane israeliano che si trasferisce a Parigi per rinnegare le proprie origini e reinventarsi attraverso una nuova lingua, Lapid amplia la riflessione sull’artista e sul suo ruolo nel contesto politico e culturale israeliano, interrogandosi sul rapporto tra libertà espressiva e censura. Questo interesse per la figura dell’artista e per le tensioni tra sfera individuale e dimensione collettiva emerge con forza in Ahed’s Knee (2021), vincitore del Prix du Jury al Festival di Cannes. Il film segue Y., un regista israeliano, alter ego di Lapid, che si reca in un remoto villaggio del deserto per presentare uno dei suoi lavori. Qui, l’invito di una funzionaria del Ministero della Cultura a firmare un modulo che limita i temi di discussione si trasforma in una metafora di una censura silenziosa e pervasiva. Parallelamente, Y. è tormentato dalla malattia della madre, figura che incarna il legame affettivo e la responsabilità verso le proprie radici.
All’interno della narrazione, il film che Y. sta preparando racconta la storia di Ahed Tamimi, giovane attivista palestinese e simbolo di resistenza. Con questa scelta, Lapid interroga il ruolo dell’artista israeliano di fronte alla violenza politica e al conflitto etico della rappresentazione: chi ha il diritto di raccontare l’altro? E quanto la volontà di comprendere può sconfinare nell’appropriazione o nella colpa? La tensione diventa un campo di battaglia interiore, dove l’autocoscienza artistica si misura con complicità e indifferenza. Una delle immagini più potenti del film è quella dei peperoni marci lasciati ad essiccare nel deserto, ancora rossi e brillanti all’esterno, privi di vita all’interno, simbolo di un paese che, una volta, "portava frutti", ma che ora è corrotto dall’interno. Come nel testo di Yes, dove la parola poetica viene piegata alla retorica della violenza, anche nel suo film precedente Lapid mostra una superficie seducente che nasconde un processo di disfacimento morale. Con Ahed’s Knee, il regista radicalizza il proprio discorso sull’identità e sul potere, trasformando l’artista in un corpo esposto al conflitto morale del proprio tempo. Il film brucia di rabbia e disillusione, senza cercare catarsi, mira a ferire, scuotere, mettere a nudo le contraddizioni di una nazione che si specchia nella propria rovina. Se la critica era già esplicita in forma e linguaggio, con Yes Lapid compie un passo ulteriore, spingendosi in un territorio quasi nauseabondo, deformato e saturo fino all’eccesso, come se il cinema dovesse ingoiare la propria ossessione per poterla espellere.

Una sequenza del lungometraggio
L’eccesso lapidiano emerge già nel primo capitolo del film, “The Good Life”, dove nell'ouverture Y. e sua moglie Yasmine partecipano a una festa destinata a intrattenere l’élite israeliana. Sulle note di Be My Lover, lo stile flamboyant del regista è in piena evidenza con la macchina da presa che si muove quasi incontrollata per trasmettere caos, esuberanza e decadenza morale. Y. è un artista alla mercé di mecenati che, avendo acquisito leve sul suo corpo e immagine, fanno emergere perversioni che normalmente resterebbero nascoste nella quotidianità. La festa, con la sua opulenza e il simultaneo allarme di guerra, simboleggia il contrasto tra bellezza apparente e decadenza morale, tra normalità e devastazione, ponendo lo spettatore davanti alla complessità della percezione della guerra in Israele. Il confronto tra i due Y. di Ahed’s Knee e Yes rivela quindi una trasformazione radicale nella visione di Lapid sul ruolo dell’artista. Nel primo film, Y. è un corpo in rivolta, attraversato da una furia incontrollabile contro il potere e la censura, un artista che ancora crede nella possibilità del gesto, del grido, della protesta come atto di resistenza.
In Yes, invece, Lapid abbandona quella “fantasia della rivolta” per spingersi in un territorio più desolato e contemporaneo, quello della sottomissione. Il nuovo Y. è il primo protagonista davvero passivo del suo cinema, non più colui che sbatte contro porte chiuse, ma che cerca di strisciare attraverso l’unica porta rimasta socchiusa e che si chiede “hai dei limiti puttana?” dopo aver canticchiato le macabre parole citate all’inizio sopra le sinfonie di Bach. È un artista che accetta tutto, si dona interamente, ma il cui desiderio e volontà sono ormai sterilizzati. Nei suoi movimenti - danze, gesti convulsi, apparente vitalità - resta un’energia fisica, ma svuotata di direzione, come se fosse rimasto solo un riflesso meccanico. Lapid sembra dirci che l’epoca della protesta è finita, e che l’artista contemporaneo deve misurarsi con la resa come unica forma possibile di verità, in un contesto dove il potere e la violenza definiscono la morale collettiva.
Yes nasce da una sceneggiatura scritta prima del 7 ottobre 2023, prima degli attacchi di Hamas e della conseguente escalation militare israeliana che ha portato al genocidio palestinese. Lapid, a Parigi, non intendeva realizzare un film percepito come politico. Tuttavia, la violenza di quel giorno e la consapevolezza di vivere in un Paese dove vita e morte si intrecciano quotidianamente lo spinsero a rivedere il progetto, fu così che alcune battute acquisirono un nuovo peso simbolico. Il gesto di Y. che compone un inno patriottico diventa così paradossale e inquietante. Un artista che “spara” note mentre bombe e artiglieria colpiscono Gaza. Lapid mostra come molti artisti israeliani, nelle settimane successive al 7 Ottobre, siano stati coinvolti in percorsi simili, trasformando la creazione artistica in un’azione di guerra implicita e morale.
In Yes, la macchina da presa di Shai Goldman si muove incessantemente, anche durante i dialoghi, creando vertigine e disorientamento. La sequenza in cui Y. e Yasmine ballano nel loro appartamento sulle note di una versione hardstyle di Aserejé esemplifica questo approccio, dove un piano sequenza evolve in un montaggio frenetico, alternando inquadrature dall’alto, dal basso e laterali, attraversando la città in un turbinio di immagini. La musica non è semplice accompagnamento, ma strumento di immersione sensoriale, che amplifica caos e perdita di controllo. Sia in Ahed’s Knee che in Yes, Lapid utilizza musica e movimento della macchina da presa per sondare la condizione dell’artista e il suo rapporto con la società; in quest’ultimo, tuttavia, questo legame è segnato da disperazione e disillusione, trasformando l’esperienza cinematografica in un vortice emotivo e fisico.
Il film è costruito in tre movimenti che tracciano una discesa progressiva, estetica, morale e spirituale, dal rigoglio apparente alla sottomissione totale. Nella prima parte Lapid mette in scena una Nazione che si mostra nella sua versione più luccicante, tra feste, musica, eccesso, corpi che danzano. È un Paese “bello”, come lo definisce lo stesso Y.. L’allarme che annuncia un attacco a Gaza si dissolve nella quotidianità del protagonista e la paura diventa solo un’altra nota nel suo ritmo. È un mondo che ha imparato a coesistere con la guerra trasformandola in rumore di fondo, e proprio in questa convivenza risiede la sua più profonda corruzione morale. L’eccesso e il divertimento perpetuo funzionano come anestetici, la bellezza diventa un alibi, il piacere una forma di cecità.

L’esuberanza nazionale in una delle tante feste mostrate in Yes (2025)
Il secondo capitolo del film, “The Path”, si apre con Y. alla guida su una strada destinata esclusivamente agli israeliani, vietata ai palestinesi. Durante il tragitto intravede da una parte la prigione di Ofer, che detiene più di mille palestinesi condannati senza processo, e dall’altra il muro che separa la sua nazione dalla distruzione di Gaza. Nel corso di questo viaggio, Y. soggiorna in un luogo che gli consente di contemplare le parole scritte per l’inno e in un gesto quasi surreale, inciampa su una buccia di banana e si ferisce, macchiando le parole dell’inno con il proprio sangue. Un simbolo potente della complicità indiretta nel genocidio, e della responsabilità morale di chi contribuisce alla violenza senza essere sul campo di battaglia.
Successivamente Y. incontra Leah, che lo accompagna dal Mar Morto fino al confine con Gaza, un tragitto che il film descrive come “dal mare della morte all’inferno”. Questo percorso gli permette di percepire la devastazione propagata dalle azioni militari israeliane. Durante il viaggio, Leah racconta gli orrori subiti dalla popolazione di Gaza: cani che portano tra i denti i resti dei bambini palestinesi dopo le esplosioni, soldati israeliani che giustiziano genitori davanti ai propri figli e stupri che precedono le uccisioni. La macchina da presa di Lapid segue questi racconti con un linguaggio cinetico, alternando inquadrature frenetiche e movimenti vorticosi, amplificando la tensione emotiva e fisica. Una scelta che da un lato fa vivere allo spettatore la percezione di un inferno reale e costante, e dall’altro sembra rappresentare l’evasione, il tentativo di fuga dalla scomoda verità che riguarda Israele.
In una sequenza onirica che segue subito dopo, Y. rotola giù da una piccola collina, tenta di rialzarsi per riposare, ma una pioggia di pietre lo colpisce; nonostante le sue scuse per la canzone composta e la sua passività, la violenza si intensifica, rappresentando la collisione tra colpa personale e responsabilità collettiva, tra il desiderio di ignorare l’orrore e l’impossibilità di farlo. Proprio dopo questa esperienza, Y. riflette: “Gli israeliani che erano cresciuti con la domanda ‘come fa la gente a vivere normalmente mentre perpetrano tali orrori?’ sono diventati loro stessi la risposta.” La frase richiama l’Olocausto, e in questo senso è interessante paragonare il film a The Zone of Interest (La zona d'interesse, 2023): là dove Glazer mostrava la quotidianità dei coniugi Höss a pochi metri dal campo di Auschwitz, Lapid ritrae un’intera nazione che vive nel proprio giardino rigoglioso mentre, poco lontano, Gaza brucia. La differenza è anche nel tono, Glazer osserva con un rigore glaciale, costruendo la distanza come forma di orrore morale; Lapid, invece, si immerge nell’eccesso, contaminandosi con ciò che denuncia. Dove Glazer filma il silenzio, Lapid filma l’urlo. Se The Zone of Interest interrogava la cecità collettiva attraverso la distanza sensoriale, Yes sceglie la via opposta, quella dell’eccesso visivo e del linguaggio deformato, che diventano una violenza estetica, un macigno che schiaccia lo spettatore sotto il peso della complicità.
L’ultima parte, The Night, rappresenta l’apice del delirio e della resa. Y. e Yasmine vengono invitati a esibirsi su un’isola remota, dove verrà presentato ufficialmente il nuovo inno nazionale. La musica comincia, e sullo schermo appare proprio il video citato all’inizio, quello dei bambini che cantano la canzone della vittoria. La propaganda torna come spettro, ma questa volta è parte integrante dello spettacolo. L’arte e la violenza coincidono, e l’artista diventa lo strumento. Dopo la performance, Y. si trova di fronte a un dilemma grottesco: partecipare a una catena umana in cui il più forte fa leccare i piedi ai più deboli, o rinnegare la propria posizione privilegiata. È un gesto simbolico e osceno, una parabola sulla sottomissione come forma di sopravvivenza. Lapid porta l’artista, e lo spettatore, al punto di non ritorno. O piegarsi, o scomparire.
Yes non è un film facile, è denso, scomodo, a tratti nauseabondo, eppure necessario. Nadav Lapid non invita lo spettatore a riflettere passivamente su questioni delicate; lo costringe a confrontarsi con la propria possibile complicità, utilizzando il linguaggio cinematografico per interrogare la coscienza, scuotere, provocare. Con quest’opera, il regista conferma di essere una delle voci più audaci e controverse del cinema contemporaneo, capace di trasformare la forma artistica in strumento di denuncia morale e di introspezione collettiva.
Il trailer di Yes (2025)
di Omar Franini
NC-360
02.11.2025
“Autumn night falls over the beach of Gaza
Planes are bombing destruction, destruction
Look the IDF is crossing the line to annihilate the swastika-bearers
In another year there will be nothing there
and we will safely return to our homes
Within a year we will annihilate everyone
and then we will return to plow our fields
And we will remember everyone
the pretty and the pure
We will never let our hearts forget a friendship like that
Love sacrificed with blood
You will return and bloom amongst us…”
Le parole appena riportate sono tratte dal brano, se così si può definire, We are the children of the victory generation, una raccapricciante campagna di propaganda dell’organizzazione israeliana The Civil Front che nel novembre 2023 pubblicò un video in cui diversi bambini inneggiano a questo testo, una versione alterata di The Brotherhood (HaRe’ut), scritto dal poeta Haim Gouri nel 1947, che trasforma il ricordo in minaccia. Questo brano, nel suo tono infantile e al contempo terrificante, stabilisce un collegamento diretto con il tema centrale di Yes di Nadav Lapid, ovvero l’uso perverso della parola e della memoria come strumenti di legittimazione della violenza.
Questa atmosfera di distorsione emerge nel nuovo film del cineasta israeliano, dove il protagonista Y., artista cinico e incline al kitsch della classe superiore, riceve l’incarico di scrivere un nuovo inno nazionale che celebri l’identità israeliana. Le frasi citate, terribili e minacciose, sono proprio quelle “proposte” da Y., trasformando l’atto creativo in uno specchio inquietante della propaganda e ponendo lo spettatore davanti a una domanda morale centrale: fino a che punto le parole che pretendono di incarnare l’identità di un Paese possono legittimare la violenza e la memoria collettiva senza tradire la coscienza individuale?

Y. e Yasmine mentre "intrattengono" l’elite israeliana
Il cinema di Nadav Lapid ruota attorno al tema dell’identità, intesa come spazio di conflitto tra appartenenza nazionale, lingua e memoria personale. Le sue opere, spesso filtrate da esperienze autobiografiche, esplorano la tensione tra individuo e collettività, tra il bisogno di appartenenza e il desiderio di distacco. Dopo Synonyms (2019), premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e incentrato su un giovane israeliano che si trasferisce a Parigi per rinnegare le proprie origini e reinventarsi attraverso una nuova lingua, Lapid amplia la riflessione sull’artista e sul suo ruolo nel contesto politico e culturale israeliano, interrogandosi sul rapporto tra libertà espressiva e censura. Questo interesse per la figura dell’artista e per le tensioni tra sfera individuale e dimensione collettiva emerge con forza in Ahed’s Knee (2021), vincitore del Prix du Jury al Festival di Cannes. Il film segue Y., un regista israeliano, alter ego di Lapid, che si reca in un remoto villaggio del deserto per presentare uno dei suoi lavori. Qui, l’invito di una funzionaria del Ministero della Cultura a firmare un modulo che limita i temi di discussione si trasforma in una metafora di una censura silenziosa e pervasiva. Parallelamente, Y. è tormentato dalla malattia della madre, figura che incarna il legame affettivo e la responsabilità verso le proprie radici.
All’interno della narrazione, il film che Y. sta preparando racconta la storia di Ahed Tamimi, giovane attivista palestinese e simbolo di resistenza. Con questa scelta, Lapid interroga il ruolo dell’artista israeliano di fronte alla violenza politica e al conflitto etico della rappresentazione: chi ha il diritto di raccontare l’altro? E quanto la volontà di comprendere può sconfinare nell’appropriazione o nella colpa? La tensione diventa un campo di battaglia interiore, dove l’autocoscienza artistica si misura con complicità e indifferenza. Una delle immagini più potenti del film è quella dei peperoni marci lasciati ad essiccare nel deserto, ancora rossi e brillanti all’esterno, privi di vita all’interno, simbolo di un paese che, una volta, "portava frutti", ma che ora è corrotto dall’interno. Come nel testo di Yes, dove la parola poetica viene piegata alla retorica della violenza, anche nel suo film precedente Lapid mostra una superficie seducente che nasconde un processo di disfacimento morale. Con Ahed’s Knee, il regista radicalizza il proprio discorso sull’identità e sul potere, trasformando l’artista in un corpo esposto al conflitto morale del proprio tempo. Il film brucia di rabbia e disillusione, senza cercare catarsi, mira a ferire, scuotere, mettere a nudo le contraddizioni di una nazione che si specchia nella propria rovina. Se la critica era già esplicita in forma e linguaggio, con Yes Lapid compie un passo ulteriore, spingendosi in un territorio quasi nauseabondo, deformato e saturo fino all’eccesso, come se il cinema dovesse ingoiare la propria ossessione per poterla espellere.

Una sequenza del lungometraggio
L’eccesso lapidiano emerge già nel primo capitolo del film, “The Good Life”, dove nell'ouverture Y. e sua moglie Yasmine partecipano a una festa destinata a intrattenere l’élite israeliana. Sulle note di Be My Lover, lo stile flamboyant del regista è in piena evidenza con la macchina da presa che si muove quasi incontrollata per trasmettere caos, esuberanza e decadenza morale. Y. è un artista alla mercé di mecenati che, avendo acquisito leve sul suo corpo e immagine, fanno emergere perversioni che normalmente resterebbero nascoste nella quotidianità. La festa, con la sua opulenza e il simultaneo allarme di guerra, simboleggia il contrasto tra bellezza apparente e decadenza morale, tra normalità e devastazione, ponendo lo spettatore davanti alla complessità della percezione della guerra in Israele. Il confronto tra i due Y. di Ahed’s Knee e Yes rivela quindi una trasformazione radicale nella visione di Lapid sul ruolo dell’artista. Nel primo film, Y. è un corpo in rivolta, attraversato da una furia incontrollabile contro il potere e la censura, un artista che ancora crede nella possibilità del gesto, del grido, della protesta come atto di resistenza.
In Yes, invece, Lapid abbandona quella “fantasia della rivolta” per spingersi in un territorio più desolato e contemporaneo, quello della sottomissione. Il nuovo Y. è il primo protagonista davvero passivo del suo cinema, non più colui che sbatte contro porte chiuse, ma che cerca di strisciare attraverso l’unica porta rimasta socchiusa e che si chiede “hai dei limiti puttana?” dopo aver canticchiato le macabre parole citate all’inizio sopra le sinfonie di Bach. È un artista che accetta tutto, si dona interamente, ma il cui desiderio e volontà sono ormai sterilizzati. Nei suoi movimenti - danze, gesti convulsi, apparente vitalità - resta un’energia fisica, ma svuotata di direzione, come se fosse rimasto solo un riflesso meccanico. Lapid sembra dirci che l’epoca della protesta è finita, e che l’artista contemporaneo deve misurarsi con la resa come unica forma possibile di verità, in un contesto dove il potere e la violenza definiscono la morale collettiva.
Yes nasce da una sceneggiatura scritta prima del 7 ottobre 2023, prima degli attacchi di Hamas e della conseguente escalation militare israeliana che ha portato al genocidio palestinese. Lapid, a Parigi, non intendeva realizzare un film percepito come politico. Tuttavia, la violenza di quel giorno e la consapevolezza di vivere in un Paese dove vita e morte si intrecciano quotidianamente lo spinsero a rivedere il progetto, fu così che alcune battute acquisirono un nuovo peso simbolico. Il gesto di Y. che compone un inno patriottico diventa così paradossale e inquietante. Un artista che “spara” note mentre bombe e artiglieria colpiscono Gaza. Lapid mostra come molti artisti israeliani, nelle settimane successive al 7 Ottobre, siano stati coinvolti in percorsi simili, trasformando la creazione artistica in un’azione di guerra implicita e morale.
In Yes, la macchina da presa di Shai Goldman si muove incessantemente, anche durante i dialoghi, creando vertigine e disorientamento. La sequenza in cui Y. e Yasmine ballano nel loro appartamento sulle note di una versione hardstyle di Aserejé esemplifica questo approccio, dove un piano sequenza evolve in un montaggio frenetico, alternando inquadrature dall’alto, dal basso e laterali, attraversando la città in un turbinio di immagini. La musica non è semplice accompagnamento, ma strumento di immersione sensoriale, che amplifica caos e perdita di controllo. Sia in Ahed’s Knee che in Yes, Lapid utilizza musica e movimento della macchina da presa per sondare la condizione dell’artista e il suo rapporto con la società; in quest’ultimo, tuttavia, questo legame è segnato da disperazione e disillusione, trasformando l’esperienza cinematografica in un vortice emotivo e fisico.
Il film è costruito in tre movimenti che tracciano una discesa progressiva, estetica, morale e spirituale, dal rigoglio apparente alla sottomissione totale. Nella prima parte Lapid mette in scena una Nazione che si mostra nella sua versione più luccicante, tra feste, musica, eccesso, corpi che danzano. È un Paese “bello”, come lo definisce lo stesso Y.. L’allarme che annuncia un attacco a Gaza si dissolve nella quotidianità del protagonista e la paura diventa solo un’altra nota nel suo ritmo. È un mondo che ha imparato a coesistere con la guerra trasformandola in rumore di fondo, e proprio in questa convivenza risiede la sua più profonda corruzione morale. L’eccesso e il divertimento perpetuo funzionano come anestetici, la bellezza diventa un alibi, il piacere una forma di cecità.

L’esuberanza nazionale in una delle tante feste mostrate in Yes (2025)
Il secondo capitolo del film, “The Path”, si apre con Y. alla guida su una strada destinata esclusivamente agli israeliani, vietata ai palestinesi. Durante il tragitto intravede da una parte la prigione di Ofer, che detiene più di mille palestinesi condannati senza processo, e dall’altra il muro che separa la sua nazione dalla distruzione di Gaza. Nel corso di questo viaggio, Y. soggiorna in un luogo che gli consente di contemplare le parole scritte per l’inno e in un gesto quasi surreale, inciampa su una buccia di banana e si ferisce, macchiando le parole dell’inno con il proprio sangue. Un simbolo potente della complicità indiretta nel genocidio, e della responsabilità morale di chi contribuisce alla violenza senza essere sul campo di battaglia.
Successivamente Y. incontra Leah, che lo accompagna dal Mar Morto fino al confine con Gaza, un tragitto che il film descrive come “dal mare della morte all’inferno”. Questo percorso gli permette di percepire la devastazione propagata dalle azioni militari israeliane. Durante il viaggio, Leah racconta gli orrori subiti dalla popolazione di Gaza: cani che portano tra i denti i resti dei bambini palestinesi dopo le esplosioni, soldati israeliani che giustiziano genitori davanti ai propri figli e stupri che precedono le uccisioni. La macchina da presa di Lapid segue questi racconti con un linguaggio cinetico, alternando inquadrature frenetiche e movimenti vorticosi, amplificando la tensione emotiva e fisica. Una scelta che da un lato fa vivere allo spettatore la percezione di un inferno reale e costante, e dall’altro sembra rappresentare l’evasione, il tentativo di fuga dalla scomoda verità che riguarda Israele.
In una sequenza onirica che segue subito dopo, Y. rotola giù da una piccola collina, tenta di rialzarsi per riposare, ma una pioggia di pietre lo colpisce; nonostante le sue scuse per la canzone composta e la sua passività, la violenza si intensifica, rappresentando la collisione tra colpa personale e responsabilità collettiva, tra il desiderio di ignorare l’orrore e l’impossibilità di farlo. Proprio dopo questa esperienza, Y. riflette: “Gli israeliani che erano cresciuti con la domanda ‘come fa la gente a vivere normalmente mentre perpetrano tali orrori?’ sono diventati loro stessi la risposta.” La frase richiama l’Olocausto, e in questo senso è interessante paragonare il film a The Zone of Interest (La zona d'interesse, 2023): là dove Glazer mostrava la quotidianità dei coniugi Höss a pochi metri dal campo di Auschwitz, Lapid ritrae un’intera nazione che vive nel proprio giardino rigoglioso mentre, poco lontano, Gaza brucia. La differenza è anche nel tono, Glazer osserva con un rigore glaciale, costruendo la distanza come forma di orrore morale; Lapid, invece, si immerge nell’eccesso, contaminandosi con ciò che denuncia. Dove Glazer filma il silenzio, Lapid filma l’urlo. Se The Zone of Interest interrogava la cecità collettiva attraverso la distanza sensoriale, Yes sceglie la via opposta, quella dell’eccesso visivo e del linguaggio deformato, che diventano una violenza estetica, un macigno che schiaccia lo spettatore sotto il peso della complicità.
L’ultima parte, The Night, rappresenta l’apice del delirio e della resa. Y. e Yasmine vengono invitati a esibirsi su un’isola remota, dove verrà presentato ufficialmente il nuovo inno nazionale. La musica comincia, e sullo schermo appare proprio il video citato all’inizio, quello dei bambini che cantano la canzone della vittoria. La propaganda torna come spettro, ma questa volta è parte integrante dello spettacolo. L’arte e la violenza coincidono, e l’artista diventa lo strumento. Dopo la performance, Y. si trova di fronte a un dilemma grottesco: partecipare a una catena umana in cui il più forte fa leccare i piedi ai più deboli, o rinnegare la propria posizione privilegiata. È un gesto simbolico e osceno, una parabola sulla sottomissione come forma di sopravvivenza. Lapid porta l’artista, e lo spettatore, al punto di non ritorno. O piegarsi, o scomparire.
Yes non è un film facile, è denso, scomodo, a tratti nauseabondo, eppure necessario. Nadav Lapid non invita lo spettatore a riflettere passivamente su questioni delicate; lo costringe a confrontarsi con la propria possibile complicità, utilizzando il linguaggio cinematografico per interrogare la coscienza, scuotere, provocare. Con quest’opera, il regista conferma di essere una delle voci più audaci e controverse del cinema contemporaneo, capace di trasformare la forma artistica in strumento di denuncia morale e di introspezione collettiva.
Il trailer di Yes (2025)