NC-89
29.01.2022
La fiera delle illusioni (Nightmare Alley), appena uscito nelle sale italiane, è il primo film di del Toro a dialogare non solo con il passato, ma anche con un precedente illustre: l’omonimo film del 1947, diretto da Edmund Goulding. Di omaggi a film del passato se ne trovano in tutta la sua filmografia, dai richiami gotici a Suspense (1961) e Gli invasati (1961) in Crimson Peak al tributo al celebre Il mostro della laguna nera (1954) ne La forma dell’acqua, ma questa volta l’operazione è ben più ambiziosa: riportare sullo schermo, a distanza di 75 anni, uno dei noir più originali del suo tempo.
È un impresa in cui anche un grande regista potrebbe fallire, eppure del Toro vi si dedica con intelligenza, optando per soluzioni narrative ed estetiche che non deludono le aspettative. Scenografia, fotografia, costumi, trucco sono quelli delle grandi produzioni hollywoodiane, su cui però non manca l’impronta stilistica del regista: nelle due parti che compongono il film troviamo quindi una splendida ricostruzione tanto della fiera, con le sue attrazioni mostruose e distorte, quanto dell’alta società urbana, tra serate mondane e ville di lusso. Non una pallida imitazione di quell’estetica noir in bianco e nero ormai irreplicabile, quindi, ma una ricca messa in scena che si serve degli straordinari mezzi odierni per restituire quel mondo attraverso gli occhi del regista.
Sul piano narrativo la scelta è quasi opposta ma altrettanto convincente: attenersi strettamente alla già ottima sceneggiatura del primo film, ricalcando per gran parte del tempo lo stesso intreccio e le stesse sequenze dell’originale. Ci sono ovviamente eccezioni, come nella messa in scena della violenza, fortemente censurata al tempo e vera e propria cifra stilistica di del Toro, o nel finale, imposto dalla produzione e per questo visibilmente posticcio nel primo film, più cupo e disperato, ma pur sempre didascalico, nel secondo.
Nonostante questa fedeltà all’originale, rielaborato nella forma ma non nella sostanza narrativa, il film di del Toro si distanzia dal suo predecessore in un particolare episodio. Si tratta del primo vero snodo dell’intreccio, ovvero quando Stan, da poco arrivato alla fiera, conosce l’indovina Zeena e il suo compagno alcolizzato, il vecchio Pete: in un incontro a casa loro, i due insegnano al giovane il proprio metodo e i trucchi del mestiere su cui poi quest’ultimo costruirà la sua fortuna; di lì a poco, Pete morirà dopo l’ennesima bottiglia portatagli (di proposito?) proprio da Stan.
Nel film del 1947, questo “passaggio del testimone” tra Pete e Stan è invece racchiuso in una lunga sequenza in cui i due personaggi, da soli, si confrontano per l’ultima volta, la stessa notte della morte di Pete. È il momento più alto e poetico del film, un incontro intimo tra il mentore sul viale del tramonto e l’ambizioso e spregiudicato allievo, un’occasione di mettere in mostra la saggezza del primo e l’ambiguità morale del secondo. I lenti movimenti di macchina di Goulding e la raffinata fotografia in bianco e nero immergono i due personaggi in un’atmosfera irreale, circondati da una scenografia essenziale, quasi teatrale, con un palco e una singola fonte di luce per l’esibizione del maestro, ubriaco, davanti allo sguardo rapito dell’apprendista.
“Every boy had a dog” dirà Pete (uno straordinario Ian Keith), gli occhi invasati e febbricitanti, per spiegare a Stan come sia facile far credere qualcuno di conoscere il suo passato. Non è una dimostrazione di abilità, né la rivelazione di un metodo come nel film di del Toro, bensì l’insegnamento di una scienza più nobile e antica, la capacità di entrare in contatto con le persone attraverso ciò che ci accomuna tutti, un’illusione a cui crede l’illusionista ancor prima dello spettatore. È forse la più grande occasione mancata del remake di del Toro, che sceglie di abbandonare la riflessione sull’ambiguità delle illusioni per coglierne solo il lato più cinico e razionale. Rispetto allo Stan interpretato da un Tyrone Power nella sua miglior versione, quello incarnato da un mediocre Bradley Cooper è molto meno sfaccettato, e i flashback aggiunti da del Toro per rivelare la sua “vera” natura non fanno altro che confermarlo.
Nel ‘47 la censura imponeva un severo codice di regole e concedeva una libertà espressiva infinitamente minore, eppure i grandi registi del tempo proprio tra quei limiti avevano imparato a muoversi, alludendo senza mostrare, accennando senza spiegare. Quello che ne risultava era un cinema raffinato, fatto di ombre, ellissi, sfumature: forse, da quel cinema, avremmo ancora qualcosa da imparare.
NC-89
29.01.2022
La fiera delle illusioni (Nightmare Alley), appena uscito nelle sale italiane, è il primo film di del Toro a dialogare non solo con il passato, ma anche con un precedente illustre: l’omonimo film del 1947, diretto da Edmund Goulding. Di omaggi a film del passato se ne trovano in tutta la sua filmografia, dai richiami gotici a Suspense (1961) e Gli invasati (1961) in Crimson Peak al tributo al celebre Il mostro della laguna nera (1954) ne La forma dell’acqua, ma questa volta l’operazione è ben più ambiziosa: riportare sullo schermo, a distanza di 75 anni, uno dei noir più originali del suo tempo.
È un impresa in cui anche un grande regista potrebbe fallire, eppure del Toro vi si dedica con intelligenza, optando per soluzioni narrative ed estetiche che non deludono le aspettative. Scenografia, fotografia, costumi, trucco sono quelli delle grandi produzioni hollywoodiane, su cui però non manca l’impronta stilistica del regista: nelle due parti che compongono il film troviamo quindi una splendida ricostruzione tanto della fiera, con le sue attrazioni mostruose e distorte, quanto dell’alta società urbana, tra serate mondane e ville di lusso. Non una pallida imitazione di quell’estetica noir in bianco e nero ormai irreplicabile, quindi, ma una ricca messa in scena che si serve degli straordinari mezzi odierni per restituire quel mondo attraverso gli occhi del regista.
Sul piano narrativo la scelta è quasi opposta ma altrettanto convincente: attenersi strettamente alla già ottima sceneggiatura del primo film, ricalcando per gran parte del tempo lo stesso intreccio e le stesse sequenze dell’originale. Ci sono ovviamente eccezioni, come nella messa in scena della violenza, fortemente censurata al tempo e vera e propria cifra stilistica di del Toro, o nel finale, imposto dalla produzione e per questo visibilmente posticcio nel primo film, più cupo e disperato, ma pur sempre didascalico, nel secondo.
Nonostante questa fedeltà all’originale, rielaborato nella forma ma non nella sostanza narrativa, il film di del Toro si distanzia dal suo predecessore in un particolare episodio. Si tratta del primo vero snodo dell’intreccio, ovvero quando Stan, da poco arrivato alla fiera, conosce l’indovina Zeena e il suo compagno alcolizzato, il vecchio Pete: in un incontro a casa loro, i due insegnano al giovane il proprio metodo e i trucchi del mestiere su cui poi quest’ultimo costruirà la sua fortuna; di lì a poco, Pete morirà dopo l’ennesima bottiglia portatagli (di proposito?) proprio da Stan.
Nel film del 1947, questo “passaggio del testimone” tra Pete e Stan è invece racchiuso in una lunga sequenza in cui i due personaggi, da soli, si confrontano per l’ultima volta, la stessa notte della morte di Pete. È il momento più alto e poetico del film, un incontro intimo tra il mentore sul viale del tramonto e l’ambizioso e spregiudicato allievo, un’occasione di mettere in mostra la saggezza del primo e l’ambiguità morale del secondo. I lenti movimenti di macchina di Goulding e la raffinata fotografia in bianco e nero immergono i due personaggi in un’atmosfera irreale, circondati da una scenografia essenziale, quasi teatrale, con un palco e una singola fonte di luce per l’esibizione del maestro, ubriaco, davanti allo sguardo rapito dell’apprendista.
“Every boy had a dog” dirà Pete (uno straordinario Ian Keith), gli occhi invasati e febbricitanti, per spiegare a Stan come sia facile far credere qualcuno di conoscere il suo passato. Non è una dimostrazione di abilità, né la rivelazione di un metodo come nel film di del Toro, bensì l’insegnamento di una scienza più nobile e antica, la capacità di entrare in contatto con le persone attraverso ciò che ci accomuna tutti, un’illusione a cui crede l’illusionista ancor prima dello spettatore. È forse la più grande occasione mancata del remake di del Toro, che sceglie di abbandonare la riflessione sull’ambiguità delle illusioni per coglierne solo il lato più cinico e razionale. Rispetto allo Stan interpretato da un Tyrone Power nella sua miglior versione, quello incarnato da un mediocre Bradley Cooper è molto meno sfaccettato, e i flashback aggiunti da del Toro per rivelare la sua “vera” natura non fanno altro che confermarlo.
Nel ‘47 la censura imponeva un severo codice di regole e concedeva una libertà espressiva infinitamente minore, eppure i grandi registi del tempo proprio tra quei limiti avevano imparato a muoversi, alludendo senza mostrare, accennando senza spiegare. Quello che ne risultava era un cinema raffinato, fatto di ombre, ellissi, sfumature: forse, da quel cinema, avremmo ancora qualcosa da imparare.