NC-77
30.11.2021
Come il cinema di molti altri paesi del Sud del mondo, anche quello colombiano ha vissuto negli ultimi vent’anni una crescita esponenziale. Per dare un’idea dell’entità di questo fenomeno, dal 1993 al 2000 non sono mai usciti più di quattro film colombiani all’anno, ovvero meno del 2% dei film proiettati in sala sul territorio nazionale; nel 2012 i titoli colombiani sono stati 23, nel 2017 ben 44. Naturalmente la crescita non è stata solo quantitativa; nell’ultimo decennio sono stati prodotti diversi film che hanno saputo fotografare, attraverso il prisma della violenza in ogni sua forma, la storia più o meno recente del paese.
Molti i titoli meritevoli di una menzione, come Un mondo fragile (La tierra y la sombra) di César Augusto Acevedo, vincitore della Caméra d’or per la miglior opera prima al Festival di Cannes 2015, sulla tragedia di una famiglia di contadini vittima di sfruttamento, o il recentissimo Frío en la montaña di Edison Gómez Amaya, appena presentato all’8° Festival internacional de cine por los derechos humanos, che racchiude in un dramma da camera la storia del conflitto armato che ha segnato il paese negli ultimi sessant’anni. Fra tutti, però, oggi vi consigliamo tre film che, per quanto diversi tra loro, offrono un preciso spaccato della società colombiana e delle sue dinamiche più brutali.
1 - Silencio en el Paraíso (2011), dir. Colbert García
È difficile parlare del primo senza anticiparne il finale, ma è al tempo stesso essenziale spiegarne il contesto per riuscire a comprenderlo. Ambientato in un quartiere poverissimo della periferia di Bogotà (el Paraíso, da cui il titolo), il film sembra a prima vista raccontare una tragica storia d’amore tra un ragazzo, Ronald, che si guadagna da vivere facendo pubblicità ai negozi del quartiere, e una sua vicina della stessa età, Lady. Ma la loro vicenda è in realtà solo un pretesto per raccontare il dramma dei falsos positivos, di cui Ronald è vittima esemplare, incarnando i quasi 7000 morti che hanno subito la stessa sorte. Attirato da un’allettante offerta di lavoro in un ufficio allestito nel suo quartiere, Ronald viene caricato sul camion insieme ad altri ragazzi, portato in una zona rurale e, prima di essere fucilato, costretto a indossare una divisa delle FARC, la guerriglia comunista del paese. Queste esecuzioni extragiudiziali, messe in atto da membri dell’Esercito nazionale in cambio di prestigio, benefici economici e promozioni, servivano a rafforzare l’immagine pubblica delle istituzioni militari nella loro “lotta alla guerriglia”, camuffando appunto i corpi di giovani ed emarginati con quelli di guerriglieri morti in battaglia. L’opera di Colbert García si presenta quindi come un film-saggio, sobrio ed essenziale nella forma, su una delle più grandi atrocità scaturite dal conflitto interno.
2 - Chocó (2012), dir. Jhonny Hendrix Hinestroza
Chocó è al contempo il nome della protagonista e della regione in cui si svolge la storia, un dipartimento della costa pacifica abitato, come gran parte delle zone costiere del paese, dalle comunità afrocolombiane. Chocó, appena ventenne, si guadagna da vivere raccogliendo oro in una cava e abita con i due figli e il marito. Quest'ultimo, come ci mostra la prima sequenza, ogni sera si ubriaca giocando a domino al bar del paese, poi torna a casa e violenta la moglie. Un po’ come accadeva nel film precedente, il racconto della sua vita, dalla povertà alle misere condizioni di lavoro, dalla violenza domestica alla folgorante rivalsa finale, è in realtà lo specchio di un’intera comunità e dei fardelli che la affliggono. Tra le pieghe del film, i temi si moltiplicano: c’è il sincretismo religioso e culturale, figlio di una violenza antica, degli anziani del villaggio e dei bambini che, in chiesa o prima di entrare a scuola, pregano cantando con le tipiche sonorità afrocolombiane; c’è la mercificazione del corpo femminile, come nella scena in cui il proprietario bianco del negozio accetta di dare a Chocó una torta per i suoi figli solo se lei si concederà a lui; c’è la spietata logica dello sfruttamento del territorio e delle persone, secondo la quale ogni lavoratrice che non rende come le altre può essere sacrificata in qualsiasi momento. Chocó è un film esplicito, senza sconti, che partendo da una realtà locale riflette sulla stratificazione della violenza e sulla speranza di emancipazione ovunque vi sia asservimento politico, sociale, culturale.
3 - El abrazo de la serpiente (2015), dir. Ciro Guerra
Se i primi due film hanno la loro forza nella realtà e nell’intensità dei loro racconti, quest'ultima opera può considerarsi uno dei punti più alti della cinematografia colombiana sotto ogni aspetto, un esempio di grande cinema. Dopo la periferia della città e la costa pacifica, la lente si sposta sull’Amazzonia e in un'epoca lontana dalla contemporaneità, costituita da due tempi distinti ma intrecciati, all’inizio e a metà del Novecento. L’indigeno Karamakate, ultimo superstite del suo popolo, dapprima giovane e poi anziano, incontra due biologi (tedesco il primo, statunitense il secondo) entrambi in cerca di una rara pianta sacra, la yakruna, e li accompagna nei loro viaggi. La grandezza del film sta nel farci assumere, fin dall’inizio, il punto di vista di Karamakate: se per lui la sua terra sta morendo, invasa dai bianchi che vi si recano per fondare missioni o estrarre il caucciù, le immagini non avranno gli splendidi colori della giungla, ma saranno in bianco e nero, come fotografie di un passato che rischia di perdersi; se per lui il tempo non è lineare, ma ciclico, i due incontri con l’uomo bianco saranno in realtà lo stesso (“tu sei due uomini”) che si ripete, e il montaggio seguirà questa visione intrecciando i piani temporali; se la sua cosmogonia è ben lontana dalle credenze occidentali, queste ultime saranno mostrate in tutta la loro inadeguatezza. Il film è quindi un atto d’amore per un mondo, quello indigeno amazzonico in particolare, che sta scomparendo e per “quei popoli di cui non ascolteremo mai la canzone”.
NC-77
30.11.2021
Come il cinema di molti altri paesi del Sud del mondo, anche quello colombiano ha vissuto negli ultimi vent’anni una crescita esponenziale. Per dare un’idea dell’entità di questo fenomeno, dal 1993 al 2000 non sono mai usciti più di quattro film colombiani all’anno, ovvero meno del 2% dei film proiettati in sala sul territorio nazionale; nel 2012 i titoli colombiani sono stati 23, nel 2017 ben 44. Naturalmente la crescita non è stata solo quantitativa; nell’ultimo decennio sono stati prodotti diversi film che hanno saputo fotografare, attraverso il prisma della violenza in ogni sua forma, la storia più o meno recente del paese.
Molti i titoli meritevoli di una menzione, come Un mondo fragile (La tierra y la sombra) di César Augusto Acevedo, vincitore della Caméra d’or per la miglior opera prima al Festival di Cannes 2015, sulla tragedia di una famiglia di contadini vittima di sfruttamento, o il recentissimo Frío en la montaña di Edison Gómez Amaya, appena presentato all’8° Festival internacional de cine por los derechos humanos, che racchiude in un dramma da camera la storia del conflitto armato che ha segnato il paese negli ultimi sessant’anni. Fra tutti, però, oggi vi consigliamo tre film che, per quanto diversi tra loro, offrono un preciso spaccato della società colombiana e delle sue dinamiche più brutali.
1 - Silencio en el Paraíso (2011), dir. Colbert García
È difficile parlare del primo senza anticiparne il finale, ma è al tempo stesso essenziale spiegarne il contesto per riuscire a comprenderlo. Ambientato in un quartiere poverissimo della periferia di Bogotà (el Paraíso, da cui il titolo), il film sembra a prima vista raccontare una tragica storia d’amore tra un ragazzo, Ronald, che si guadagna da vivere facendo pubblicità ai negozi del quartiere, e una sua vicina della stessa età, Lady. Ma la loro vicenda è in realtà solo un pretesto per raccontare il dramma dei falsos positivos, di cui Ronald è vittima esemplare, incarnando i quasi 7000 morti che hanno subito la stessa sorte. Attirato da un’allettante offerta di lavoro in un ufficio allestito nel suo quartiere, Ronald viene caricato sul camion insieme ad altri ragazzi, portato in una zona rurale e, prima di essere fucilato, costretto a indossare una divisa delle FARC, la guerriglia comunista del paese. Queste esecuzioni extragiudiziali, messe in atto da membri dell’Esercito nazionale in cambio di prestigio, benefici economici e promozioni, servivano a rafforzare l’immagine pubblica delle istituzioni militari nella loro “lotta alla guerriglia”, camuffando appunto i corpi di giovani ed emarginati con quelli di guerriglieri morti in battaglia. L’opera di Colbert García si presenta quindi come un film-saggio, sobrio ed essenziale nella forma, su una delle più grandi atrocità scaturite dal conflitto interno.
2 - Chocó (2012), dir. Jhonny Hendrix Hinestroza
Chocó è al contempo il nome della protagonista e della regione in cui si svolge la storia, un dipartimento della costa pacifica abitato, come gran parte delle zone costiere del paese, dalle comunità afrocolombiane. Chocó, appena ventenne, si guadagna da vivere raccogliendo oro in una cava e abita con i due figli e un marito che, come ci mostra la prima sequenza, ogni sera si ubriaca giocando a domino al bar del paese, poi torna a casa e violenta la moglie. Un po’ come accadeva nel film precedente, il racconto della sua vita, dalla povertà alle misere condizioni di lavoro, dalla violenza domestica alla folgorante rivalsa finale, è in realtà lo specchio di un’intera comunità e dei fardelli che la affliggono. Tra le pieghe del film, i temi si moltiplicano: c’è il sincretismo religioso e culturale, figlio di una violenza antica, degli anziani del villaggio e dei bambini che, in chiesa o prima di entrare a scuola, pregano cantando con le tipiche sonorità afrocolombiane; c’è la mercificazione del corpo femminile, come nella scena in cui il proprietario bianco del negozio accetta di dare a Chocó una torta per i suoi figli solo se lei si concederà a lui; c’è la spietata logica dello sfruttamento del territorio e delle persone, secondo la quale ogni lavoratrice che non rende come le altre può essere sacrificata in qualsiasi momento. Chocó è un film esplicito, senza sconti, che partendo da una realtà locale riflette sulla stratificazione della violenza e sulla speranza di emancipazione ovunque vi sia asservimento politico, sociale, culturale.
3 - El abrazo de la serpiente (2015), dir. Ciro Guerra
Se i primi due film hanno la loro forza nella realtà e nell’intensità dei loro racconti, quest'ultima opera può considerarsi uno dei punti più alti della cinematografia colombiana sotto ogni aspetto, un esempio di grande cinema. Dopo la periferia della città e la costa pacifica, la lente si sposta sull’Amazzonia e non ci troviamo più in epoca contemporanea, bensì in due tempi distinti ma intrecciati, all’inizio e a metà del Novecento. L’indigeno Karamakate, ultimo superstite del suo popolo, dapprima giovane e poi anziano, incontra due biologi (tedesco il primo, statunitense il secondo) entrambi in cerca di una rara pianta sacra, la yakruna, e li accompagna nei loro viaggi. La grandezza del film sta nel farci assumere, fin dall’inizio, il punto di vista di Karamakate: se per lui la sua terra sta morendo, invasa dai bianchi che vi si recano per fondare missioni o estrarre il caucciù, le immagini non avranno gli splendidi colori della giungla, ma saranno in bianco e nero, come fotografie di un passato che rischia di perdersi; se per lui il tempo non è lineare, ma ciclico, i due incontri con l’uomo bianco saranno in realtà lo stesso (“tu sei due uomini”) che si ripete, e il montaggio seguirà questa visione intrecciando i piani temporali; se la sua cosmogonia è ben lontana dalle credenze occidentali, queste ultime saranno mostrate in tutta la loro inadeguatezza. Il film è quindi un atto d’amore per un mondo, quello indigeno amazzonico in particolare, che sta scomparendo e per “quei popoli di cui non ascolteremo mai la canzone”.