di Omar Franini
NC-143
15.03.2023
La 95ª edizione degli Oscar, tenutasi la scorsa domenica notte, è stata una cerimonia significativa sotto vari punti di vista. Everything Everywhere All At Once è stato il grande vincitore con ben sette statuette, tra cui quella di miglior film, regia ed attrice. Ma prima di analizzare i motivi che hanno portato a tali vittorie, vogliamo porre la nostra attenzione sulla cerimonia stessa. Le ultime due edizioni sono state caratterizzate da cerimonie piuttosto piatte e a tratti imbarazzanti, dove certe scelte di regia o produzione sono risultate di cattivo gusto. Basti pensare quando, nel 2021, si era deciso di posizionare il riconoscimento al miglior attore protagonista a fine serata poichè ci si aspettava una vittoria del defunto Chadwick Boseman per Ma Raney’s Black Bottom. L’obbiettivo era probabilmente quello di creare un momento commovente, scelta che si rivelò sconsiderata dato che a vincere fu Sir Anthony Hopkins per The Father, che non era nemmeno presente alla cerimonia. Detto questo, la sostanziale differenza rispetto alle passate edizioni è stata una maggiore enfasi sui film nominati e sul mondo del cinema in generale, aspetto scontato visto che la notte degli Oscar dovrebbe rappresentare un omaggio ai “migliori” film dell’intera annata. Negli ultimi anni sembrava però che l’Academy of Motion Picture avesse un tantino perso il focus del premio, trasformando le serate celebrative in circhi hollywoodiani dove ci si prendeva in giro a vicenda. Per esempio, l’anno scorso l’Academy aveva deciso di spostare la maggior parte delle categorie tecniche durante i momenti di pubblicità per dare spazio a degli inutili siparietti comici recitati da Amy Schumer, una scelta decisamente poco felice.
Quest’anno invece il presentatore Jimmy Kimmel ha fatto un discreto lavoro come host della cerimonia, anche se è stato protagonista di due momenti piuttosto imbarazzanti. Il primo è stato a inizio serata quando ha affermato che la canzone Naatu Naatu di RRR era bollywoodiana, quando invece è tollywoodiana, errore che denota una costante ignoranza culturale verso l’industria cinematografica indiana. Il secondo è stato durante un’interazione con il Premio Nobel Malala Yousafzai, che, quando il conduttore le ha chiesto cosa ne pensava del presunto sputo di Harry Styles a Chris Pine al Festival di Venezia, ha risposto freddamente con un «Parlo solo di pace», risposta che ha zittito e sorpreso Kimmel. Nonostante questi momenti di disattenzione la cerimonia è stata piacevole, scorrevole e piuttosto emozionante, sia per la grande incertezza dietro ad alcune categorie, sia per i toccanti discorsi da parte della maggioranza dei vincitori.
Parlando di vittorie, le sette statuette ad Everything Everywhere All At Once entreranno nella storia per diversi motivi. Il film dei Daniels ha vinto il maggior numero di “above-the-lines categories”, ovvero quelle categorie che comprendono sceneggiatura, regia, recitazione e film. Inoltre, la casa di produzione A24 ha vinto ben tre statuette alla recitazione (attrice protagonista, attore e attrice non protagonista), terzo caso nella storia degli Oscar dopo Un tram che si chiama Desiderio (1951) e Network (1976), ma con la differenza che questi non erano riusciti ad aggiudicarsi il premio al miglior film. La notte degli Oscar è stato il compimento di una stagione dei premi quasi perfetta per Everything Everywhere All At Once, dove, oltre ai riconoscimenti dei diversi gruppi di critici statunitensi, la pellicola si è aggiudicata quasi tutti i guilds: i più importanti premi dell’industria composti dal Producers Guild of America Awards, dal Director Guild of America, dal Writers Guild of America Awards e dagli Screen Actor Guilds. Questi ultimi hanno confermato il dominio assoluto del film e dato indicazioni sulle vittorie.
Le statuette a miglior film, regia e sceneggiatura originale sono stati trionfi più che soddisfacenti, ma soprattuto rilevanti dal punto di vista della “rappresentazione” ad Hollywood. Infatti, si spera che questi possano portare ad un’apertura mentale più ampia verso produzioni di genere e autori/attori americani di origini asiatiche. Un ragionamento che potrebbe sembrare politically correct e simile a quello fatto con CODA - miglior film dell’anno scorso particolarmente significativo per la comunità sordomuta - ma con un’importante differenza: Everything Everywhere All At Once è un’opera audace, originale e ben recitata, mentre CODA è un film mediocre che richiama le produzioni originali Disney di inizio anni 2000. Detto questo, bisogna ammettere che forse vi erano opere più meritevoli di tale premio, come Tár di Todd Field e The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh, due dei grandi snobbati della serata.
Le vittorie di Jamie Lee Curtis e Ke Huy Quan hanno evocato reazioni contrastanti. Il premio all’attrice veterana è stato più un riconoscimento alla carriera che all’interpretazione data nel film, caso simile a quello di Laura Dern per Marriage Story (2019). Una vittoria che lascia un po’ l’amaro in bocca, soprattutto perché nella cinquina c’erano alternative più degne di nota, come Hong Chau per The Whale e Kerry Condon per The Banshees of Inisherin. Reazione opposta invece per Ke Huy Quan, che con questa vittoria completa un comeback da sogno. Infatti, l’attore di origini vietnamite aveva iniziato la sua carriera negli anni ‘80 - recitando in due film cult come I Goonies (1985) e Indiana Jones e il tempio maledetto (1984) - ma questa si era interrotta quasi subito a causa dell’incapacità dell’industria hollywoodiana di creare ruoli adatti ad attori di origini asiatiche. La “narrativa” e la storia personale dell’attore hanno giocato un ruolo fondamentale per la vittoria finale, ma dobbiamo anche dire che la sua performance è stata una delle migliori dell’anno appena passato e la sua vincita è stata sicuramente una delle più meritevoli della serata. Per approfondire il grande ritorno sul grande schermo di Ke Huy Quan e la complessità del suo ruolo in Everything Everywhere All At Once, vi invitiamo a leggere la nostra intervista all'attore.
La categoria di miglior attrice protagonista è stata una delle più dibattute di tutta la stagione. Il testa a testa tra Michelle Yeoh e Cate Blanchett è stato al centro dell'attenzione della stampa, entrambe hanno fatto incetta di premi e la Blanchett sembrava in procinto di vincere il terzo Oscar dopo il trionfo ai BAFTA, ma gli Screen Actor Guilds hanno cambiato le carte in tavola, e la Yeoh è riuscita a divenire la favorita. L’attrice malesiana è entrata nella storia dei premi Oscar diventando la prima attrice asiatica, e la seconda donna “non bianca” - dopo Halle Berry per Monster’s Ball - a vincere la categoria. La standing ovation per la vittoria di Michelle Yeoh e il suo toccante discorso sono stati tra i momenti più emozionanti della cerimonia, ma, nonostante tutto, avremmo preferito vedere Cate Blanchett sul palco, la cui vittoria sarebbe stata una delle più iconiche degli ultimi anni.
Anche se è stata meno avvincente, la corsa per la statuetta di miglior attore è risultata piuttosto competitiva e incerta fino all’ultimo. Austin Butler, per la sua interpretazione in Elvis, era il favorito alla vigilia della cerimonia, soprattutto perché il suo film aveva ricevuto ben otto nomination e perché l’Academy tende spesso a premiare attori che interpretano personaggi realmente esistiti. A trionfare è stato invece Brendan Fraser per The Whale, che, come Ke Huy Quan, completa un comeback più che meritato. L’attore era stato ingiustamente inserito nella blacklist dopo che nel 2018 aveva ammesso di aver subito molestie sessuali da parte di Philip Berk, l’allora presidente dell’Hollywood Foreign Press Association, l’organizzazione dietro ai Golden Globes. Anche in questo caso c’erano scelte più meritevoli nella categoria, come ad esempio Colin Farrell per The Banshees of Inisherin, ma la vittoria di Fraser e la sua commozione ci hanno profondamente toccato.
Il secondo film più premiato è stato All Quiet on the Western Front di Edward Berger, vincitore come miglior film straniero, fotografia, scenografia e colonna sonora, quattro statuette a dir poco immeritate. Rispetto agli anni precedenti, la categoria di miglior film straniero è risultata piuttosto debole, soprattutto dopo le mancate nomination a Decision to Leave di Park Chan-wook, Holy Spider di Ali Abbasi e Saint Omer di Alice Diop. Tornando al film di Berger, le vittorie a scenografia e miglior colonna sonora contro Babylon hanno sorpreso e deluso parecchio. Il lavoro straordinario di Justin Horowitz sulla musica di Babylon non doveva essere sacrificato a discapito di una colonna sonora caratterizzata, per lo più, da brani monotoni e ripetitivi. Per la miglior fotografia, la sfida è sempre stata, sin dall’inizio, tra Mandy Walker per Elvis e il vincitore James Friend per All Quiet on the Western Front. Ma a essere onesti nessuno dei due meritava la vittoria, e la statuetta se la sarebbero dovuta giocare Darius Khondji per Bardo, la cronaca falsa di alcune verità e Florian Hoffmeister per Tár. È interessante notare come All Quiet on the Western Front sia diventato il film Netflix con più vittorie ai premi Oscar, superando il record di tre detenuto precedentemente da Roma di Alfonso Cuaron. Viste le quattro vittorie ci si aspettava un upset anche nella categoria di sceneggiatura non originale, ma a trionfare è stata Sarah Polley per Women Talking, adattamento dell’omonimo romanzo di Miriam Towers. Una vittoria più che convincente anche se avremmo voluto vedere il film nominato in più categorie, tra cui quella per la colonna sonora e per Jessie Buckley come attrice non protagonista, la cui struggente e complessa interpretazione meritava più riconoscimenti.
Il resto delle categorie tecniche sono state assegnate a grandi blockbuster statunitensi; effetti speciali ad Avatar: La Via dell’Acqua, suono aTop Gun: Maverick e costumi a Black Panther: Wakanda Forever. Miglior montaggio e trucco sono andati rispettivamente a Everything Everywhere All At Once e The Whale. Il premio al miglior Documentario è stato vinto da Navalny di Daniel Roher, film che ripercorre le vicende del dissidente russo Alexei Navalny. La vittoria verrà ricordata per il discorso della moglie di Alexei che invoca una Russia libera. Analizzando la cinquina nominata bisogna però affermare che c’erano scelte ancora più meritevoli come All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, film vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia, e Fire of Love di Sara Dosa. Come Miglior film d’animazione è stato incoronato Pinocchio di Guillermo Del Toro, che sul palco del Dolby Theatre ha rimarcato il fatto che «l’animazione è cinema, non un genere cinematografico». Niente fortuna invece per Alice Rohrwacher, il cui cortometraggio Le Pupille non è riuscito a vincere la statuetta, che è stata assegnata a An Irish Goodbye di Tom Berkeley e Ross White.
Concludiamo con la categoria della miglior canzone originale, dove a trionfare è stato il brano Naatu Naatu presente nella sequenza più coinvolgente e divertente del film RRR di S.S. Rajamouli. La vittoria è stata preceduta dalla performance musicale del brano, uno dei momenti migliori della cerimonia. L’esibizione è stata un grande successo e ha eclissato le buone interpretazioni canore di Lady Gaga e Rihanna, candidate rispettivamente per i brani Hold My Hand da Top Gun: Maverick e Lift Me Up da Black Panther: Wakanda Forever.
di Omar Franini
NC-143
15.03.2023
La 95ª edizione degli Oscar, tenutasi la scorsa domenica notte, è stata una cerimonia significativa sotto vari punti di vista. Everything Everywhere All At Once è stato il grande vincitore con ben sette statuette, tra cui quella di miglior film, regia ed attrice. Ma prima di analizzare i motivi che hanno portato a tali vittorie, vogliamo porre la nostra attenzione sulla cerimonia stessa. Le ultime due edizioni sono state caratterizzate da cerimonie piuttosto piatte e a tratti imbarazzanti, dove certe scelte di regia o produzione sono risultate di cattivo gusto. Basti pensare quando, nel 2021, si era deciso di posizionare il riconoscimento al miglior attore protagonista a fine serata poichè ci si aspettava una vittoria del defunto Chadwick Boseman per Ma Raney’s Black Bottom. L’obbiettivo era probabilmente quello di creare un momento commovente, scelta che si rivelò sconsiderata dato che a vincere fu Sir Anthony Hopkins per The Father, che non era nemmeno presente alla cerimonia. Detto questo, la sostanziale differenza rispetto alle passate edizioni è stata una maggiore enfasi sui film nominati e sul mondo del cinema in generale, aspetto scontato visto che la notte degli Oscar dovrebbe rappresentare un omaggio ai “migliori” film dell’intera annata. Negli ultimi anni sembrava però che l’Academy of Motion Picture avesse un tantino perso il focus del premio, trasformando le serate celebrative in circhi hollywoodiani dove ci si prendeva in giro a vicenda. Per esempio, l’anno scorso l’Academy aveva deciso di spostare la maggior parte delle categorie tecniche durante i momenti di pubblicità per dare spazio a degli inutili siparietti comici recitati da Amy Schumer, una scelta decisamente poco felice.
Quest’anno invece il presentatore Jimmy Kimmel ha fatto un discreto lavoro come host della cerimonia, anche se è stato protagonista di due momenti piuttosto imbarazzanti. Il primo è stato a inizio serata quando ha affermato che la canzone Naatu Naatu di RRR era bollywoodiana, quando invece è tollywoodiana, errore che denota una costante ignoranza culturale verso l’industria cinematografica indiana. Il secondo è stato durante un’interazione con il Premio Nobel Malala Yousafzai, che, quando il conduttore le ha chiesto cosa ne pensava del presunto sputo di Harry Styles a Chris Pine al Festival di Venezia, ha risposto freddamente con un «Parlo solo di pace», risposta che ha zittito e sorpreso Kimmel. Nonostante questi momenti di disattenzione la cerimonia è stata piacevole, scorrevole e piuttosto emozionante, sia per la grande incertezza dietro ad alcune categorie, sia per i toccanti discorsi da parte della maggioranza dei vincitori.
Parlando di vittorie, le sette statuette ad Everything Everywhere All At Once entreranno nella storia per diversi motivi. Il film dei Daniels ha vinto il maggior numero di “above-the-lines categories”, ovvero quelle categorie che comprendono sceneggiatura, regia, recitazione e film. Inoltre, la casa di produzione A24 ha vinto ben tre statuette alla recitazione (attrice protagonista, attore e attrice non protagonista), terzo caso nella storia degli Oscar dopo Un tram che si chiama Desiderio (1951) e Network (1976), ma con la differenza che questi non erano riusciti ad aggiudicarsi il premio al miglior film. La notte degli Oscar è stato il compimento di una stagione dei premi quasi perfetta per Everything Everywhere All At Once, dove, oltre ai riconoscimenti dei diversi gruppi di critici statunitensi, la pellicola si è aggiudicata quasi tutti i guilds: i più importanti premi dell’industria composti dal Producers Guild of America Awards, dal Director Guild of America, dal Writers Guild of America Awards e dagli Screen Actor Guilds. Questi ultimi hanno confermato il dominio assoluto del film e dato indicazioni sulle vittorie.
Le statuette a miglior film, regia e sceneggiatura originale sono stati trionfi più che soddisfacenti, ma soprattuto rilevanti dal punto di vista della “rappresentazione” ad Hollywood. Infatti, si spera che questi possano portare ad un’apertura mentale più ampia verso produzioni di genere e autori/attori americani di origini asiatiche. Un ragionamento che potrebbe sembrare politically correct e simile a quello fatto con CODA - miglior film dell’anno scorso particolarmente significativo per la comunità sordomuta - ma con un’importante differenza: Everything Everywhere All At Once è un’opera audace, originale e ben recitata, mentre CODA è un film mediocre che richiama le produzioni originali Disney di inizio anni 2000. Detto questo, bisogna ammettere che forse vi erano opere più meritevoli di tale premio, come Tár di Todd Field e The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh, due dei grandi snobbati della serata.
Le vittorie di Jamie Lee Curtis e Ke Huy Quan hanno evocato reazioni contrastanti. Il premio all’attrice veterana è stato più un riconoscimento alla carriera che all’interpretazione data nel film, caso simile a quello di Laura Dern per Marriage Story (2019). Una vittoria che lascia un po’ l’amaro in bocca, soprattutto perché nella cinquina c’erano alternative più degne di nota, come Hong Chau per The Whale e Kerry Condon per The Banshees of Inisherin. Reazione opposta invece per Ke Huy Quan, che con questa vittoria completa un comeback da sogno. Infatti, l’attore di origini vietnamite aveva iniziato la sua carriera negli anni ‘80 - recitando in due film cult come I Goonies (1985) e Indiana Jones e il tempio maledetto (1984) - ma questa si era interrotta quasi subito a causa dell’incapacità dell’industria hollywoodiana di creare ruoli adatti ad attori di origini asiatiche. La “narrativa” e la storia personale dell’attore hanno giocato un ruolo fondamentale per la vittoria finale, ma dobbiamo anche dire che la sua performance è stata una delle migliori dell’anno appena passato e la sua vincita è stata sicuramente una delle più meritevoli della serata. Per approfondire il grande ritorno sul grande schermo di Ke Huy Quan e la complessità del suo ruolo in Everything Everywhere All At Once, vi invitiamo a leggere la nostra intervista all'attore.
La categoria di miglior attrice protagonista è stata una delle più dibattute di tutta la stagione. Il testa a testa tra Michelle Yeoh e Cate Blanchett è stato al centro dell'attenzione della stampa, entrambe hanno fatto incetta di premi e la Blanchett sembrava in procinto di vincere il terzo Oscar dopo il trionfo ai BAFTA, ma gli Screen Actor Guilds hanno cambiato le carte in tavola, e la Yeoh è riuscita a divenire la favorita. L’attrice malesiana è entrata nella storia dei premi Oscar diventando la prima attrice asiatica, e la seconda donna “non bianca” - dopo Halle Berry per Monster’s Ball - a vincere la categoria. La standing ovation per la vittoria di Michelle Yeoh e il suo toccante discorso sono stati tra i momenti più emozionanti della cerimonia, ma, nonostante tutto, avremmo preferito vedere Cate Blanchett sul palco, la cui vittoria sarebbe stata una delle più iconiche degli ultimi anni.
Anche se è stata meno avvincente, la corsa per la statuetta di miglior attore è risultata piuttosto competitiva e incerta fino all’ultimo. Austin Butler, per la sua interpretazione in Elvis, era il favorito alla vigilia della cerimonia, soprattutto perché il suo film aveva ricevuto ben otto nomination e perché l’Academy tende spesso a premiare attori che interpretano personaggi realmente esistiti. A trionfare è stato invece Brendan Fraser per The Whale, che, come Ke Huy Quan, completa un comeback più che meritato. L’attore era stato ingiustamente inserito nella blacklist dopo che nel 2018 aveva ammesso di aver subito molestie sessuali da parte di Philip Berk, l’allora presidente dell’Hollywood Foreign Press Association, l’organizzazione dietro ai Golden Globes. Anche in questo caso c’erano scelte più meritevoli nella categoria, come ad esempio Colin Farrell per The Banshees of Inisherin, ma la vittoria di Fraser e la sua commozione ci hanno profondamente toccato.
Il secondo film più premiato è stato All Quiet on the Western Front di Edward Berger, vincitore come miglior film straniero, fotografia, scenografia e colonna sonora, quattro statuette a dir poco immeritate. Rispetto agli anni precedenti, la categoria di miglior film straniero è risultata piuttosto debole, soprattutto dopo le mancate nomination a Decision to Leave di Park Chan-wook, Holy Spider di Ali Abbasi e Saint Omer di Alice Diop. Tornando al film di Berger, le vittorie a scenografia e miglior colonna sonora contro Babylon hanno sorpreso e deluso parecchio. Il lavoro straordinario di Justin Horowitz sulla musica di Babylon non doveva essere sacrificato a discapito di una colonna sonora caratterizzata, per lo più, da brani monotoni e ripetitivi. Per la miglior fotografia, la sfida è sempre stata, sin dall’inizio, tra Mandy Walker per Elvis e il vincitore James Friend per All Quiet on the Western Front. Ma a essere onesti nessuno dei due meritava la vittoria, e la statuetta se la sarebbero dovuta giocare Darius Khondji per Bardo, la cronaca falsa di alcune verità e Florian Hoffmeister per Tár. È interessante notare come All Quiet on the Western Front sia diventato il film Netflix con più vittorie ai premi Oscar, superando il record di tre detenuto precedentemente da Roma di Alfonso Cuaron. Viste le quattro vittorie ci si aspettava un upset anche nella categoria di sceneggiatura non originale, ma a trionfare è stata Sarah Polley per Women Talking, adattamento dell’omonimo romanzo di Miriam Towers. Una vittoria più che convincente anche se avremmo voluto vedere il film nominato in più categorie, tra cui quella per la colonna sonora e per Jessie Buckley come attrice non protagonista, la cui struggente e complessa interpretazione meritava più riconoscimenti.
Il resto delle categorie tecniche sono state assegnate a grandi blockbuster statunitensi; effetti speciali ad Avatar: La Via dell’Acqua, suono aTop Gun: Maverick e costumi a Black Panther: Wakanda Forever. Miglior montaggio e trucco sono andati rispettivamente a Everything Everywhere All At Once e The Whale. Il premio al miglior Documentario è stato vinto da Navalny di Daniel Roher, film che ripercorre le vicende del dissidente russo Alexei Navalny. La vittoria verrà ricordata per il discorso della moglie di Alexei che invoca una Russia libera. Analizzando la cinquina nominata bisogna però affermare che c’erano scelte ancora più meritevoli come All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, film vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia, e Fire of Love di Sara Dosa. Come Miglior film d’animazione è stato incoronato Pinocchio di Guillermo Del Toro, che sul palco del Dolby Theatre ha rimarcato il fatto che «l’animazione è cinema, non un genere cinematografico». Niente fortuna invece per Alice Rohrwacher, il cui cortometraggio Le Pupille non è riuscito a vincere la statuetta, che è stata assegnata a An Irish Goodbye di Tom Berkeley e Ross White.
Concludiamo con la categoria della miglior canzone originale, dove a trionfare è stato il brano Naatu Naatu presente nella sequenza più coinvolgente e divertente del film RRR di S.S. Rajamouli. La vittoria è stata preceduta dalla performance musicale del brano, uno dei momenti migliori della cerimonia. L’esibizione è stata un grande successo e ha eclissato le buone interpretazioni canore di Lady Gaga e Rihanna, candidate rispettivamente per i brani Hold My Hand da Top Gun: Maverick e Lift Me Up da Black Panther: Wakanda Forever.