di Eduardo Bigazzi
NC-193
08.03.2024
Cortometràggio (o 'córto metràggio') s. m. [grafia unita di corto e metraggio]
(pl. cortometraggi). – Film di breve durata, generalmente non superiore ai 15 minuti, di vario genere (documentario, musicale, pubblicitario, ecc.).
Persino la Treccani non sa stabilire precisamente la durata di un cortometraggio. Perché, di fatto, essa non è fissa. Per il festival di Cannes è valida la regola dei 15 minuti. La Biennale di Venezia, invece, acconsente di allungarsi fino ai 20. L’Academy (sì, quella degli Oscar) alza l’asticella fino ai 40 mentre il nostro Ministero della cultura rilancia fino a 52.
Durate, quest’ultime, più vicine al mediometraggio. O ad una qualsiasi puntata di serie. Ma se il terzo rewatch in binge-watching della nostra serie preferita, o l’ennesimo reel guardato passivamente durante il doom scrolling del telefono, ci fanno trascorrere un totale di 6 piacevolissime ore davanti allo schermo senza alcun problema, 15 minuti di un cortometraggio d’autore… “per carità no”. O è Pixar o niente.
Eppure il cortometraggio è proprio il formato con cui è nato il cinema. L'arrivo del treno alla stazione di La Ciotat (1896), Viaggio sulla Luna (1902) o La grande rapina al treno (1903) - per chi non li conoscesse: capisaldi degli albori del cinema - pensate forse durino le tre ore dei costosissimi colossal moderni? Affatto. Si passa dai 52 secondi ai 15 minuti a dir tanto.
Il primo film ormai battezzato come tale, ovvero L’uscita dalle officine Lumière (1895), dura la bellezza di 45 secondi. Ci sono post su Instagram molto più lunghi. Purtroppo.
La domanda che sorge quasi spontanea quindi è: perché?
Perché il cortometraggio viene tanto bistrattato dal pubblico?
Colpa del nostro ormai ridotto span di attenzione? Può darsi.
Dell’insondabile e orwelliano “algoritmo” che decide per noi cosa guardare? Anche, perché no.
O dell’industria che non promuove né valorizza questo formato in maniera adeguata? Sicuramente un problema di visibilità c’è.
Cinema e servizi streaming tendono a privilegiare la distribuzione di film e serie perché: o portano soldi, o portano spettatori. D’altronde, chiunque è disposto a sottoscrivere un abbonamento ad una piattaforma o pagare il biglietto di un film se ricompensato dalla giusta dose di intrattenimento, soprattutto se questo gli consente di essere partecipe ai trend del momento o di godere di un’esperienza coinvolgente.
Il corto home-made dello studente di cinema, per quanto promettente… non porta nulla. E così il cortometraggio finisce nei meandri del deep web con una manciata di visualizzazioni a fargli compagnia e una casa di distribuzione che lo promuove invano per tutti i festival possibili e inimmaginabili. E per quanto triste questo destino possa essere, al contempo implica che sì, esistono festival dedicati esclusivamente ai corti. E ce ne sono a centinaia. Forse anche migliaia. Non ho mai fatto il conto, onestamente.Ma non solo. Come accennato prima, persino i festival di cinema più importanti o le premiazioni internazionali più rinomate accolgono il cortometraggio nelle loro categorie.
Che i curatori siano affetti da qualche forma di insania mentale? Forse. Non sempre, almeno. Più probabilmente, perché il cortometraggio ha identità e valore unici.
Ecco quindi il plot twist: gli Oscar premiano i cortometraggi, ma gli spettatori no.
Forse, allora, non è un problema riconducibile soltanto all’industria. Forse si può puntare il dito sullo spettatore stesso.
Certo la natura talvolta sperimentale dei cortometraggi può essere un ostacolo molto difficile da superare per il pubblico. Alcuni di questi sfidano le convenzioni optando per narrazioni non lineari, simbolismi astratti o stili visivi innovativi, rientrando a pieno diritto nella categoria della video-arte… e quello sicuramente è un campo ostico a prescindere, a maggior ragione se paragonato agli standard classici dell’intrattenimento. Ma non bisogna scavare troppo in profondità per differenziare i cortometraggi sperimentali dalle installazioni proiettate nella sala di una mostra temporanea.
Ci sono esempi noti e di successo che hanno lasciato un’impronta non soltanto nella categoria “cortometraggio”, ma nella storia del cinema stesso. Basti pensare ad Un chien andalou (1929), capolavoro surrealista firmato da Luis Buñuel e nientepopodimeno che Salvador Dalì. Oppure a La jetée (1962) di Chris Marker, caposaldo della Nouvelle Vague, che crea un’ambientazione distopica capace di ispirare cult fantascientifici come L'Esercito delle 12 scimmie (1995). O ancora The big shave (1967), dove 6 minuti su un uomo che si rade la barba diventano una critica al Vietnam e il trampolino di lancio di uno dei più grandi registi di sempre: Martin Scorsese.
Spostandoci su esempi più recenti e narrazioni più lineari, suggeriamo vivamente di recuperare l’irriverente Lievito madre (2014) del nostrano Fulvio Risuleo o anche The procedure (2016), una piccola follia in cui Calvin Lee Reeder riesce ad agganciare l’attenzione del pubblico con un forte stratagemma narrativo, una sapiente capacità registica… e un sedere. Non dico altro, se non che questa perla è riuscita a vincere al Sundance Film Festival.
Appurato quindi che anche la natura più anticonvenzionale dei corti ha un suo seguito e successo, ecco che la ragione dietro il distacco degli spettatori si può ricercare altrove. E se non può essere additata completamente alla sperimentazione tipica del formato, forse può trovarsi proprio nella durata: il cortometraggio, per funzionare, deve essere intenso sì, ma pur sempre breve. Non c’è bisogno di cliffhanger o altri escamotage per tenere viva l’attenzione dello spettatore con la promessa di un pay-off futuro. Quello che vedi è. I personaggi nascono e muoiono in 15 minuti, ma ciò non significa che non siano in grado di dire qualcosa, sviluppare una trama e coinvolgere lo spettatore. Basti pensare a piccole gemme come The neighbors' window (2019), Le pupille (2022) o il recentissimo - tanto commovente quanto auto-celebrativo - Once upon a studio (2023) della Disney.
Il cortometraggio, quindi, sa anche emozionare. Ciò nonostante, lo spettatore moderno percepisce questa struttura come una mancanza. Vuole o di più, o di meno. Se deve avere un engagement emotivo, sia esso di qualsiasi natura, allora meglio averlo con contenuti più rapidi e diretti, immediati. Che disgustino, divertino o delizino in appena 30 secondi al massimo. Oppure, all’estremo opposto, preferisce il coinvolgimento con un approccio cinematografico articolato e complesso, legato all’esperienza-evento della sala o all’attaccamento a lungo termine delle serie.
Così 15 minuti di cortometraggio diventano, ancora una volta, troppo impegnativi. Per aggirare questo potenziale ostacolo si può allora guardare alle già menzionate Disney-Pixar. Tolto il fatto che lo stesso Topolino sia comparso la prima volta proprio in un cortometraggio - l’ormai celebre Steamboat Willie (1928) -la compagnia ha usato questo formato in tempi più recenti come essenziale banco di prova per lo sviluppo di lavori futuri. La neonata Pixar era di fatto obbligata a testare la primitiva animazione 3d in piccoli, quanto deliziosi corti come Luxo Junior (1986), Tin toy (1988) o Knick Knack (1989) prima di ottenere la confidenza per un film di 81 minuti quale poi sarebbe stato Toy Story (1995).
Una volta assodate le proprie capacità, lo studio ha comunque continuato a mettere alla prova i suoi autori, artisti e tecnologie attraverso il cortometraggio, di fatto dando vita ad una tradizione di lunga data (nonché suo indiscutibile marchio di fabbrica): i famosi “corti della Pixar”. E chi non li ama.
Il gioco di Geri (1997), Pennuti spennati (2000), Bao (2018), sono tutti magnifici esempi di corti che, in tempi recenti, hanno raggiunto e conquistato il grande pubblico. Il vero colpo di genio? Affiancarli ad un film così da garantirsi distribuzione, visibilità e, soprattutto, riscontri. Certo la strategia di usare il corto come test per un regista o debutto di un personaggio non si limita alla sola Disney: si pensi ai famosissimi Wallace & Gromit o al più recente Marcel the Shell. E ancora oggi diversi studi di animazione vengono messi alla durissima prova del pubblico dai servizi streaming rivisitando il corto sotto forma di serie: prodotti come Love, Death & Robots (dal 2019) o Star Wars: Visions ( dal 2021) sono due celeberrimi quanto gradevoli esempi.
Ma, oltrepassando il mondo dell’animazione, la stessa strategia è di fatto adottata da molte case di produzione, critici e membri dell’industria per valutare l’effettivo valore delle nuove promesse che ciclicamente bussano alle porte del cinema.
Senza scomodare il Little Tramp di Charlie Chaplin, il grande Stone Face di Buster Keaton o il duo comico Stanlio e Olio, il cui passaggio da corto a lungometraggio ha avuto diverse ragioni legate sì alla popolarità dei personaggi ma anche al cambiamento del mercato cinematografico dell’epoca e delle tecnologie disponibili, possiamo vedere esempi decisamente più recenti di questo processo. Titoli come Whiplash (2014), Saw (2004), District 9 (2009) vi dicono qualcosa? Bene, sono tutti film di successo nati, ovviamente, dagli omonimi - fatta eccezione per Alive in Joburg (2005) - cortometraggi.
E Bottle Rocket? Beh, è solo il titolo del primo film di Wes Anderson… e il titolo del suo cortometraggio di debutto. Six Shooter (2004) invece è la deliziosa prova del fuoco di Martin McDonagh che con la sua prima esperienza dietro la macchina da presa vince l’Oscar al miglior cortometraggio. Come, non sapete chi sia? Forse però avete sentito parlare di alcuni suoi film allora: In Bruges (2008), Tre manifesti a Ebbing, Missouri ( 2017) e Gli spiriti dell’isola (2022). Con tanti saluti dall’Academy.
Ma no, questa pratica non è un privilegio esclusivo di Hollywood e dintorni: anche qui in Italia spesso accadono miracoli del genere. Basti a pensare ad A ciambra (2014), corto che ha portato alla creazione del film omonimo, o al successo di Tiger Boy (2012) che ha permesso a Gabriele Mainetti di passare al lungometraggio - debuttando poi con l’acclamato Lo chiamavano Jeeg Robot (2015). Paolo Sorrentino (un altro che non ha bisogno di presentazioni) ha iniziato proprio con un cortometraggio, Un paradiso (1994), e in tempi recentissimi A cup of coffee with Marilyn (2019) ha avuto un’esplosione tale di successo che il corto è diventata una serie di prossima uscita (Miss Fallaci) prodotta da un grande studio come Paramount.
Insomma. Da questo punto di vista, le potenzialità del corto sono evidenti e davvero sconfinate. Ma, a conti fatti, ciò che allo spettatore rimane impresso è il risultato finale, il grande nome o prodotto acclamato, e non la piccola fatica che ne ha permesso la nascita. Così, tutti i cortometraggi sopra citati sono stati già perduti nel tempo come lacrime nella pioggia, prontamente sostituiti nell’immaginario comune dalla loro versione long-form.
Ma il cortometraggio comunque continua a esistere e resistere, imperterrito. Non solo grazie ad alcuni già affermati autori che scelgono di utilizzare il formato come mezzo d’espressione indipendente - si pensi ad Alice Rohrwacher e Wes Anderson, le cui filmografie vedono un’alternanza lunghi-corti veramente lodevole, o all’acclamatissimo Yorgos Lanthimos con Nimic (2019) e ancora Pedro Almodóvar con il suo Strange way of life (2023), per fare alcuni esempi - ma anche come forma di semplice e puro intrattenimento. Incredibile ma vero.
Stiamo pensando in questo caso a titoli come Kung Fury (1985), One minute time machine (2014) e No good deed (2017). Per chi non li conoscesse sono rispettivamente: il folle omaggio agli anni ‘80 che tra i primi ha cavalcato l’onda nostalgica dell’epoca con un mix di reference e una buona dose di non-sense in salsa action; una piccola commedia sci-fi che ha trasformato una semplice idea in un prodotto mainstream dal successo incredibile continuamente soggetto a remake; una inedita quanto irriverente avventura di Deadpool, con tanto di Ryan Reynolds, cameo di Stan Lee ed evidente ironia su Superman.
Proprio quest’ultimo esempio apre le porte ad un nuovo capitolo sull’entità cortometraggio. No good deed, che nasce sulla carta come prodotto autonomo, diventa presto sfruttato dalla Fox come sketch di apertura a Logan (2017) e teaser per il successivo Deadpool 2. Una mossa astuta e riuscita, ma non certo innovativa. Perché il corto è, di fatto, anche pubblicità. E non solo. Sfruttare l’impronta autoriale del cortometraggio è un’occasione per fare branded content di qualità e rendere interessante quello che altrimenti sarebbe un altro anonimo trailer o spot.
Ci sono centinaia e centinaia di esempi di successo a riguardo – Youtube, Vimeo e Dailymotion vari ne sono pieni. Invitiamo caldamente a guardare Watchtower of Turkey (2014) e chiedersi quanti altri reel copia-incolla si sono visti di quel docu-corto, scoprire un piccolo gioiello come The lift (2019) e fare gli applausi al team marketing di Bianco, spulciare le varie campagne Esselunga e chiedersi quante volte non abbiano generato scalpore e dibattito mediatico da prima pagina.
Campari, fra gli altri, è davvero affezionata al formato tanto da chiedere ai tre grandi registi nostrani con più appeal internazionale (sì, mi riferisco a Sorrentino, Garrone e Sollima) di girare veri e propri cortometraggi, tutti vicini ai 15 minuti di durata, accomunati da precisi elementi: il bar, il genere noir, il rosso. Ed ecco che così nascono Killer in Red (2017), Entering Red (2019), The legend of Red hand (2018).
Dolce&Gabbana non è da meno e si è avvalsa più volte dell’aiuto del nostro amatissimo Tornatore per creare prodotti brevi di qualità immensa: fra tutti consiglio di recuperare il cortissimo del 1994 che vede Monica Bellucci come protagonista ed Ennio Morricone alla colonna sonora. Un micro gioiello.
Insomma, anche se non ce ne accorgiamo, il cortometraggio vive e si insinua dolcemente nelle nostre vite. E non c’è bisogno che sia un lavoro complesso di 40 minuti o un assaggio di 15. A volte è solo una scena, un’idea, un’intuizione presentata sotto forma di video. A volte è un corto low budget dell’aspirante Kubrick, a volte il delirio onirico del prossimo Lynch. A volte è il passo cruciale di un regista per raggiungere il grande pubblico, a volte è una nicchia da circolo ristretto che muore in poco tempo. A volte è un cinecomic, a volte un dramedy. A volte un costosissimo sforzo di qualche multi-nazionale, a volte un’impresa collettiva di qualche tenace studente. A volte è solo l’incipit di una storia, a volte un vero e proprio capolavoro. Quindi, perché odiamo i cortometraggi? A conti fatti... non lo so. Anche se nel piccolo, anche loro sono cinema. Una forma d’arte e di cultura. Di scala ridotta sì, ma non per questo meno importante. E quindi, che altro dire se non: lunga vita al corto.
di Eduardo Bigazzi
NC-193
08.03.2024
Cortometràggio (o 'córto metràggio') s. m. [grafia unita di corto e metraggio]
(pl. cortometraggi). – Film di breve durata, generalmente non superiore ai 15 minuti, di vario genere (documentario, musicale, pubblicitario, ecc.).
Persino la Treccani non sa stabilire precisamente la durata di un cortometraggio. Perché, di fatto, essa non è fissa. Per il festival di Cannes è valida la regola dei 15 minuti. La Biennale di Venezia, invece, acconsente di allungarsi fino ai 20. L’Academy (sì, quella degli Oscar) alza l’asticella fino ai 40 mentre il nostro Ministero della cultura rilancia fino a 52.
Durate, quest’ultime, più vicine al mediometraggio. O ad una qualsiasi puntata di serie. Ma se il terzo rewatch in binge-watching della nostra serie preferita, o l’ennesimo reel guardato passivamente durante il doom scrolling del telefono, ci fanno trascorrere un totale di 6 piacevolissime ore davanti allo schermo senza alcun problema, 15 minuti di un cortometraggio d’autore… “per carità no”. O è Pixar o niente.
Eppure il cortometraggio è proprio il formato con cui è nato il cinema. L'arrivo del treno alla stazione di La Ciotat (1896), Viaggio sulla Luna (1902) o La grande rapina al treno (1903) - per chi non li conoscesse: capisaldi degli albori del cinema - pensate forse durino le tre ore dei costosissimi colossal moderni? Affatto. Si passa dai 52 secondi ai 15 minuti a dir tanto.
Il primo film ormai battezzato come tale, ovvero L’uscita dalle officine Lumière (1895), dura la bellezza di 45 secondi. Ci sono post su Instagram molto più lunghi. Purtroppo.
La domanda che sorge quasi spontanea quindi è: perché?
Perché il cortometraggio viene tanto bistrattato dal pubblico?
Colpa del nostro ormai ridotto span di attenzione? Può darsi.
Dell’insondabile e orwelliano “algoritmo” che decide per noi cosa guardare? Anche, perché no.
O dell’industria che non promuove né valorizza questo formato in maniera adeguata? Sicuramente un problema di visibilità c’è.
Cinema e servizi streaming tendono a privilegiare la distribuzione di film e serie perché: o portano soldi, o portano spettatori. D’altronde, chiunque è disposto a sottoscrivere un abbonamento ad una piattaforma o pagare il biglietto di un film se ricompensato dalla giusta dose di intrattenimento, soprattutto se questo gli consente di essere partecipe ai trend del momento o di godere di un’esperienza coinvolgente.
Il corto home-made dello studente di cinema, per quanto promettente… non porta nulla. E così il cortometraggio finisce nei meandri del deep web con una manciata di visualizzazioni a fargli compagnia e una casa di distribuzione che lo promuove invano per tutti i festival possibili e inimmaginabili. E per quanto triste questo destino possa essere, al contempo implica che sì, esistono festival dedicati esclusivamente ai corti. E ce ne sono a centinaia. Forse anche migliaia. Non ho mai fatto il conto, onestamente.Ma non solo. Come accennato prima, persino i festival di cinema più importanti o le premiazioni internazionali più rinomate accolgono il cortometraggio nelle loro categorie.
Che i curatori siano affetti da qualche forma di insania mentale? Forse. Non sempre, almeno. Più probabilmente, perché il cortometraggio ha identità e valore unici.
Ecco quindi il plot twist: gli Oscar premiano i cortometraggi, ma gli spettatori no.
Forse, allora, non è un problema riconducibile soltanto all’industria. Forse si può puntare il dito sullo spettatore stesso.
Certo la natura talvolta sperimentale dei cortometraggi può essere un ostacolo molto difficile da superare per il pubblico. Alcuni di questi sfidano le convenzioni optando per narrazioni non lineari, simbolismi astratti o stili visivi innovativi, rientrando a pieno diritto nella categoria della video-arte… e quello sicuramente è un campo ostico a prescindere, a maggior ragione se paragonato agli standard classici dell’intrattenimento. Ma non bisogna scavare troppo in profondità per differenziare i cortometraggi sperimentali dalle installazioni proiettate nella sala di una mostra temporanea.
Ci sono esempi noti e di successo che hanno lasciato un’impronta non soltanto nella categoria “cortometraggio”, ma nella storia del cinema stesso. Basti pensare ad Un chien andalou (1929), capolavoro surrealista firmato da Luis Buñuel e nientepopodimeno che Salvador Dalì. Oppure a La jetée (1962) di Chris Marker, caposaldo della Nouvelle Vague, che crea un’ambientazione distopica capace di ispirare cult fantascientifici come L'Esercito delle 12 scimmie (1995). O ancora The big shave (1967), dove 6 minuti su un uomo che si rade la barba diventano una critica al Vietnam e il trampolino di lancio di uno dei più grandi registi di sempre: Martin Scorsese.
Spostandoci su esempi più recenti e narrazioni più lineari, suggeriamo vivamente di recuperare l’irriverente Lievito madre (2014) del nostrano Fulvio Risuleo o anche The procedure (2016), una piccola follia in cui Calvin Lee Reeder riesce ad agganciare l’attenzione del pubblico con un forte stratagemma narrativo, una sapiente capacità registica… e un sedere. Non dico altro, se non che questa perla è riuscita a vincere al Sundance Film Festival.
Appurato quindi che anche la natura più anticonvenzionale dei corti ha un suo seguito e successo, ecco che la ragione dietro il distacco degli spettatori si può ricercare altrove. E se non può essere additata completamente alla sperimentazione tipica del formato, forse può trovarsi proprio nella durata: il cortometraggio, per funzionare, deve essere intenso sì, ma pur sempre breve. Non c’è bisogno di cliffhanger o altri escamotage per tenere viva l’attenzione dello spettatore con la promessa di un pay-off futuro. Quello che vedi è. I personaggi nascono e muoiono in 15 minuti, ma ciò non significa che non siano in grado di dire qualcosa, sviluppare una trama e coinvolgere lo spettatore. Basti pensare a piccole gemme come The neighbors' window (2019), Le pupille (2022) o il recentissimo - tanto commovente quanto auto-celebrativo - Once upon a studio (2023) della Disney.
Il cortometraggio, quindi, sa anche emozionare. Ciò nonostante, lo spettatore moderno percepisce questa struttura come una mancanza. Vuole o di più, o di meno. Se deve avere un engagement emotivo, sia esso di qualsiasi natura, allora meglio averlo con contenuti più rapidi e diretti, immediati. Che disgustino, divertino o delizino in appena 30 secondi al massimo. Oppure, all’estremo opposto, preferisce il coinvolgimento con un approccio cinematografico articolato e complesso, legato all’esperienza-evento della sala o all’attaccamento a lungo termine delle serie.
Così 15 minuti di cortometraggio diventano, ancora una volta, troppo impegnativi. Per aggirare questo potenziale ostacolo si può allora guardare alle già menzionate Disney-Pixar. Tolto il fatto che lo stesso Topolino sia comparso la prima volta proprio in un cortometraggio - l’ormai celebre Steamboat Willie (1928) -la compagnia ha usato questo formato in tempi più recenti come essenziale banco di prova per lo sviluppo di lavori futuri. La neonata Pixar era di fatto obbligata a testare la primitiva animazione 3d in piccoli, quanto deliziosi corti come Luxo Junior (1986), Tin toy (1988) o Knick Knack (1989) prima di ottenere la confidenza per un film di 81 minuti quale poi sarebbe stato Toy Story (1995).
Una volta assodate le proprie capacità, lo studio ha comunque continuato a mettere alla prova i suoi autori, artisti e tecnologie attraverso il cortometraggio, di fatto dando vita ad una tradizione di lunga data (nonché suo indiscutibile marchio di fabbrica): i famosi “corti della Pixar”. E chi non li ama.
Il gioco di Geri (1997), Pennuti spennati (2000), Bao (2018), sono tutti magnifici esempi di corti che, in tempi recenti, hanno raggiunto e conquistato il grande pubblico. Il vero colpo di genio? Affiancarli ad un film così da garantirsi distribuzione, visibilità e, soprattutto, riscontri. Certo la strategia di usare il corto come test per un regista o debutto di un personaggio non si limita alla sola Disney: si pensi ai famosissimi Wallace & Gromit o al più recente Marcel the Shell. E ancora oggi diversi studi di animazione vengono messi alla durissima prova del pubblico dai servizi streaming rivisitando il corto sotto forma di serie: prodotti come Love, Death & Robots (dal 2019) o Star Wars: Visions ( dal 2021) sono due celeberrimi quanto gradevoli esempi.
Ma, oltrepassando il mondo dell’animazione, la stessa strategia è di fatto adottata da molte case di produzione, critici e membri dell’industria per valutare l’effettivo valore delle nuove promesse che ciclicamente bussano alle porte del cinema.
Senza scomodare il Little Tramp di Charlie Chaplin, il grande Stone Face di Buster Keaton o il duo comico Stanlio e Olio, il cui passaggio da corto a lungometraggio ha avuto diverse ragioni legate sì alla popolarità dei personaggi ma anche al cambiamento del mercato cinematografico dell’epoca e delle tecnologie disponibili, possiamo vedere esempi decisamente più recenti di questo processo. Titoli come Whiplash (2014), Saw (2004), District 9 (2009) vi dicono qualcosa? Bene, sono tutti film di successo nati, ovviamente, dagli omonimi - fatta eccezione per Alive in Joburg (2005) - cortometraggi.
E Bottle Rocket? Beh, è solo il titolo del primo film di Wes Anderson… e il titolo del suo cortometraggio di debutto. Six Shooter (2004) invece è la deliziosa prova del fuoco di Martin McDonagh che con la sua prima esperienza dietro la macchina da presa vince l’Oscar al miglior cortometraggio. Come, non sapete chi sia? Forse però avete sentito parlare di alcuni suoi film allora: In Bruges (2008), Tre manifesti a Ebbing, Missouri ( 2017) e Gli spiriti dell’isola (2022). Con tanti saluti dall’Academy.
Ma no, questa pratica non è un privilegio esclusivo di Hollywood e dintorni: anche qui in Italia spesso accadono miracoli del genere. Basti a pensare ad A ciambra (2014), corto che ha portato alla creazione del film omonimo, o al successo di Tiger Boy (2012) che ha permesso a Gabriele Mainetti di passare al lungometraggio - debuttando poi con l’acclamato Lo chiamavano Jeeg Robot (2015). Paolo Sorrentino (un altro che non ha bisogno di presentazioni) ha iniziato proprio con un cortometraggio, Un paradiso (1994), e in tempi recentissimi A cup of coffee with Marilyn (2019) ha avuto un’esplosione tale di successo che il corto è diventata una serie di prossima uscita (Miss Fallaci) prodotta da un grande studio come Paramount.
Insomma. Da questo punto di vista, le potenzialità del corto sono evidenti e davvero sconfinate. Ma, a conti fatti, ciò che allo spettatore rimane impresso è il risultato finale, il grande nome o prodotto acclamato, e non la piccola fatica che ne ha permesso la nascita. Così, tutti i cortometraggi sopra citati sono stati già perduti nel tempo come lacrime nella pioggia, prontamente sostituiti nell’immaginario comune dalla loro versione long-form.
Ma il cortometraggio comunque continua a esistere e resistere, imperterrito. Non solo grazie ad alcuni già affermati autori che scelgono di utilizzare il formato come mezzo d’espressione indipendente - si pensi ad Alice Rohrwacher e Wes Anderson, le cui filmografie vedono un’alternanza lunghi-corti veramente lodevole, o all’acclamatissimo Yorgos Lanthimos con Nimic (2019) e ancora Pedro Almodóvar con il suo Strange way of life (2023), per fare alcuni esempi - ma anche come forma di semplice e puro intrattenimento. Incredibile ma vero.
Stiamo pensando in questo caso a titoli come Kung Fury (1985), One minute time machine (2014) e No good deed (2017). Per chi non li conoscesse sono rispettivamente: il folle omaggio agli anni ‘80 che tra i primi ha cavalcato l’onda nostalgica dell’epoca con un mix di reference e una buona dose di non-sense in salsa action; una piccola commedia sci-fi che ha trasformato una semplice idea in un prodotto mainstream dal successo incredibile continuamente soggetto a remake; una inedita quanto irriverente avventura di Deadpool, con tanto di Ryan Reynolds, cameo di Stan Lee ed evidente ironia su Superman.
Proprio quest’ultimo esempio apre le porte ad un nuovo capitolo sull’entità cortometraggio. No good deed, che nasce sulla carta come prodotto autonomo, diventa presto sfruttato dalla Fox come sketch di apertura a Logan (2017) e teaser per il successivo Deadpool 2. Una mossa astuta e riuscita, ma non certo innovativa. Perché il corto è, di fatto, anche pubblicità. E non solo. Sfruttare l’impronta autoriale del cortometraggio è un’occasione per fare branded content di qualità e rendere interessante quello che altrimenti sarebbe un altro anonimo trailer o spot.
Ci sono centinaia e centinaia di esempi di successo a riguardo – Youtube, Vimeo e Dailymotion vari ne sono pieni. Invitiamo caldamente a guardare Watchtower of Turkey (2014) e chiedersi quanti altri reel copia-incolla si sono visti di quel docu-corto, scoprire un piccolo gioiello come The lift (2019) e fare gli applausi al team marketing di Bianco, spulciare le varie campagne Esselunga e chiedersi quante volte non abbiano generato scalpore e dibattito mediatico da prima pagina.
Campari, fra gli altri, è davvero affezionata al formato tanto da chiedere ai tre grandi registi nostrani con più appeal internazionale (sì, mi riferisco a Sorrentino, Garrone e Sollima) di girare veri e propri cortometraggi, tutti vicini ai 15 minuti di durata, accomunati da precisi elementi: il bar, il genere noir, il rosso. Ed ecco che così nascono Killer in Red (2017), Entering Red (2019), The legend of Red hand (2018).
Dolce&Gabbana non è da meno e si è avvalsa più volte dell’aiuto del nostro amatissimo Tornatore per creare prodotti brevi di qualità immensa: fra tutti consiglio di recuperare il cortissimo del 1994 che vede Monica Bellucci come protagonista ed Ennio Morricone alla colonna sonora. Un micro gioiello.
Insomma, anche se non ce ne accorgiamo, il cortometraggio vive e si insinua dolcemente nelle nostre vite. E non c’è bisogno che sia un lavoro complesso di 40 minuti o un assaggio di 15. A volte è solo una scena, un’idea, un’intuizione presentata sotto forma di video. A volte è un corto low budget dell’aspirante Kubrick, a volte il delirio onirico del prossimo Lynch. A volte è il passo cruciale di un regista per raggiungere il grande pubblico, a volte è una nicchia da circolo ristretto che muore in poco tempo. A volte è un cinecomic, a volte un dramedy. A volte un costosissimo sforzo di qualche multi-nazionale, a volte un’impresa collettiva di qualche tenace studente. A volte è solo l’incipit di una storia, a volte un vero e proprio capolavoro. Quindi, perché odiamo i cortometraggi? A conti fatti... non lo so. Anche se nel piccolo, anche loro sono cinema. Una forma d’arte e di cultura. Di scala ridotta sì, ma non per questo meno importante. E quindi, che altro dire se non: lunga vita al corto.