Ritratto dell'incertezza,
recensione di Antonio Orrico
RV-105
10.05.2025
Il cinema francese ha spesso utilizzato il topos della crisi individuale come mezzo per raccontare l’inafferrabilità del presente. Fin dal cinema di Éric Rohmer, composto perlopiù da una finta leggerezza (in realtà estremamente strutturata e riflessiva), i personaggi protagonisti dei contes moraux che attraversano la Francia da oltre sessant’anni sono perlopiù soggetti in crisi, che si collocano nello scenario sociale non più attraverso una ricostruzione personale o morale, bensì tramite il vuoto, l’interruzione, il gesto trattenuto. In questo senso, Ari, nuova opera di Léonor Serraille, presentata in concorso durante l’ultima Berlinale, si inserisce a pieno in un’estetica dell’instabilità che riflette fedelmente lo spaesamento di una generazione che ha perso ogni orizzonte stabile, dal punto di vista lavorativo, affettivo e simbolico.
Sotto questo punto di vista, il nuovo film della cineasta francese, con protagonista uno straordinario Andranic Manet nel ruolo di uno stagista insegnante in una scuola materna, racconta questa deriva esistenziale opaca con un tocco molto realistico e insieme delicato. Ari è costruito sulla discontinuità, sulle forme contraddittorie e su una varietà di narrazioni ellittiche, oltre che di silenzi che regalano al film un’estetica del tutto nuova pur nella sua familiarità. La scelta di raccontare, senza moralismi né cinismo ma piuttosto con uno sguardo pienamente empatico e pudico, la parabola del protagonista riesce nell’intento di offrire allo spettatore uno dei ritratti più intensi e rigorosi del nostro tempo. Serraille ci interroga direttamente sulle condizioni di vita e sul futuro di una generazione improvvisamente sradicata da ogni centro vitale, sia esso professionale, familiare oppure semplicemente amoroso.
Il percorso che segue Manet è fatto di esitazioni continue, è un rimanere in bilico, un non sapere "dove stare". L’età che Ari attraversa non è affrontata come un semplice processo di maturazione, bensì come una stagione di smarrimento interiore e poetico. Ed è proprio in questa sospensione che il lungometraggio lascia filtrare, in ogni inquadratura, lo spleen tipico di un altro grande del cinema francese come Philippe Garrel - esplicitamente citato dallo stesso protagonista in una scena, in cui proferirà le parole “J’entends plus la guitare”, titolo dell’omonimo film del 1991 firmato dall'iconico regista. Da Garrel deriva quel medesimo senso di disorientamento e incapacità di posizionarsi presente in opere sperimentali quali L’enfant secret (1979) o La cicatrice intérieure (1972). In Ari, l’anima appassita del protagonista si riflette anche nello stile del film, che progressivamente diventa più rarefatto, rifuggendo ogni tipo di climax per abbandonarsi, piuttosto, a piani fissi, lunghi silenzi, dialoghi sospesi.
Come nel cinema di Rohmer, l’evento non accade concretamente, ma è evocato attraverso il linguaggio, i gesti, i fraintendimenti (come nella scena, emblematica in tal senso, in cui il protagonista e la sua compagna sono ripresi in campo/controcampo su una panchina di notte, disquisendo a bassa voce e rievocando tutti i rimpianti della loro vita). Ari è dunque un “contes moraux” svuotato di ogni psicologismo dalla stessa Serraille, in cui il tempo dell’azione è sempre spostato: ciò che conta non è ciò che si fa, ma ciò che si pensa, si dice, si sogna. A differenza del tono ironico e giocoso di Rohmer, però, la regista francese adotta una sorta di empatia pudica, un registro più malinconico e compassionevole che tuttavia non scivola mai nel giudizio, limitandosi ad osservare da lontano. Non c’è mai una razionalizzazione morale dell’evento, quanto piuttosto una sospensione di ogni esito relativo ai rapporti.
Non a caso, l'opera si chiude proprio con un campo lungo, in cui Andranic Manet si allontana lentamente dalla macchina da presa, camminando verso una strada deserta, inghiottito dalla luce del giorno. Eppure, nonostante tutto, noi spettatori gli restiamo accanto, perché le sue deviazioni, le sue esitazioni e le sue crisi le abbiamo ormai interiorizzate e ci appartengono. La sua è solamente una possibile uscita di scena, mai definitiva, preda dell’incertezza e della sospensione, intrisa di quell’atmosfera beckettiana che attraversa tutto il racconto. Un racconto in cui ogni elemento formale, dalla camera a mano alle luci naturali fino al sonoro in presa diretta, diviene allegoria del tempo vissuto, dello scarto tra ciò che accade fuori e ciò che si muove dentro.
Proprio quest’assenza di risoluzione permette ad Ari di slegarsi definitivamente da ogni nostalgia formale. Non si tratta di una semplice riproposizione del cinema passato, ma di un film che risplende pienamente nel panorama contemporaneo. La riluttanza a fornire una chiusura certa, la sospensione di ogni logica narrativa (non a caso, nel corso dell’ultima inquadratura lo stesso protagonista continua a camminare, libero e incurante di ciò che lo circonda) fa della pellicola uno splendido dramma contemporaneo, affrontato con una leggerezza che ne rivela l’intensità più profonda. Ari è, a tutti gli effetti, uno dei ritratti beckettiani più toccanti e rigorosi del nostro tempo e del cinema europeo odierno.
Ritratto dell'incertezza,
recensione di Antonio Orrico
RV-105
10.05.2025
Il cinema francese ha spesso utilizzato il topos della crisi individuale come mezzo per raccontare l’inafferrabilità del presente. Fin dal cinema di Éric Rohmer, composto perlopiù da una finta leggerezza (in realtà estremamente strutturata e riflessiva), i personaggi protagonisti dei contes moraux che attraversano la Francia da oltre sessant’anni sono perlopiù soggetti in crisi, che si collocano nello scenario sociale non più attraverso una ricostruzione personale o morale, bensì tramite il vuoto, l’interruzione, il gesto trattenuto. In questo senso, Ari, nuova opera di Léonor Serraille, presentata in concorso durante l’ultima Berlinale, si inserisce a pieno in un’estetica dell’instabilità che riflette fedelmente lo spaesamento di una generazione che ha perso ogni orizzonte stabile, dal punto di vista lavorativo, affettivo e simbolico.
Sotto questo punto di vista, il nuovo film della cineasta francese, con protagonista uno straordinario Andranic Manet nel ruolo di uno stagista insegnante in una scuola materna, racconta questa deriva esistenziale opaca con un tocco molto realistico e insieme delicato. Ari è costruito sulla discontinuità, sulle forme contraddittorie e su una varietà di narrazioni ellittiche, oltre che di silenzi che regalano al film un’estetica del tutto nuova pur nella sua familiarità. La scelta di raccontare, senza moralismi né cinismo ma piuttosto con uno sguardo pienamente empatico e pudico, la parabola del protagonista riesce nell’intento di offrire allo spettatore uno dei ritratti più intensi e rigorosi del nostro tempo. Serraille ci interroga direttamente sulle condizioni di vita e sul futuro di una generazione improvvisamente sradicata da ogni centro vitale, sia esso professionale, familiare oppure semplicemente amoroso.
Il percorso che segue Manet è fatto di esitazioni continue, è un rimanere in bilico, un non sapere "dove stare". L’età che Ari attraversa non è affrontata come un semplice processo di maturazione, bensì come una stagione di smarrimento interiore e poetico. Ed è proprio in questa sospensione che il lungometraggio lascia filtrare, in ogni inquadratura, lo spleen tipico di un altro grande del cinema francese come Philippe Garrel - esplicitamente citato dallo stesso protagonista in una scena, in cui proferirà le parole “J’entends plus la guitare”, titolo dell’omonimo film del 1991 firmato dall'iconico regista. Da Garrel deriva quel medesimo senso di disorientamento e incapacità di posizionarsi presente in opere sperimentali quali L’enfant secret (1979) o La cicatrice intérieure (1972). In Ari, l’anima appassita del protagonista si riflette anche nello stile del film, che progressivamente diventa più rarefatto, rifuggendo ogni tipo di climax per abbandonarsi, piuttosto, a piani fissi, lunghi silenzi, dialoghi sospesi.
Come nel cinema di Rohmer, l’evento non accade concretamente, ma è evocato attraverso il linguaggio, i gesti, i fraintendimenti (come nella scena, emblematica in tal senso, in cui il protagonista e la sua compagna sono ripresi in campo/controcampo su una panchina di notte, disquisendo a bassa voce e rievocando tutti i rimpianti della loro vita). Ari è dunque un “contes moraux” svuotato di ogni psicologismo dalla stessa Serraille, in cui il tempo dell’azione è sempre spostato: ciò che conta non è ciò che si fa, ma ciò che si pensa, si dice, si sogna. A differenza del tono ironico e giocoso di Rohmer, però, la regista francese adotta una sorta di empatia pudica, un registro più malinconico e compassionevole che tuttavia non scivola mai nel giudizio, limitandosi ad osservare da lontano. Non c’è mai una razionalizzazione morale dell’evento, quanto piuttosto una sospensione di ogni esito relativo ai rapporti.
Non a caso, l'opera si chiude proprio con un campo lungo, in cui Andranic Manet si allontana lentamente dalla macchina da presa, camminando verso una strada deserta, inghiottito dalla luce del giorno. Eppure, nonostante tutto, noi spettatori gli restiamo accanto, perché le sue deviazioni, le sue esitazioni e le sue crisi le abbiamo ormai interiorizzate e ci appartengono. La sua è solamente una possibile uscita di scena, mai definitiva, preda dell’incertezza e della sospensione, intrisa di quell’atmosfera beckettiana che attraversa tutto il racconto. Un racconto in cui ogni elemento formale, dalla camera a mano alle luci naturali fino al sonoro in presa diretta, diviene allegoria del tempo vissuto, dello scarto tra ciò che accade fuori e ciò che si muove dentro.
Proprio quest’assenza di risoluzione permette ad Ari di slegarsi definitivamente da ogni nostalgia formale. Non si tratta di una semplice riproposizione del cinema passato, ma di un film che risplende pienamente nel panorama contemporaneo. La riluttanza a fornire una chiusura certa, la sospensione di ogni logica narrativa (non a caso, nel corso dell’ultima inquadratura lo stesso protagonista continua a camminare, libero e incurante di ciò che lo circonda) fa della pellicola uno splendido dramma contemporaneo, affrontato con una leggerezza che ne rivela l’intensità più profonda. Ari è, a tutti gli effetti, uno dei ritratti beckettiani più toccanti e rigorosi del nostro tempo e del cinema europeo odierno.