Ciò che resta del desiderio,
recensione di Antonio Orrico
RV-87
29.01.2025
Il thriller erotico, a partire dal suo sviluppo all’interno del contesto edonista dell’America degli anni ’80, ha sempre "sintonizzato" il suo umore e le sue suggestioni sulla borghesia statunitense e i suoi simboli. Protagoniste assolute di questo genere sono sempre state le coppie sposate e, soprattutto, il fluire del desiderio, il far scemare ogni tipo di moralità su cui lo Stato americano è fondato (“Dio, patria e famiglia”), sabotandolo dunque dall’interno. È stato il genere che, più di tutti, ha raccolto l’urgenza di raccontare il mito del “self-made man” e di una società personalistica in rampa di lancio. Una tendenza che, negli ultimi tempi, si è pian piano affievolita, fino a sparire del tutto ed essere completamente rimpiazzata.
La spinta propulsiva del thriller erotico si è esaurita, e Babygirl (2024), terza opera dell'olandese Halina Reijn, regista che è stata a contatto con Paul Verhoeven, uno dei maestri indiscussi del genere, raccoglie proprio quelle ceneri per provare a tracciare lo stato attuale di una tipologia di cinema ormai praticamente estinta. Babygirl sovverte la narrazione, cambia il sesso dell’oggetto del desiderio (da femminile a maschile), ma soprattutto rappresenta (forse) l’unico modo di intendere, al giorno d’oggi, l’erotismo al cinema. Non è passato molto tempo, del resto, da un’altra opera molto mistificata e poco compresa messa in scena da un cineasta che, più di ogni altro, ha saputo comprendere molto bene le evoluzioni del neo-noir, facendo del corpo e del suo impiego su schermo una delle peculiarità più importanti del thriller borghese. Stiamo parlando, naturalmente, di Deep Water (2022) di Adrian Lyne, un prodotto molto particolare, che in Italia ha bypassato l'uscita in sala venendo distribuito direttamente su piattaforma (Prime Video, per la precisione).
Nel film del 2022, Lyne poneva le basi per un’indagine molto seria su cosa rappresenti e cosa sia diventato, nel cinema contemporaneo, il thriller scandalistico. Deep Water raccoglieva quindi i brandelli del neo-noir, e di quella precisa fascinazione erotica per il mistero all’interno del rapporto di coppia, e lo trasformava in una riflessione sulla rappresentazione di questa tendenza. Una rappresentazione che si forgiava della fine del sogno borghese americano (non è un caso che Ben Affleck e Ana De Armas fossero “separati” sia nel film che nella vita reale) per andare a ricercare, nuovamente, la propria identità, sia del singolo che di coppia.
Il thriller erotico, rappresentato da esempi di film notevoli quali Basic Instinct (1992) e Fatal Attraction (Attrazione Fatale, 1987), è da sempre un termometro estremamente simbolico dei rapporti che il cinema intrattiene nei confronti della raffigurazione del privato. Halina Reijn, attraverso la sua protagonista Nicole Kidman, riesce a restituirci in modo ossequioso gli argomenti attorno ai quali gravita il racconto mainstream, calandolo a pieno nelle forme cinematografiche dell’oggi. Babygirl è ricco di immagini che allo spettatore odierno appaiono anestetizzate, lontane dalla pruriginosità e dalla scabrosità dei decenni precedenti, rispecchiando in modo intelligente un immaginario che ha subito mutazioni continue ed è giunto ad un punto di fascinazione mortifera.
Come già operato dalla stessa regista nei confronti dello slasher con Bodies, Bodies, Bodies (2022), Babygirl si muove in modo estremamente sottile tra la seriosità del genere e l’auto-ironia, prende in esame la reale possibilità di portare su schermo l’eros in tempi moderni e constata che l’unico modo per farlo oggi è affidarsi ad immagini anestetiche, completamente inviluppate e concentrate nel non mostrare mai nulla di effettivamente scabroso, confinando l’erotismo nel fuori campo o, addirittura, ironizzandovi sopra, rendendolo manifesto ed esagerato. Non c’è mai una pretesa di effettiva serietà, quanto piuttosto una ridicolizzazione degli stereotipi tipici del neo-noir edonista.
Proprio tramite questa sorta di auto-ironia, il lungometraggio diventa una vera e propria parodia del genere, in cui la fisicità quasi non esiste, è appiattita, suscitando non più tensione, ma ilarità nello spettatore. Questo mood molto più disteso e dai toni serafici permette a Reijn di ridisegnare il rapporto di potere, tema significante del genere e da sempre oggetto di discussione, rovesciandone radicalmente le parti. La donna (nello specifico, un’ottima Nicole Kidman) diventa dunque conduttrice del gioco, e da puro e semplice oggetto scopico si trasforma in depositaria del desiderio. Desiderio che fa cozzare Babygirl con la dimensione dei racconti odierni segnati, inevitabilmente, dall’era MeToo e che lo colloca, piuttosto, come un vero e proprio contraltare di questo tipo di cinema, mettendo in primo piano una rappresentazione del tutto impietosa della donna, in cerca di riottenere il proprio spazio e il proprio potere sessuale - ricordando in questo la Meg Ryan di In The Cut (2003) - tramite la ridefinizione, completamente ironica, della sua matrice corporea.
Non mancano i primi piani su Nicole Kidman in cui si allude all'ossessiva cura della sua figura divistica , alle prese con ritocchini estetici che esaltano una finta giovinezza (come nei primi piani sulle punture agli zigomi). L'attrice australiana decide di suo pugno di prestarsi anima e corpo alla causa, ridicolizzando il suo stesso personaggio (borghese d’alto rango) tramite espressioni e movenze facciali che strizzano l’occhio ad una dimensione da scult vero e proprio, in modo tale da sovvertire radicalmente la tendenza, tutta hollywoodiana, di far risaltare un certo tipo di auto-determinazione femminile.
D’altra parte, nel computo complessivo di Babygirl, è l’intera categoria “boomer” ad essere oggetto di uno sguardo impietoso, come dimostra anche il rapporto impari e sbilanciato tra Harris Dickinson e Antonio Banderas, attraverso cui la Reijn pone nuovamente l’accento sullo scontro generazionale già indagato in Bodies, Bodies, Bodies. Si ha un gioco a somma zero, in cui tutti i personaggi principali vengono ridotti a mere macchiette per un puro scopo satirico e in cui anche l’uso di certa musica proveniente dagli ’80 (tra cui l'iconica Never Tear Apart Us degli INXS) concorre nell’annullare l’erotismo fino a trasformarlo in parossismo vero e proprio. Anche qui, come nel film di Adrian Lyne, si constata come questo tipo di cinema si sia ormai trasformato, mutando completamente i suoi connotati.
Il cosiddetto “film-scandalo” di quarant’anni fa è ormai decaduto. Se Deep Water ne celebrava le esequie, a Babygirl non resta altro che riderci su.
Ciò che resta del desiderio,
recensione di Antonio Orrico
RV-87
29.01.2025
Il thriller erotico, a partire dal suo sviluppo all’interno del contesto edonista dell’America degli anni ’80, ha sempre "sintonizzato" il suo umore e le sue suggestioni sulla borghesia statunitense e i suoi simboli. Protagoniste assolute di questo genere sono sempre state le coppie sposate e, soprattutto, il fluire del desiderio, il far scemare ogni tipo di moralità su cui lo Stato americano è fondato (“Dio, patria e famiglia”), sabotandolo dunque dall’interno. È stato il genere che, più di tutti, ha raccolto l’urgenza di raccontare il mito del “self-made man” e di una società personalistica in rampa di lancio. Una tendenza che, negli ultimi tempi, si è pian piano affievolita, fino a sparire del tutto ed essere completamente rimpiazzata.
La spinta propulsiva del thriller erotico si è esaurita, e Babygirl (2024), terza opera dell'olandese Halina Reijn, regista che è stata a contatto con Paul Verhoeven, uno dei maestri indiscussi del genere, raccoglie proprio quelle ceneri per provare a tracciare lo stato attuale di una tipologia di cinema ormai praticamente estinta. Babygirl sovverte la narrazione, cambia il sesso dell’oggetto del desiderio (da femminile a maschile), ma soprattutto rappresenta (forse) l’unico modo di intendere, al giorno d’oggi, l’erotismo al cinema. Non è passato molto tempo, del resto, da un’altra opera molto mistificata e poco compresa messa in scena da un cineasta che, più di ogni altro, ha saputo comprendere molto bene le evoluzioni del neo-noir, facendo del corpo e del suo impiego su schermo una delle peculiarità più importanti del thriller borghese. Stiamo parlando, naturalmente, di Deep Water (2022) di Adrian Lyne, un prodotto molto particolare, che in Italia ha bypassato l'uscita in sala venendo distribuito direttamente su piattaforma (Prime Video, per la precisione).
Nel film del 2022, Lyne poneva le basi per un’indagine molto seria su cosa rappresenti e cosa sia diventato, nel cinema contemporaneo, il thriller scandalistico. Deep Water raccoglieva quindi i brandelli del neo-noir, e di quella precisa fascinazione erotica per il mistero all’interno del rapporto di coppia, e lo trasformava in una riflessione sulla rappresentazione di questa tendenza. Una rappresentazione che si forgiava della fine del sogno borghese americano (non è un caso che Ben Affleck e Ana De Armas fossero “separati” sia nel film che nella vita reale) per andare a ricercare, nuovamente, la propria identità, sia del singolo che di coppia.
Il thriller erotico, rappresentato da esempi di film notevoli quali Basic Instinct (1992) e Fatal Attraction (Attrazione Fatale, 1987), è da sempre un termometro estremamente simbolico dei rapporti che il cinema intrattiene nei confronti della raffigurazione del privato. Halina Reijn, attraverso la sua protagonista Nicole Kidman, riesce a restituirci in modo ossequioso gli argomenti attorno ai quali gravita il racconto mainstream, calandolo a pieno nelle forme cinematografiche dell’oggi. Babygirl è ricco di immagini che allo spettatore odierno appaiono anestetizzate, lontane dalla pruriginosità e dalla scabrosità dei decenni precedenti, rispecchiando in modo intelligente un immaginario che ha subito mutazioni continue ed è giunto ad un punto di fascinazione mortifera.
Come già operato dalla stessa regista nei confronti dello slasher con Bodies, Bodies, Bodies (2022), Babygirl si muove in modo estremamente sottile tra la seriosità del genere e l’auto-ironia, prende in esame la reale possibilità di portare su schermo l’eros in tempi moderni e constata che l’unico modo per farlo oggi è affidarsi ad immagini anestetiche, completamente inviluppate e concentrate nel non mostrare mai nulla di effettivamente scabroso, confinando l’erotismo nel fuori campo o, addirittura, ironizzandovi sopra, rendendolo manifesto ed esagerato. Non c’è mai una pretesa di effettiva serietà, quanto piuttosto una ridicolizzazione degli stereotipi tipici del neo-noir edonista.
Proprio tramite questa sorta di auto-ironia, il lungometraggio diventa una vera e propria parodia del genere, in cui la fisicità quasi non esiste, è appiattita, suscitando non più tensione, ma ilarità nello spettatore. Questo mood molto più disteso e dai toni serafici permette a Reijn di ridisegnare il rapporto di potere, tema significante del genere e da sempre oggetto di discussione, rovesciandone radicalmente le parti. La donna (nello specifico, un’ottima Nicole Kidman) diventa dunque conduttrice del gioco, e da puro e semplice oggetto scopico si trasforma in depositaria del desiderio. Desiderio che fa cozzare Babygirl con la dimensione dei racconti odierni segnati, inevitabilmente, dall’era MeToo e che lo colloca, piuttosto, come un vero e proprio contraltare di questo tipo di cinema, mettendo in primo piano una rappresentazione del tutto impietosa della donna, in cerca di riottenere il proprio spazio e il proprio potere sessuale - ricordando in questo la Meg Ryan di In The Cut (2003) - tramite la ridefinizione, completamente ironica, della sua matrice corporea.
Non mancano i primi piani su Nicole Kidman in cui si allude all'ossessiva cura della sua figura divistica , alle prese con ritocchini estetici che esaltano una finta giovinezza (come nei primi piani sulle punture agli zigomi). L'attrice australiana decide di suo pugno di prestarsi anima e corpo alla causa, ridicolizzando il suo stesso personaggio (borghese d’alto rango) tramite espressioni e movenze facciali che strizzano l’occhio ad una dimensione da scult vero e proprio, in modo tale da sovvertire radicalmente la tendenza, tutta hollywoodiana, di far risaltare un certo tipo di auto-determinazione femminile.
D’altra parte, nel computo complessivo di Babygirl, è l’intera categoria “boomer” ad essere oggetto di uno sguardo impietoso, come dimostra anche il rapporto impari e sbilanciato tra Harris Dickinson e Antonio Banderas, attraverso cui la Reijn pone nuovamente l’accento sullo scontro generazionale già indagato in Bodies, Bodies, Bodies. Si ha un gioco a somma zero, in cui tutti i personaggi principali vengono ridotti a mere macchiette per un puro scopo satirico e in cui anche l’uso di certa musica proveniente dagli ’80 (tra cui l'iconica Never Tear Apart Us degli INXS) concorre nell’annullare l’erotismo fino a trasformarlo in parossismo vero e proprio. Anche qui, come nel film di Adrian Lyne, si constata come questo tipo di cinema si sia ormai trasformato, mutando completamente i suoi connotati.
Il cosiddetto “film-scandalo” di quarant’anni fa è ormai decaduto. Se Deep Water ne celebrava le esequie, a Babygirl non resta altro che riderci su.