Cannes 78,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-106
22.05.2025
Roma, 1980: dopo una detenzione a Rebibbia per un furto di gioielli, la scrittrice Goliarda Sapienza (Valeria Golino) cerca in tutti i modi di guadagnarsi da vivere. L’incontro con una sua ex compagna di carcere, Roberta (Matilda De Angelis), cattura la donna in una spirale di avvenimenti e di incontri che la porteranno a guardare con uno sguardo diverso il mondo. Sullo sfondo, gli ultimi atti degli anni di piombo, l’avvento dell’eroina e una Roma imperscrutabile.
Sbaglia chi va in sala cercando in Fuori - ultima fatica di Mario Martone presentata in concorso al Festival di Cannes 2025 - un film biografico. Della biografia della scrittrice Goliarda Sapienza, infatti, si scorgono giusto delle note a inizio e fine film, con tanto di una scena post-credit che riporta un’intervista che l’autrice di L’arte della gioia rilasciò a Enzo Biagi nel 1983. A prendere piede nel film è, semmai, la storia di un rapporto viscerale fra donne che hanno vissuto la stessa condizione e che si relazionano con una città che sembra star loro stretta.
Il paradosso attorno cui ruota il lungometraggio, tema tra l’altro di vari interventi di Goliarda Sapienza, è proprio questo: nel contesto del carcere femminile la donna acquisisce una nuova identità che si traduce in un’autonomia e una capacità di condivisione di esperienze che è totalmente in contrapposizione con la consueta vita domestica. Lo spazio carcerario, dunque, diventa uno spazio di potenzialità, di costruzione e di creazione che, una volta fuori, cessa di esistere e causa nei soggetti un senso di impotenza che va a tutti i costi colmato.
Non è un'opera semplice, Fuori, poiché lo sguardo di Mario Martone segue - e non precede - ogni oscillazione delle sue protagoniste, si apre all’inaspettato e sembra anch’esso cercare con loro uno spazio in cui esprimere una nuova identità. È un film sofisticato, Fuori. Non tanto per il lavoro di montaggio compiuto da Jacopo Quadri, che gestisce con grande abilità i flashback legati alla vita in carcere, quanto per il tentativo di Martone di dare forme nuove a questa ricerca.
Se i protagonisti di Nostalgia (2022) e di L’amore molesto (1995) vagavano per Napoli alla ricerca di qualcosa e la città diventava in qualche modo un’estensione leopardiana del loro animo, la Roma di Fuori sembra essere uno spazio in cui non può avvenire alcuna ricerca. Uno spazio assente, vuoto, dove - parafrasando un dialogo del film - non si può sapere se le persone dentro casa esistano o no. Un non-luogo, come la stazione nella quale si conclude la pellicola, in cui si muovono spettri che non riescono a trovare uno spazio dove performare la propria identità. Che i personaggi abbiano un che di fantasmatico, del resto, Martone ce lo comunica sin da subito con l’ingresso in scena di Roberta (un’eccellente Matilda De Angelis), reso con una falsa soggettiva che rende spiazzante la sua presentazione.
Fuori è dunque un film complesso, sia per il lavoro compiuto sull’immagine sia per una scrittura, firmata da Martone con Ippolita di Majo, che non dà alcun riferimento allo spettatore. Raramente una scena di Fuori finisce come ci si aspetta. Raramente un dialogo prende una piega già vista. Le varie sequenze che compongono il lungometraggio sembrano ardere e consumarsi come una fiamma in balìa del vento, tra folate improvvise e inaspettate distensioni.
Cinema politico proprio perché non politico, parafrasando ancora un dialogo del film, Fuori è sicuramente l’opera più austera di Mario Martone, ma proprio per questo la più stimolante. Lo spettatore è infatti chiamato a lavorare sulle assenze, sugli anacoluti, per riflettere su un periodo storico chiave per la storia della nostra società, quello della fine delle rivendicazioni e dell’avvento del consumismo. Quella che mette in scena Martone è, di fatto, l’utopia di un luogo e di un tempo in cui l’identità possa trovare un’espressione non vincolata - tornano qui delle suggestioni già presenti in Noi credevamo (2010) e Capri Revolution (2018).
Il film si conclude con uno sguardo in camera. Il testimone passa a noi spettatori.
Cannes 78,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-106
22.05.2025
Roma, 1980: dopo una detenzione a Rebibbia per un furto di gioielli, la scrittrice Goliarda Sapienza (Valeria Golino) cerca in tutti i modi di guadagnarsi da vivere. L’incontro con una sua ex compagna di carcere, Roberta (Matilda De Angelis), cattura la donna in una spirale di avvenimenti e di incontri che la porteranno a guardare con uno sguardo diverso il mondo. Sullo sfondo, gli ultimi atti degli anni di piombo, l’avvento dell’eroina e una Roma imperscrutabile.
Sbaglia chi va in sala cercando in Fuori - ultima fatica di Mario Martone presentata in concorso al Festival di Cannes 2025 - un film biografico. Della biografia della scrittrice Goliarda Sapienza, infatti, si scorgono giusto delle note a inizio e fine film, con tanto di una scena post-credit che riporta un’intervista che l’autrice di L’arte della gioia rilasciò a Enzo Biagi nel 1983. A prendere piede nel film è, semmai, la storia di un rapporto viscerale fra donne che hanno vissuto la stessa condizione e che si relazionano con una città che sembra star loro stretta.
Il paradosso attorno cui ruota il lungometraggio, tema tra l’altro di vari interventi di Goliarda Sapienza, è proprio questo: nel contesto del carcere femminile la donna acquisisce una nuova identità che si traduce in un’autonomia e una capacità di condivisione di esperienze che è totalmente in contrapposizione con la consueta vita domestica. Lo spazio carcerario, dunque, diventa uno spazio di potenzialità, di costruzione e di creazione che, una volta fuori, cessa di esistere e causa nei soggetti un senso di impotenza che va a tutti i costi colmato.
Non è un'opera semplice, Fuori, poiché lo sguardo di Mario Martone segue - e non precede - ogni oscillazione delle sue protagoniste, si apre all’inaspettato e sembra anch’esso cercare con loro uno spazio in cui esprimere una nuova identità. È un film sofisticato, Fuori. Non tanto per il lavoro di montaggio compiuto da Jacopo Quadri, che gestisce con grande abilità i flashback legati alla vita in carcere, quanto per il tentativo di Martone di dare forme nuove a questa ricerca.
Se i protagonisti di Nostalgia (2022) e di L’amore molesto (1995) vagavano per Napoli alla ricerca di qualcosa e la città diventava in qualche modo un’estensione leopardiana del loro animo, la Roma di Fuori sembra essere uno spazio in cui non può avvenire alcuna ricerca. Uno spazio assente, vuoto, dove - parafrasando un dialogo del film - non si può sapere se le persone dentro casa esistano o no. Un non-luogo, come la stazione nella quale si conclude la pellicola, in cui si muovono spettri che non riescono a trovare uno spazio dove performare la propria identità. Che i personaggi abbiano un che di fantasmatico, del resto, Martone ce lo comunica sin da subito con l’ingresso in scena di Roberta (un’eccellente Matilda De Angelis), reso con una falsa soggettiva che rende spiazzante la sua presentazione.
Fuori è dunque un film complesso, sia per il lavoro compiuto sull’immagine sia per una scrittura, firmata da Martone con Ippolita di Majo, che non dà alcun riferimento allo spettatore. Raramente una scena di Fuori finisce come ci si aspetta. Raramente un dialogo prende una piega già vista. Le varie sequenze che compongono il lungometraggio sembrano ardere e consumarsi come una fiamma in balìa del vento, tra folate improvvise e inaspettate distensioni.
Cinema politico proprio perché non politico, parafrasando ancora un dialogo del film, Fuori è sicuramente l’opera più austera di Mario Martone, ma proprio per questo la più stimolante. Lo spettatore è infatti chiamato a lavorare sulle assenze, sugli anacoluti, per riflettere su un periodo storico chiave per la storia della nostra società, quello della fine delle rivendicazioni e dell’avvento del consumismo. Quella che mette in scena Martone è, di fatto, l’utopia di un luogo e di un tempo in cui l’identità possa trovare un’espressione non vincolata - tornano qui delle suggestioni già presenti in Noi credevamo (2010) e Capri Revolution (2018).
Il film si conclude con uno sguardo in camera. Il testimone passa a noi spettatori.