Il cibo come finestra sul mondo,
recensione di Sofia Racco
RV-59
11.05.2024
«L’invenzione di un nuovo piatto porta gioia all’umanità più della scoperta di una stella» sintetizza Dodin Bouffant, protagonista de Il gusto delle cose, in una delle sue proverbiali massime. Una frase che riassume lo spirito alla base dell'ultimo film di Tran Anh Hung, distribuito nelle sale italiane da Lucky Red e vincitore del premio per la Miglior regia al Festival di Cannes 2023: la felicità dell’uomo non è più da ricercarsi nel cielo, né in altri mondi astratti, ma si può trovare qui, sulla terra, in qualcosa di concreto e radicato nel quotidiano come il cibo. Un racconto che si serve di una forma di narrazione sensoriale e al tempo stesso evocativa, che mette in scena l’arte gastronomica nella sua concretezza materiale ma senza tralasciare l’aspetto spirituale e intellettuale, la tensione verso qualcosa di intangibile e indefinito, tanto ignoto quanto prezioso.
Siamo nella Francia del XIX secolo, e Dodin Bouffant (Benoit Magimel) è un famoso gastronomo: Eugénie (Juliette Binoche), è la sua cuoca, dotata di un talento eccezionale. I due, al momento della storia nell’«autunno delle loro vite», lavorano insieme da vent’anni: a legarli è un profondo sentimento di amore e reciproca comprensione. Dodin ed Eugénie hanno costruito e nutrito i loro sentimenti attraverso il rito quotidiano che si consuma in cucina e richiede la compresenza e l’armonia di mente, corpo e spirito: fin dalla sequenza iniziale siamo invitati a porre tutta la nostra attenzione nei confronti di ogni singolo ingrediente e di ogni movimento che lo accompagna. Il linguaggio dominante è quello che passa attraverso il cibo: ma dire che la cucina sia una metafora sarebbe un’affermazione imprecisa. Il cibo è il mezzo e al tempo stesso il fine: il momento della preparazione e quello della degustazione sono attimi diversi e complementari di una lunga conversazione che travalica i confini della tavola e abbraccia grandi temi universali.
Il gusto delle cose è un film che traduce la luce in tempo, mostrandoci il passare dei giorni, dei mesi e delle stagioni attraverso il mutare dell'illuminazione che colpisce la cucina di Dodin Bouffant ridisegnandone i contorni. Riusciamo a distinguere l’estate dall’inverno, e la vita dalla morte, in base all’intensità e alla qualità della luce che scivola sui piatti e ne ridefinisce le sagome. La fotografia di Jonathan Ricquebourg è cucita su misura delle pietanze e dei manicaretti che escono fuori dalle pentole maneggiate da Eugénie, messi in scena come se fossero i soggetti di una natura morta, qualcosa di fragile e immutabile, uniche costanti in un mondo soggetto a una continua, seppur lenta e pacata, trasformazione.
Tra consommè raffinati e omelette norvegesi che fanno commuovere fino alle lacrime chi le assaggia, Il gusto delle cose ambisce a riassumere la vita attraverso il racconto del cibo, a partire dalle preparazioni più elaborate e dai pranzi più sontuosi fino alle ricette più elementari, ai piatti più bistrattati fatti con ingredienti di fortuna. Come il pot-au-feu, bollito contadino tipico del Nord della Francia, piatto rustico fatto di ingredienti semplici e lunghi tempi di preparazione, che assume una posizione privilegiata nel corso del film, diventando la punta di diamante del pranzo che Dodin elabora per il Principe dell’Eurasia. Un piatto preparato e consumato dalle persone povere, contrapposto ai pranzi sfarzosi e inconcludenti del sovrano, «abbondanti e ricchi ma senza luce, senza limpidezza».
I confini tra la cucina di Dodin e l’ambiente esterno dominato dalla natura sono labili e incerti, con la luce del sole che inonda gli interni della villa del gastronomo e le verdure raccolte dall’orto che fanno il loro ingresso in cucina attraverso le mani laboriose e affettuose di Eugénie. «Ho fatto un sogno strano, ho sognato di essere il primo cuoco dell’umanità» racconta Dodin ai suoi amici; «È vero, tutto è iniziato da qualcosa che si mangiava» osserva Eugénie durante una chiacchierata sul matrimonio e sulla mela mangiata da Adamo ed Eva con l’amato, entrambi seduti vicino a uno stagno, con il gracchiare delle rane di sottofondo, in un quadretto impressionista che sembra richiamare, anche visivamente, la natura lussureggiante e voluttuosa del giardino dell’Eden.
Il gusto delle cose ha il tono semplice e sublime di un racconto delle origini, di una piccola epopea che si consuma tra le mura di una cucina ottocentesca, ma assume il carattere di un’epica universale grazie alla sua capacità di raccontare attraverso il dettaglio: a partire dalle pietanze che si preparano al suo interno, la cucina di Dodin diventa un Eden in miniatura, un residuo di quell’armonia paradisiaca dove non c’è distinzione tra cielo e terra, dove vita e morte si alternano come parte del flusso indistinto dell’esistenza, come l’autunno che si succede all’estate.
Il cibo come finestra sul mondo,
recensione di Sofia Racco
RV-59
11.05.2024
«L’invenzione di un nuovo piatto porta gioia all’umanità più della scoperta di una stella» sintetizza Dodin Bouffant, protagonista de Il gusto delle cose, in una delle sue proverbiali massime. Una frase che riassume lo spirito alla base dell'ultimo film di Tran Anh Hung, distribuito nelle sale italiane da Lucky Red e vincitore del premio per la Miglior regia al Festival di Cannes 2023: la felicità dell’uomo non è più da ricercarsi nel cielo, né in altri mondi astratti, ma si può trovare qui, sulla terra, in qualcosa di concreto e radicato nel quotidiano come il cibo. Un racconto che si serve di una forma di narrazione sensoriale e al tempo stesso evocativa, che mette in scena l’arte gastronomica nella sua concretezza materiale ma senza tralasciare l’aspetto spirituale e intellettuale, la tensione verso qualcosa di intangibile e indefinito, tanto ignoto quanto prezioso.
Siamo nella Francia del XIX secolo, e Dodin Bouffant (Benoit Magimel) è un famoso gastronomo: Eugénie (Juliette Binoche), è la sua cuoca, dotata di un talento eccezionale. I due, al momento della storia nell’«autunno delle loro vite», lavorano insieme da vent’anni: a legarli è un profondo sentimento di amore e reciproca comprensione. Dodin ed Eugénie hanno costruito e nutrito i loro sentimenti attraverso il rito quotidiano che si consuma in cucina e richiede la compresenza e l’armonia di mente, corpo e spirito: fin dalla sequenza iniziale siamo invitati a porre tutta la nostra attenzione nei confronti di ogni singolo ingrediente e di ogni movimento che lo accompagna. Il linguaggio dominante è quello che passa attraverso il cibo: ma dire che la cucina sia una metafora sarebbe un’affermazione imprecisa. Il cibo è il mezzo e al tempo stesso il fine: il momento della preparazione e quello della degustazione sono attimi diversi e complementari di una lunga conversazione che travalica i confini della tavola e abbraccia grandi temi universali.
Il gusto delle cose è un film che traduce la luce in tempo, mostrandoci il passare dei giorni, dei mesi e delle stagioni attraverso il mutare dell'illuminazione che colpisce la cucina di Dodin Bouffant ridisegnandone i contorni. Riusciamo a distinguere l’estate dall’inverno, e la vita dalla morte, in base all’intensità e alla qualità della luce che scivola sui piatti e ne ridefinisce le sagome. La fotografia di Jonathan Ricquebourg è cucita su misura delle pietanze e dei manicaretti che escono fuori dalle pentole maneggiate da Eugénie, messi in scena come se fossero i soggetti di una natura morta, qualcosa di fragile e immutabile, uniche costanti in un mondo soggetto a una continua, seppur lenta e pacata, trasformazione.
Tra consommè raffinati e omelette norvegesi che fanno commuovere fino alle lacrime chi le assaggia, Il gusto delle cose ambisce a riassumere la vita attraverso il racconto del cibo, a partire dalle preparazioni più elaborate e dai pranzi più sontuosi fino alle ricette più elementari, ai piatti più bistrattati fatti con ingredienti di fortuna. Come il pot-au-feu, bollito contadino tipico del Nord della Francia, piatto rustico fatto di ingredienti semplici e lunghi tempi di preparazione, che assume una posizione privilegiata nel corso del film, diventando la punta di diamante del pranzo che Dodin elabora per il Principe dell’Eurasia. Un piatto preparato e consumato dalle persone povere, contrapposto ai pranzi sfarzosi e inconcludenti del sovrano, «abbondanti e ricchi ma senza luce, senza limpidezza».
I confini tra la cucina di Dodin e l’ambiente esterno dominato dalla natura sono labili e incerti, con la luce del sole che inonda gli interni della villa del gastronomo e le verdure raccolte dall’orto che fanno il loro ingresso in cucina attraverso le mani laboriose e affettuose di Eugénie. «Ho fatto un sogno strano, ho sognato di essere il primo cuoco dell’umanità» racconta Dodin ai suoi amici; «È vero, tutto è iniziato da qualcosa che si mangiava» osserva Eugénie durante una chiacchierata sul matrimonio e sulla mela mangiata da Adamo ed Eva con l’amato, entrambi seduti vicino a uno stagno, con il gracchiare delle rane di sottofondo, in un quadretto impressionista che sembra richiamare, anche visivamente, la natura lussureggiante e voluttuosa del giardino dell’Eden.
Il gusto delle cose ha il tono semplice e sublime di un racconto delle origini, di una piccola epopea che si consuma tra le mura di una cucina ottocentesca, ma assume il carattere di un’epica universale grazie alla sua capacità di raccontare attraverso il dettaglio: a partire dalle pietanze che si preparano al suo interno, la cucina di Dodin diventa un Eden in miniatura, un residuo di quell’armonia paradisiaca dove non c’è distinzione tra cielo e terra, dove vita e morte si alternano come parte del flusso indistinto dell’esistenza, come l’autunno che si succede all’estate.