Sogni e chimere
recensione di Mario Vannoni
RV-64
27.07.2024
La prima questione su cui si è portati a riflettere guardando Made in England: The Films of Powell and Pressburger (Made in England: i film di Powell e Pressburger) di David Hinton è se l’amalgama di amore e magia che diffonde tra gli spettatori sia frutto dell’incontenibile genio visionario dei due autori al centro del documentario o se, per influsso (in)diretto, sia l’emanazione del ricordo appassionato che il narratore, Martin Scorsese, nutre nei confronti di quel cinema meraviglioso.
La risposta sta nel in mezzo. E si chiama arte. In tutti gli intrecci che intesse con la vita, nella capacità di depositarsi nell’inconscio e di fiorire, rielaborando forme, dando corpo a nuovi scenari e creando lo spazio per una conversazione a distanza in (una) storia del cinema da riscrivere ancora e ancora scavando nei suoi luoghi dimenticati.
Made in England è la storia di un dialogo intimo, quello tra il regista di Goodfellas (Quei bravi ragazzi, 1990) e il cinema di Powell e Pressburger, ma anche quello tra quest’ultimo e noi spettatori, accompagnati per mano dal primo. È Scorsese stesso a riflettere sul concetto di mediazione nel momento in cui racconta che il suo primo incontro con il duo è avvenuto durante l’infanzia, quando, costretto a letto dall’asma, vedeva in televisione i loro film, trasmessi in scadenti versioni in bianco e nero e mancanti di alcune parti.
Una condizione non molto distante dalla nostra, che vediamo Made in England - e quindi i segmenti di quegli stessi film, magari per la prima volta - su una piattaforma di streaming (MUBI) e, dunque, sempre in televisione. Se là erano i tagli arbitrari delle emittenti a restituire una visione fallata, qui al contrario, attraverso la memoria e l’acume critico del regista, si tenta una ricostruzione per frammenti che restituisca lo stupore di quelle immagini.
Made in England non è solo un documentario celebrativo, ma anche un lungo video-saggio in cui a contare, più che la narrazione didascalica delle vicende, è il recupero di un immaginario dato per morto eppur mostrato nelle sue filiazioni più feconde: tra i film di Scorsese si nasconde l’inconscio visivo delle creazioni di Powell e Pressburger. I rossi di Mean Streets (Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno, 1973) nascono da quelli di Black Narcissus (Narciso nero, 1947) e The Red Shoes (Scarpette rosse, 1948), le cui coreografie hanno ispirato l’idea della camminata verso il ring come un balletto in Raging Bull (Toro scatenato, 1980), che a sua volta tronca il match di boxe per concentrarsi sul percorso che porta all’incontro, richiamando quanto avviene nel duello di The Life and Death of Colonel Blimp (Duello a Berlino, 1943), che, ancora, innerva i rapporti tra i personaggi di The Age of Innocence (L’età dell’innocenza, 1993).
Si potrebbe ripercorrere l’intera filmografia di Scorsese individuando le connessioni sotterranee tra i suoi film e quelli del duo, come lui stesso fa lungo tutta la durata di Made in England. Il suo ruolo, intimo e amichevole da un lato ma preciso e analitico dall’altro, è di una crucialità critica irrinunciabile: è la voce che lega, il corpo che salda, l’occhio che cuce.
Come già ci aveva abituati nelle sue precedenti opere documentarie - A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies (Un secolo di cinema - Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese, 1995), Il mio viaggio in Italia (1999) e A Letter to Elia ( 2010) - Scorsese trasforma (unisce) la sua funzione di regista in quella di conservatore e restauratore (ricordiamo che la sua Film Foundation è stata fondata nel 1990), divenendo il miglior critico di sé stesso e contribuendo a mantenere viva una storia del cinema che ha sempre nuove storie da raccontare. Una ri-narrazione che è al contempo auto-narrazione e ri-creazione - come avveniva in Hugo (Hugo Cabret, 2011): la visualizzazione critica di un immaginario collettivo.
Si potrebbe ipotizzare una sorta di proseguimento di Made in England che vada a individuare tutte le influenze che Powell e Pressburger hanno avuto sul cinema successivo. Dalle più insospettabili (George Romero), alle più evidenti (Guillermo del Toro e Nicolas Winding Refn), passando per le più fantastiche e folli (Terry Gilliam), per arrivare a quelle più dichiarate ed esibite (Brian De Palma e Francis Ford Coppola).
Proprio Coppola, già in Apocalypse Now (1979) e in One from the Heart (Un sogno lungo un giorno, 1982), ma con una ricerca inesausta e definitiva in Megalopolis (2024), fa suo quel concetto di opera d’arte totale tanto caro a Powell: il cinema come arte in grado di contenerle tutte, in cui il regista diventa come “un mago con una valigetta di trucchi” da utilizzare per realizzare l’artificio che riscatta la vita e la apre alla trascendenza, all’impossibile, al magico, perché “un vero artista non fa arte perché vuole ma perché deve”.
Ecco, quest’arte dev’essere preservata attraverso la natura intima dell’azione critica, che parte da una ricezione personale per diventare discorso collettivo nonché attività di mediazione essenziale per elaborare il senso dell’opera. Senza mai dimenticare le immagini.
Sogni e chimere
recensione di Mario Vannoni
RV-64
27.07.2024
La prima questione su cui si è portati a riflettere guardando Made in England: The Films of Powell and Pressburger (Made in England: i film di Powell e Pressburger) di David Hinton è se l’amalgama di amore e magia che diffonde tra gli spettatori sia frutto dell’incontenibile genio visionario dei due autori al centro del documentario o se, per influsso (in)diretto, sia l’emanazione del ricordo appassionato che il narratore, Martin Scorsese, nutre nei confronti di quel cinema meraviglioso.
La risposta sta nel in mezzo. E si chiama arte. In tutti gli intrecci che intesse con la vita, nella capacità di depositarsi nell’inconscio e di fiorire, rielaborando forme, dando corpo a nuovi scenari e creando lo spazio per una conversazione a distanza in (una) storia del cinema da riscrivere ancora e ancora scavando nei suoi luoghi dimenticati.
Made in England è la storia di un dialogo intimo, quello tra il regista di Goodfellas (Quei bravi ragazzi, 1990) e il cinema di Powell e Pressburger, ma anche quello tra quest’ultimo e noi spettatori, accompagnati per mano dal primo. È Scorsese stesso a riflettere sul concetto di mediazione nel momento in cui racconta che il suo primo incontro con il duo è avvenuto durante l’infanzia, quando, costretto a letto dall’asma, vedeva in televisione i loro film, trasmessi in scadenti versioni in bianco e nero e mancanti di alcune parti.
Una condizione non molto distante dalla nostra, che vediamo Made in England - e quindi i segmenti di quegli stessi film, magari per la prima volta - su una piattaforma di streaming (MUBI) e, dunque, sempre in televisione. Se là erano i tagli arbitrari delle emittenti a restituire una visione fallata, qui al contrario, attraverso la memoria e l’acume critico del regista, si tenta una ricostruzione per frammenti che restituisca lo stupore di quelle immagini.
Made in England non è solo un documentario celebrativo, ma anche un lungo video-saggio in cui a contare, più che la narrazione didascalica delle vicende, è il recupero di un immaginario dato per morto eppur mostrato nelle sue filiazioni più feconde: tra i film di Scorsese si nasconde l’inconscio visivo delle creazioni di Powell e Pressburger. I rossi di Mean Streets (Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno, 1973) nascono da quelli di Black Narcissus (Narciso nero, 1947) e The Red Shoes (Scarpette rosse, 1948), le cui coreografie hanno ispirato l’idea della camminata verso il ring come un balletto in Raging Bull (Toro scatenato, 1980), che a sua volta tronca il match di boxe per concentrarsi sul percorso che porta all’incontro, richiamando quanto avviene nel duello di The Life and Death of Colonel Blimp (Duello a Berlino, 1943), che, ancora, innerva i rapporti tra i personaggi di The Age of Innocence (L’età dell’innocenza, 1993).
Si potrebbe ripercorrere l’intera filmografia di Scorsese individuando le connessioni sotterranee tra i suoi film e quelli del duo, come lui stesso fa lungo tutta la durata di Made in England. Il suo ruolo, intimo e amichevole da un lato ma preciso e analitico dall’altro, è di una crucialità critica irrinunciabile: è la voce che lega, il corpo che salda, l’occhio che cuce.
Come già ci aveva abituati nelle sue precedenti opere documentarie - A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies (Un secolo di cinema - Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese, 1995), Il mio viaggio in Italia (1999) e A Letter to Elia ( 2010) - Scorsese trasforma (unisce) la sua funzione di regista in quella di conservatore e restauratore (ricordiamo che la sua Film Foundation è stata fondata nel 1990), divenendo il miglior critico di sé stesso e contribuendo a mantenere viva una storia del cinema che ha sempre nuove storie da raccontare. Una ri-narrazione che è al contempo auto-narrazione e ri-creazione - come avveniva in Hugo (Hugo Cabret, 2011): la visualizzazione critica di un immaginario collettivo.
Si potrebbe ipotizzare una sorta di proseguimento di Made in England che vada a individuare tutte le influenze che Powell e Pressburger hanno avuto sul cinema successivo. Dalle più insospettabili (George Romero), alle più evidenti (Guillermo del Toro e Nicolas Winding Refn), passando per le più fantastiche e folli (Terry Gilliam), per arrivare a quelle più dichiarate ed esibite (Brian De Palma e Francis Ford Coppola).
Proprio Coppola, già in Apocalypse Now (1979) e in One from the Heart (Un sogno lungo un giorno, 1982), ma con una ricerca inesausta e definitiva in Megalopolis (2024), fa suo quel concetto di opera d’arte totale tanto caro a Powell: il cinema come arte in grado di contenerle tutte, in cui il regista diventa come “un mago con una valigetta di trucchi” da utilizzare per realizzare l’artificio che riscatta la vita e la apre alla trascendenza, all’impossibile, al magico, perché “un vero artista non fa arte perché vuole ma perché deve”.
Ecco, quest’arte dev’essere preservata attraverso la natura intima dell’azione critica, che parte da una ricezione personale per diventare discorso collettivo nonché attività di mediazione essenziale per elaborare il senso dell’opera. Senza mai dimenticare le immagini.