Cannes 78,
recensione di Antonio Orrico
RV-107
23.05.2025
In una delle sequenze chiave di Magalhães, nuovo prodotto fluviale del filippino Lav Diaz - tra i più grandi e influenti autori del nostro secolo - che si affaccia per la prima volta alla forma inedita del biopic e abbraccia nuovamente il colore - dopo Norte, The End Of History (2013) -, l’esploratore protagonista osserva la costa da un'altura, in un campo lunghissimo, e pronuncia, in uno dei pochi monologhi del film: "Tutto questo attende un nome. Il nostro nome." Si tratta del preludio alla scoperta del mondo filippino da parte di Ferdinando Magellano (interpretato con rigore da Gael Garcìa Bernal), dove concluderà la sua esistenza nel 1521, lasciando infine il comando a Juan Sebastián Elcano.
Ma questa scena non è soltanto l’anticipo di un momento storico, quanto la chiave d’accesso all’intero dispositivo simbolico del film. Nonostante la durata più contenuta e l’adozione di forme stilistiche inusuali - dal biopic alla fotografia a colori - Magalhães non abbandona affatto la profonda meditazione di Diaz sulla violenza fondativa dei progetti coloniali, sull’espropriazione delle origini e sulla resistenza alla cancellazione. Nella figura di Magellano, il regista non propone l’eroe della scoperta, ma l’archetipo del colonizzatore mitico: colui che pretende di fondare una narrazione legittima là dove esiste già una memoria, un territorio, un ordine. Un personaggio che incarna l’ideologia della conquista come riscrittura forzata, come imposizione del nome per cancellare ciò che è preesistente.
Magalhães è, in questo senso, una meditazione universale sulla colonizzazione come ferita ancora aperta. La sua struttura ellittica, il suo rifiuto dell'epica, la poetica del paesaggio ostile e della negazione della parola rendono l’intero film un contro-monumento cinematografico, non solo per la storia filippina ma per ogni contesto in cui la violenza della fondazione ha oscurato la continuità dell'esistenza. Per la prima volta, Lav Diaz rivolge lo sguardo allegoricamente al nostro presente, utilizzando l’archetipo del conquistatore come dispositivo attraverso cui interrogare la questione palestinese.
La figura di Magellano, nel lungometraggio, è estremamente negativa, e non genera nulla, non costruisce, ma semplicemente impone “dittatorialmente” e devasta. Una figura che rispecchia l’anti-colonialismo della questione palestinese, in cui la fondazione dello Stato d'Israele è vista non come punto d'inizio legittimo, ma come rottura violenta, come negazione della continuità storica del popolo palestinese. Emblematica, in tal senso, è soprattutto la sequenza della messa “senza fedeli”. In essa, infatti, Gael Garcìa Bernal celebra un rito cristiano nel vuoto, in una radura disabitata, imponendo agli indigeni un battesimo non richiesto e, soprattutto, pronunciando un discorso apocalittico sulla fede che Diaz trasfigura in una liturgia del vuoto. Il significante è privo di referente, la fede diventa uno strumento di dominio. L’ambiente - inquadrato in campi vuoti, brulli, ostili - risponde con silenzio e indifferenza all’imposizione del sacro.
Magalhães demistifica, così, l’illusione del potere e la sua megalomania.La pretesa di voler fondare una Storia legittima è decostruita con forza. Il ruolo del conquistatore è completamente rovesciato da Lav Diaz, e acquisisce una connotazione fortemente negativa. L’assenza di musica diegetica amplifica il senso di dislocazione, mentre la regia, fedele alla composizione ieratica tipica del cineasta, costruisce veri e propri tableaux vivants, dove l’inquadratura si fa spazio di resistenza, più che di narrazione. L’uso del colore - cambio stilistico significativo per Diaz - richiama da vicino l’estetica teatrale e rigorosa di Manoel de Oliveira. Le luci calde di Artur Tort (storico DOP di Albert Serra), quasi caravaggesche, nelle scene d’interno, e la drammaticità cromatica negli esterni, stabiliscono un dialogo con l’opera del maestro portoghese, in particolare con il suo uso ieratico dell’immagine e la riflessione sul tempo come trauma.
Come nel cinema deoliveriano, anche in Magalhães la storia è messa in discussione, slittata, interrogata nel suo stesso farsi. Inoltre, la scelta di Lav Diaz di relegare in secondo piano la figura di Beatrice (interpretata da Ângela Ramos) è tutt’altro che marginale. Il suo silenzio, quasi spettro invisibile del film, rappresenta la memoria rimossa, la voce negata dalla narrazione dominante. In chiave allegorica, Beatrice può essere letta come incarnazione della voce palestinese: la memoria dell’altro, quella che non trova spazio nei racconti ufficiali, ma che resta viva, latente, in attesa di emergere. Una protagonista invisibile, mai realmente chiamata in causa, ma fondamentale.
Magalhães è la dimostrazione palese di un Lav Diaz che si reinventa, si apre completamente al mondo, riuscendo a darne una sua lettura in modo brillante e assolutamente non scontata, ma che alla fine resta ligio ai caratteri principali del suo cinema, trovando semplicemente altre strade ugualmente significative e intelligenti per indagare sui traumi del passato, del presente e lottando contro l’oblio istituzionale attraverso figure realistiche.
Cannes 78,
recensione di Antonio Orrico
RV-107
23.05.2025
In una delle sequenze chiave di Magalhães, nuovo prodotto fluviale del filippino Lav Diaz - tra i più grandi e influenti autori del nostro secolo - che si affaccia per la prima volta alla forma inedita del biopic e abbraccia nuovamente il colore - dopo Norte, The End Of History (2013) -, l’esploratore protagonista osserva la costa da un'altura, in un campo lunghissimo, e pronuncia, in uno dei pochi monologhi del film: "Tutto questo attende un nome. Il nostro nome." Si tratta del preludio alla scoperta del mondo filippino da parte di Ferdinando Magellano (interpretato con rigore da Gael Garcìa Bernal), dove concluderà la sua esistenza nel 1521, lasciando infine il comando a Juan Sebastián Elcano.
Ma questa scena non è soltanto l’anticipo di un momento storico, quanto la chiave d’accesso all’intero dispositivo simbolico del film. Nonostante la durata più contenuta e l’adozione di forme stilistiche inusuali - dal biopic alla fotografia a colori - Magalhães non abbandona affatto la profonda meditazione di Diaz sulla violenza fondativa dei progetti coloniali, sull’espropriazione delle origini e sulla resistenza alla cancellazione. Nella figura di Magellano, il regista non propone l’eroe della scoperta, ma l’archetipo del colonizzatore mitico: colui che pretende di fondare una narrazione legittima là dove esiste già una memoria, un territorio, un ordine. Un personaggio che incarna l’ideologia della conquista come riscrittura forzata, come imposizione del nome per cancellare ciò che è preesistente.
Magalhães è, in questo senso, una meditazione universale sulla colonizzazione come ferita ancora aperta. La sua struttura ellittica, il suo rifiuto dell'epica, la poetica del paesaggio ostile e della negazione della parola rendono l’intero film un contro-monumento cinematografico, non solo per la storia filippina ma per ogni contesto in cui la violenza della fondazione ha oscurato la continuità dell'esistenza. Per la prima volta, Lav Diaz rivolge lo sguardo allegoricamente al nostro presente, utilizzando l’archetipo del conquistatore come dispositivo attraverso cui interrogare la questione palestinese.
La figura di Magellano, nel lungometraggio, è estremamente negativa, e non genera nulla, non costruisce, ma semplicemente impone “dittatorialmente” e devasta. Una figura che rispecchia l’anti-colonialismo della questione palestinese, in cui la fondazione dello Stato d'Israele è vista non come punto d'inizio legittimo, ma come rottura violenta, come negazione della continuità storica del popolo palestinese. Emblematica, in tal senso, è soprattutto la sequenza della messa “senza fedeli”. In essa, infatti, Gael Garcìa Bernal celebra un rito cristiano nel vuoto, in una radura disabitata, imponendo agli indigeni un battesimo non richiesto e, soprattutto, pronunciando un discorso apocalittico sulla fede che Diaz trasfigura in una liturgia del vuoto. Il significante è privo di referente, la fede diventa uno strumento di dominio. L’ambiente - inquadrato in campi vuoti, brulli, ostili - risponde con silenzio e indifferenza all’imposizione del sacro.
Magalhães demistifica, così, l’illusione del potere e la sua megalomania.La pretesa di voler fondare una Storia legittima è decostruita con forza. Il ruolo del conquistatore è completamente rovesciato da Lav Diaz, e acquisisce una connotazione fortemente negativa. L’assenza di musica diegetica amplifica il senso di dislocazione, mentre la regia, fedele alla composizione ieratica tipica del cineasta, costruisce veri e propri tableaux vivants, dove l’inquadratura si fa spazio di resistenza, più che di narrazione. L’uso del colore - cambio stilistico significativo per Diaz - richiama da vicino l’estetica teatrale e rigorosa di Manoel de Oliveira. Le luci calde di Artur Tort (storico DOP di Albert Serra), quasi caravaggesche, nelle scene d’interno, e la drammaticità cromatica negli esterni, stabiliscono un dialogo con l’opera del maestro portoghese, in particolare con il suo uso ieratico dell’immagine e la riflessione sul tempo come trauma.
Come nel cinema deoliveriano, anche in Magalhães la storia è messa in discussione, slittata, interrogata nel suo stesso farsi. Inoltre, la scelta di Lav Diaz di relegare in secondo piano la figura di Beatrice (interpretata da Ângela Ramos) è tutt’altro che marginale. Il suo silenzio, quasi spettro invisibile del film, rappresenta la memoria rimossa, la voce negata dalla narrazione dominante. In chiave allegorica, Beatrice può essere letta come incarnazione della voce palestinese: la memoria dell’altro, quella che non trova spazio nei racconti ufficiali, ma che resta viva, latente, in attesa di emergere. Una protagonista invisibile, mai realmente chiamata in causa, ma fondamentale.
Magalhães è la dimostrazione palese di un Lav Diaz che si reinventa, si apre completamente al mondo, riuscendo a darne una sua lettura in modo brillante e assolutamente non scontata, ma che alla fine resta ligio ai caratteri principali del suo cinema, trovando semplicemente altre strade ugualmente significative e intelligenti per indagare sui traumi del passato, del presente e lottando contro l’oblio istituzionale attraverso figure realistiche.