L'esistenza è una maschera
recensione di Mario Vannoni
RV-65
27.08.2024
Nessun film della trilogia X è ambientato in epoca contemporanea. Si guarda sempre a un passato ammantato di un alone mitico, che è genesi e stendardo stilistico dei mondi ri-creati. In X (X: A Sexy Horror Story, 2022) era il Texas del 1979, anno conclusivo di una decade segnata da conflitti, innovazioni e rivoluzioni, che affaccia sui danzanti anni ’80 ma che ancora ricorda lo sporco e il sudore dei movimenti sociali, portandosi appresso una messa in scena low-profile ma virulenta e fintamente amatoriale; in Pearl (2022) siamo ancora in Texas, ma nel 1918, sul finire della Grande guerra, con l’influenza spagnola che dilaga e all’alba dei roaring twenties, conditi dai sogni di successo e fama specchiati nelle maniere da golden age hollywoodiana; in MaXXXine (2024), infine, ci spostiamo nella Los Angeles del 1985, nel pieno della presidenza Reagan e della diffusione del cinema muscolare, mentre lo slasher ha dato il suo meglio negli anni precedenti e la perestrojka muove i primi passi.
Tre momenti storici che sono degli effettivi turning point di un periodo culturale - a livello politico, sociale e, ovviamente, cinematografico. Se X ricercava i propri modelli negli illustri esempi passati, Pearl riavvolge il nastro cronologico del tempo e guarda avanti a sé. MaXXXine, invece, è l’unico film della trilogia che trasforma il passato in un fantasma da cui fuggire per realizzare il proprio futuro. Questo non vuol dire che la cinefilia e il citazionismo esasperato di Ti West abbiano lasciato il posto a un cinema che rifiuta i propri antenati, al contrario: MaXXXine è, tra i tre, il film che più di tutti ricorre alla citazione come strumento di costruzione della propria narrativa.
Ma se nei capitoli precedenti il passato era un mito da emulare e riprodurre, qui diventa il simulacro di un postmodernismo ipertrofico che satura la realtà di immagini, fino a disperdere la prima nelle seconde. Ciò è evidente nella ricostruzione della Los Angeles mid-eighties, che piuttosto che riprodurre fedelmente le fattezze della città, ne visualizza il riconoscimento fondato sulle rappresentazioni cui il cinema ci ha abituati. La scena di MaXXXine è un diorama di quella Los Angeles. Il che crea quell’effetto di superficie artificiale, se non del tutto posticcia, che siamo soliti attribuire a quel contesto: un mondo di plastica, basato sull’apparenza.
I modelli di X e Pearl, lì aderenti all’epoca di riferimento, tornano qui come spinta vitalistica che innerva le immagini. Gli esempi si sprecano: il set della casa di Psycho (Psyco, 1960) - citato anche nell’inquadratura dello scarico della doccia - diventa parte integrante della narrazione, il cerotto sul naso di Kevin Bacon è un evidente omaggio a Chinatown (1974) di Polanski, la figura del killer Night Stalker è ricalcata su quella degli assassini argentiani - con Profondo rosso (1975) in prima fila -, le luci neo-espressioniste - soprattutto i rossi e i blu - vengono ispirate dal neon-noir refniano, le dinamiche degli omicidi rimandano al cinema di Mario Bava - l’impalcatura strutturale del film -, gli intenti parodici vengono ricavati dallo Scream (1996) di Craven mentre il plot twist finale ricorda da vicino A Classic Horror Story (2021), per non parlare dei poster cinematografici disseminati sulle pareti delle stanze. Ci sono poi le citazioni interne, a partire dalla scena del coccodrillo di Alligator (1980), già rimasticata in X, e del piano sequenza iniziale, che è un aggiornamento speculare e glamour di quello finale presente in Pearl, senza dimenticare le frasi meta-pronunciate dai personaggi - “come una bionda di Hitchcock!”, “un B-movie con idee di serie A”, “vorrei che non finisse mai!”.
MaXXXine conferma, sulla scia dei suoi predecessori, che la realtà non è fruibile per via diretta, ma va continuamente ri-mediata e ri-agita, trasformando la vita in performance e l’esistenza in maschera. In X era la continua intromissione della macchina da presa a generare una finzione dentro la finzione e a frapporsi al reale, in Pearl era il cinematografo, macchina dei sogni capace di insediare i desideri della protagonista, in MaXXXine è il filtro del cinema che crea una realtà di secondo livello, doppiamente distante dal reale. E questa distanza è acuita dal genere scelto di volta in volta per contaminare lo slasher - il porno, il (melo)dramma musicale e il thriller - andando a scandire un’intensificazione stilistica che dal videotape amatoriale passa alla composizione formale per approdare ad esiti postmoderni, quasi fosse un itinerario nella storia del cinema che si trasforma in percorso mentale: Maxine scappa dal suo passato di attrice hard (X) per sfondare nel mondo di Hollywood (MaXXXine), in una fuga simbolizzata anche dal passaggio dalla ruralità all’urbanità; ma per farlo deve attraversare una galleria di fantasmi - ora evocati in incubi ad occhi aperti, ora ulteriormente ri-mediati su nastri di videocassette contenenti le immagini del primo film della trilogia! - che la costringono al confronto con la sua alter ego malvagia (Pearl).
Ma è anche un percorso teorico che riflette sulle sovrastrutture e che ne inscrive gli esiti sul corpo attoriale di Mia Goth, la quale interpreta un carosello di possibili sé, un’infinita serie di estranei che possiedono il suo volto e vestono la sua carne. In MaXXXine c’è una frase che viene ripetuta come un mantra: “Non accetterò una vita che non merito”. Potremmo riformularla così: “Non accetterò di vivere una sola vita, ma le meriterò tutte”. Perché ogni cosa - il cinema, lo stile, i corpi - nell’universo di Ti West, è molteplice.
L'esistenza è una maschera
recensione di Mario Vannoni
RV-65
27.08.2024
Nessun film della trilogia X è ambientato in epoca contemporanea. Si guarda sempre a un passato ammantato di un alone mitico, che è genesi e stendardo stilistico dei mondi ri-creati. In X (X: A Sexy Horror Story, 2022) era il Texas del 1979, anno conclusivo di una decade segnata da conflitti, innovazioni e rivoluzioni, che affaccia sui danzanti anni ’80 ma che ancora ricorda lo sporco e il sudore dei movimenti sociali, portandosi appresso una messa in scena low-profile ma virulenta e fintamente amatoriale; in Pearl (2022) siamo ancora in Texas, ma nel 1918, sul finire della Grande guerra, con l’influenza spagnola che dilaga e all’alba dei roaring twenties, conditi dai sogni di successo e fama specchiati nelle maniere da golden age hollywoodiana; in MaXXXine (2024), infine, ci spostiamo nella Los Angeles del 1985, nel pieno della presidenza Reagan e della diffusione del cinema muscolare, mentre lo slasher ha dato il suo meglio negli anni precedenti e la perestrojka muove i primi passi.
Tre momenti storici che sono degli effettivi turning point di un periodo culturale - a livello politico, sociale e, ovviamente, cinematografico. Se X ricercava i propri modelli negli illustri esempi passati, Pearl riavvolge il nastro cronologico del tempo e guarda avanti a sé. MaXXXine, invece, è l’unico film della trilogia che trasforma il passato in un fantasma da cui fuggire per realizzare il proprio futuro. Questo non vuol dire che la cinefilia e il citazionismo esasperato di Ti West abbiano lasciato il posto a un cinema che rifiuta i propri antenati, al contrario: MaXXXine è, tra i tre, il film che più di tutti ricorre alla citazione come strumento di costruzione della propria narrativa.
Ma se nei capitoli precedenti il passato era un mito da emulare e riprodurre, qui diventa il simulacro di un postmodernismo ipertrofico che satura la realtà di immagini, fino a disperdere la prima nelle seconde. Ciò è evidente nella ricostruzione della Los Angeles mid-eighties, che piuttosto che riprodurre fedelmente le fattezze della città, ne visualizza il riconoscimento fondato sulle rappresentazioni cui il cinema ci ha abituati. La scena di MaXXXine è un diorama di quella Los Angeles. Il che crea quell’effetto di superficie artificiale, se non del tutto posticcia, che siamo soliti attribuire a quel contesto: un mondo di plastica, basato sull’apparenza.
I modelli di X e Pearl, lì aderenti all’epoca di riferimento, tornano qui come spinta vitalistica che innerva le immagini. Gli esempi si sprecano: il set della casa di Psycho (Psyco, 1960) - citato anche nell’inquadratura dello scarico della doccia - diventa parte integrante della narrazione, il cerotto sul naso di Kevin Bacon è un evidente omaggio a Chinatown (1974) di Polanski, la figura del killer Night Stalker è ricalcata su quella degli assassini argentiani - con Profondo rosso (1975) in prima fila -, le luci neo-espressioniste - soprattutto i rossi e i blu - vengono ispirate dal neon-noir refniano, le dinamiche degli omicidi rimandano al cinema di Mario Bava - l’impalcatura strutturale del film -, gli intenti parodici vengono ricavati dallo Scream (1996) di Craven mentre il plot twist finale ricorda da vicino A Classic Horror Story (2021), per non parlare dei poster cinematografici disseminati sulle pareti delle stanze. Ci sono poi le citazioni interne, a partire dalla scena del coccodrillo di Alligator (1980), già rimasticata in X, e del piano sequenza iniziale, che è un aggiornamento speculare e glamour di quello finale presente in Pearl, senza dimenticare le frasi meta-pronunciate dai personaggi - “come una bionda di Hitchcock!”, “un B-movie con idee di serie A”, “vorrei che non finisse mai!”.
MaXXXine conferma, sulla scia dei suoi predecessori, che la realtà non è fruibile per via diretta, ma va continuamente ri-mediata e ri-agita, trasformando la vita in performance e l’esistenza in maschera. In X era la continua intromissione della macchina da presa a generare una finzione dentro la finzione e a frapporsi al reale, in Pearl era il cinematografo, macchina dei sogni capace di insediare i desideri della protagonista, in MaXXXine è il filtro del cinema che crea una realtà di secondo livello, doppiamente distante dal reale. E questa distanza è acuita dal genere scelto di volta in volta per contaminare lo slasher - il porno, il (melo)dramma musicale e il thriller - andando a scandire un’intensificazione stilistica che dal videotape amatoriale passa alla composizione formale per approdare ad esiti postmoderni, quasi fosse un itinerario nella storia del cinema che si trasforma in percorso mentale: Maxine scappa dal suo passato di attrice hard (X) per sfondare nel mondo di Hollywood (MaXXXine), in una fuga simbolizzata anche dal passaggio dalla ruralità all’urbanità; ma per farlo deve attraversare una galleria di fantasmi - ora evocati in incubi ad occhi aperti, ora ulteriormente ri-mediati su nastri di videocassette contenenti le immagini del primo film della trilogia! - che la costringono al confronto con la sua alter ego malvagia (Pearl).
Ma è anche un percorso teorico che riflette sulle sovrastrutture e che ne inscrive gli esiti sul corpo attoriale di Mia Goth, la quale interpreta un carosello di possibili sé, un’infinita serie di estranei che possiedono il suo volto e vestono la sua carne. In MaXXXine c’è una frase che viene ripetuta come un mantra: “Non accetterò una vita che non merito”. Potremmo riformularla così: “Non accetterò di vivere una sola vita, ma le meriterò tutte”. Perché ogni cosa - il cinema, lo stile, i corpi - nell’universo di Ti West, è molteplice.