Le albe e i tramonti di un cinema sommerso,
recensione di Luca Di Giulio
RV-17
17.05.2023
Finzione nel Pacifico o racconto di un “mondo sommerso”, citando il sottotitolo della versione italiana scelto da Movies Inspired per Pacifiction, il nuovo film del regista catalano Albert Serra. Un film che chiede molto allo spettatore, oltre alla permanenza in sala per quasi tre ore a ritmo lento, contemplativo e insieme dispersivo. Così dispersivo che una delle prime domande che potremmo porci a visione ultimata è proprio di natura temporale. Quelle sono albe? Tramonti? Come passa il tempo a Tahiti?
Un paio di dritte sulla trama: De Roller (un fantastico Benoît Magimel), alto commissario della Repubblica francese in servizio a Tahiti, trascorre le sue giornate tra incontri con gli indigeni e colloqui con l’ammiraglio della marina francese, tra le prove per uno spettacolo teatrale e il Paradise Night, locale notturno e punto di ritrovo dell’isola. Lo charm di Magimel emerge lentamente tramite le abilità dialettiche che ogni volta mette in gioco. Attraverso il flebile contrasto tra pacatezza e violenza, attraverso la capacità di fare politica anche quando sta dirigendo le prove teatrali di cui sopra.
Le prime battute del film, oltre a rivelarci attraverso un gioco di specchi il commissario – in mezzo al caos del Paradise Night e poi nei camerini del locale, quasi fosse un puparo – segnalano anche il nodo della trama che solidifica le fondamenta del film. Gli indigeni, recatisi a colloquio con De Roller, chiedono lumi riguardo alcune voci da loro intercettate circa una ripresa, imminente, dei test nucleari da parte del governo francese presso alcune zone limitrofe. La sequenza è affascinante: siamo a un tavolo, si sta pranzando ma solo De Roller, al centro dell’inquadratura, mangia. Gli ospiti chiedono fermezza da parte dell’alto commissario. Come si risolve la scena? Con la promessa di una festa che celebrerà quegli stessi indigeni che il protagonista vuole calmare. Di nuovo, tutto è politica, anche se non lo sembra.
Questo scontro dialettico prosegue per tutto il film. La regia di Serra accompagna, e osserva, le non-azioni di De Roller. Ancora: la presentazione di un libro scritto da un’autrice che si è rifugiata a Tahiti per uscire da un periodo di blocco, una piccola indagine su un turista o funzionario portoghese, alquanto sospetto, che ha smarrito i propri documenti e così via. In Pacifiction le sequenze si susseguono ma nulla sembra sostenere una qualsivoglia evoluzione, né dell’intreccio né dei personaggi. Nemmeno quando il film sembra aprirsi ad alcune derive appartenenti al cinema di spionaggio (pedinamenti, perlustrazioni notturne).
Se, allora, da una parte non avvertiamo un movimento nella storia, dall’altra ci sono domande che continuano ad accumularsi circa gli intenti di Serra e i misteri intrinsechi alla diegesi. Più percepiamo un crescendo tensivo più ci sentiamo trascinati all’esterno del film. Serra lentamente ci ammalia e ci disorienta. Quasi che i generi di riferimento, nel nostro caso lo spy movie e il thriller, venissero utilizzati dall’autore come meri strumenti, diventando in alcuni punti perfino oggetti di parodia. Per questo, come anticipato sopra, potremmo parlare di non-azioni di De Roller. Non-azioni e movimenti in avanti illusori della trama il cui scopo accresce anche l’aura attorno alla complessa figura del protagonista, colto, in più occasioni, a discutere con se stesso più che con i suoi interlocutori.
La storia di De Roller, nonostante tutto, finisce per perdere progressivamente significato e lasciare lo spettatore con molte domande. Come se tutto fosse stato un miraggio, al pari del sottomarino che l’alto commissario cerca di afferrare. D’altronde, in uno degli attimi precedenti il finale – la sequenza notturna e piovosa nel campo da calcio – tutto sembra finalmente apparirci più chiaro e l’inganno svelarsi ai nostri occhi. È in questo preciso istante che il film ci mostra il suo controcampo e finisce per trascinare fuori da esso anche il suo stesso protagonista. O meglio, finisce per riposizionare il suo punto di vista, che fino a quel momento aveva condizionato la nostra visione delle cose.
Cos’è dunque, alla fine dei conti, Pacifiction? Quasi centottanta minuti di film forniscono molte e incerte risposte, diverse delle quali potrebbero anche essere corrette. Probabilmente ciò che resta con maggiore evidenza è l’incanto di alcuni momenti di puro cinema e di grande costruzione dell’immagine, come la competizione di surf. O tutte quelle sopracitate albe o tramonti che durante la visione ci fanno sprofondare nella bellezza di un mondo sommerso.
Le albe e i tramonti di un cinema sommerso,
recensione di Luca Di Giulio
RV-17
17.05.2023
Finzione nel Pacifico o racconto di un “mondo sommerso”, citando il sottotitolo della versione italiana scelto da Movies Inspired per Pacifiction, il nuovo film del regista catalano Albert Serra. Un film che chiede molto allo spettatore, oltre alla permanenza in sala per quasi tre ore a ritmo lento, contemplativo e insieme dispersivo. Così dispersivo che una delle prime domande che potremmo porci a visione ultimata è proprio di natura temporale. Quelle sono albe? Tramonti? Come passa il tempo a Tahiti?
Un paio di dritte sulla trama: De Roller (un fantastico Benoît Magimel), alto commissario della Repubblica francese in servizio a Tahiti, trascorre le sue giornate tra incontri con gli indigeni e colloqui con l’ammiraglio della marina francese, tra le prove per uno spettacolo teatrale e il Paradise Night, locale notturno e punto di ritrovo dell’isola. Lo charm di Magimel emerge lentamente tramite le abilità dialettiche che ogni volta mette in gioco. Attraverso il flebile contrasto tra pacatezza e violenza, attraverso la capacità di fare politica anche quando sta dirigendo le prove teatrali di cui sopra.
Le prime battute del film, oltre a rivelarci attraverso un gioco di specchi il commissario – in mezzo al caos del Paradise Night e poi nei camerini del locale, quasi fosse un puparo – segnalano anche il nodo della trama che solidifica le fondamenta del film. Gli indigeni, recatisi a colloquio con De Roller, chiedono lumi riguardo alcune voci da loro intercettate circa una ripresa, imminente, dei test nucleari da parte del governo francese presso alcune zone limitrofe. La sequenza è affascinante: siamo a un tavolo, si sta pranzando ma solo De Roller, al centro dell’inquadratura, mangia. Gli ospiti chiedono fermezza da parte dell’alto commissario. Come si risolve la scena? Con la promessa di una festa che celebrerà quegli stessi indigeni che il protagonista vuole calmare. Di nuovo, tutto è politica, anche se non lo sembra.
Questo scontro dialettico prosegue per tutto il film. La regia di Serra accompagna, e osserva, le non-azioni di De Roller. Ancora: la presentazione di un libro scritto da un’autrice che si è rifugiata a Tahiti per uscire da un periodo di blocco, una piccola indagine su un turista o funzionario portoghese, alquanto sospetto, che ha smarrito i propri documenti e così via. In Pacifiction le sequenze si susseguono ma nulla sembra sostenere una qualsivoglia evoluzione, né dell’intreccio né dei personaggi. Nemmeno quando il film sembra aprirsi ad alcune derive appartenenti al cinema di spionaggio (pedinamenti, perlustrazioni notturne).
Se, allora, da una parte non avvertiamo un movimento nella storia, dall’altra ci sono domande che continuano ad accumularsi circa gli intenti di Serra e i misteri intrinsechi alla diegesi. Più percepiamo un crescendo tensivo più ci sentiamo trascinati all’esterno del film. Serra lentamente ci ammalia e ci disorienta. Quasi che i generi di riferimento, nel nostro caso lo spy movie e il thriller, venissero utilizzati dall’autore come meri strumenti, diventando in alcuni punti perfino oggetti di parodia. Per questo, come anticipato sopra, potremmo parlare di non-azioni di De Roller. Non-azioni e movimenti in avanti illusori della trama il cui scopo accresce anche l’aura attorno alla complessa figura del protagonista, colto, in più occasioni, a discutere con se stesso più che con i suoi interlocutori.
La storia di De Roller, nonostante tutto, finisce per perdere progressivamente significato e lasciare lo spettatore con molte domande. Come se tutto fosse stato un miraggio, al pari del sottomarino che l’alto commissario cerca di afferrare. D’altronde, in uno degli attimi precedenti il finale – la sequenza notturna e piovosa nel campo da calcio – tutto sembra finalmente apparirci più chiaro e l’inganno svelarsi ai nostri occhi. È in questo preciso istante che il film ci mostra il suo controcampo e finisce per trascinare fuori da esso anche il suo stesso protagonista. O meglio, finisce per riposizionare il suo punto di vista, che fino a quel momento aveva condizionato la nostra visione delle cose.
Cos’è dunque, alla fine dei conti, Pacifiction? Quasi centottanta minuti di film forniscono molte e incerte risposte, diverse delle quali potrebbero anche essere corrette. Probabilmente ciò che resta con maggiore evidenza è l’incanto di alcuni momenti di puro cinema e di grande costruzione dell’immagine, come la competizione di surf. O tutte quelle sopracitate albe o tramonti che durante la visione ci fanno sprofondare nella bellezza di un mondo sommerso.