

Il cinema dell'assenza,
recensione di Antonio Orrico
RV-114
23.07.2025
Nel panorama recente del cinema americano, pochi registi hanno saputo sperimentare e trovare soluzioni visive e percettive come Steven Soderbergh. Il cineasta statunitense sa giocare e spingere la grammatica filmica e il dispositivo cinematografico ai suoi estremi, ottenendo risultati che spesso spiazzano lo spettatore grazie alla capacità di coniugare un’economia di stile e di ambienti con una sofisticatezza formale che pone lo spettatore di fronte ad una visione radicale, dove ogni elemento, profilmico o non, diventa fondamentale per concepire ciò che rappresenta l’esperienza del guardare, garantendo un approccio che coinvolge direttamente anche la teoria cinematografica. In tal senso, il suo nuovo film Presence (2024) rappresenta una riflessione radicale sia sul dispositivo cinematografico che sul genere - in questo caso la ghost story - ampliandone la portata fino a trasformarli in una vera e propria ontologia dello spazio abitato: una meditazione su come i luoghi trattengano e restituiscano affetti, tensioni e traumi.
Significativo, in questo senso, è che Soderbergh introduca lo scenario borghese di Presence con un lungo carrello centrale, quasi onirico, che scopriamo subito essere la soggettiva della “presenza” che anima il racconto. Una scelta formale rischiosa, che richiama il linguaggio classico ma risulta sorprendentemente efficace, perché attraverso questo sguardo che “abita” la casa, il regista rompe gli schemi narrativi consueti. Non si tratta di un semplice espediente per generare suspense, ma di un ribaltamento del punto di vista, in cui lo spettatore è invitato a identificarsi non con i personaggi, bensì con ciò che li osserva e, soprattutto, con ciò che il cinema stesso può ancora registrare: il residuo, la scia, l’eco del passato.
Presence è dunque un film “post-fantasmatico”, in cui il fantasma è solo un vettore, o meglio, una forma attraverso la quale Soderbergh trasforma la casa in soggetto. Se inizialmente il film può richiamare tendenze dell’horror contemporaneo incentrate sul trauma della casa borghese (si pensi a Paranormal Activity o a molti titoli prodotti dalla Atomic Monster di James Wan), il gesto radicale del nuovo film dell'autore consiste nel proporre un cinema in cui l’emotività non scaturisce dai personaggi, ma dallo spazio stesso, che si fa archivio di esperienze invisibili. Lo spazio filmico si deforma facilmente, diventa sensibile, instabile, pronto a reagire a ogni impercettibile movimento della macchina da presa. Il suono – sobrio, in sottrazione – e il montaggio (firmato dallo stesso Soderbergh sotto pseudonimo, a testimonianza della sua consueta indipendenza operativa) costruiscono un’esperienza percettiva di inquietudine silenziosa, in cui ogni rumore sembra una voce trattenuta, ogni scricchiolio un segreto non confessato.
La soggettiva principale del film diventa l’occhio del vuoto, una visualità che interviene senza bisogno di didascalie, che altera lo spazio e manipola le linee narrative a proprio piacimento. Dietro l’escamotage tecnico della “prima persona”, apparentemente freddo e tacciato perlopiù di formalismo vuoto dagli spettatori, si cela invece l’abilità di Soderbergh di mostrare ciò che è rimasto attraverso una prospettiva eterea e apparentemente inconsistente, capace di cercare attraverso la MDP ciò che non è più raccontabile, ma solo ascoltabile. In più di una scena centrale di Presence - come quella del ballo o quella della cena - si percepisce un presagio d’azione: non è Soderbergh a dirigere la narrazione, ma lo stesso “protagonista” incorporeo. Un’intuizione brillante, che trasforma il film in un esperimento percettivo potente, dove l’essenziale non è ciò che accade, ma ciò che sopravvive al visibile.
Con Presence, il regista porta alle estreme conseguenze la riflessione sul dispositivo cinematografico già avviata con Kimi (2022) e Unsane (2018). Non siamo più nell’era della sorveglianza e del controllo, come nei due film precedenti, ma in quella della sensibilità spaziale, dove l’immagine non è più semplice rappresentazione, ma si fa atmosfera condensata, tensione del non detto. Il cinema, per Soderbergh, è ancora capace di far parlare ciò che non ha voce: l’architettura dell’invisibile, la traccia del dolore inscritta anche in oggetti apparentemente banali (come un battiscopa), la malinconia intrappolata nella luce di una stanza.
La “presenza” del film è, in fondo, una figura quasi dolente, che trasforma l’assenza in autentica melanconia. Anche per questo motivo, Presence non punta mai allo spavento facile, ma cerca piuttosto di rendere visibile l’impalpabile, l’eco affettivo dei luoghi. Un cinema della memoria, dove per “memoria” non si intende lo spazio semantico delle conoscenze e dei ricordi, quanto piuttosto l’ambiente dello spazio vissuto, trattato alla stregua di un soggetto emotivo in pectore. Un’opera rigorosa, muta e struggente, che rilancia la sfida del cinema come arte del percepire l’invisibile. In un’epoca in cui tutto è sorvegliato, tracciato e narrato, Soderbergh confeziona, dunque, un film sul diritto al silenzio delle cose.
Un lungometraggio che non si limita solamente a mostrare i fantasmi, come accade nelle ghost story più convenzionali, ma che ci fa sentire cosa si prova a essere il luogo in cui quei fantasmi proliferano. Un'opera indispensabile per ridefinire lo spazio del cinema, trasformato in tessuto emozionale, nella filmografia di uno dei cineasti più importanti del XXI secolo.

Il cinema dell'assenza,
recensione di Antonio Orrico
RV-114
23.07.2025
Nel panorama recente del cinema americano, pochi registi hanno saputo sperimentare e trovare soluzioni visive e percettive come Steven Soderbergh. Il cineasta statunitense sa giocare e spingere la grammatica filmica e il dispositivo cinematografico ai suoi estremi, ottenendo risultati che spesso spiazzano lo spettatore grazie alla capacità di coniugare un’economia di stile e di ambienti con una sofisticatezza formale che pone lo spettatore di fronte ad una visione radicale, dove ogni elemento, profilmico o non, diventa fondamentale per concepire ciò che rappresenta l’esperienza del guardare, garantendo un approccio che coinvolge direttamente anche la teoria cinematografica. In tal senso, il suo nuovo film Presence (2024) rappresenta una riflessione radicale sia sul dispositivo cinematografico che sul genere - in questo caso la ghost story - ampliandone la portata fino a trasformarli in una vera e propria ontologia dello spazio abitato: una meditazione su come i luoghi trattengano e restituiscano affetti, tensioni e traumi.
Significativo, in questo senso, è che Soderbergh introduca lo scenario borghese di Presence con un lungo carrello centrale, quasi onirico, che scopriamo subito essere la soggettiva della “presenza” che anima il racconto. Una scelta formale rischiosa, che richiama il linguaggio classico ma risulta sorprendentemente efficace, perché attraverso questo sguardo che “abita” la casa, il regista rompe gli schemi narrativi consueti. Non si tratta di un semplice espediente per generare suspense, ma di un ribaltamento del punto di vista, in cui lo spettatore è invitato a identificarsi non con i personaggi, bensì con ciò che li osserva e, soprattutto, con ciò che il cinema stesso può ancora registrare: il residuo, la scia, l’eco del passato.
Presence è dunque un film “post-fantasmatico”, in cui il fantasma è solo un vettore, o meglio, una forma attraverso la quale Soderbergh trasforma la casa in soggetto. Se inizialmente il film può richiamare tendenze dell’horror contemporaneo incentrate sul trauma della casa borghese (si pensi a Paranormal Activity o a molti titoli prodotti dalla Atomic Monster di James Wan), il gesto radicale del nuovo film dell'autore consiste nel proporre un cinema in cui l’emotività non scaturisce dai personaggi, ma dallo spazio stesso, che si fa archivio di esperienze invisibili. Lo spazio filmico si deforma facilmente, diventa sensibile, instabile, pronto a reagire a ogni impercettibile movimento della macchina da presa. Il suono – sobrio, in sottrazione – e il montaggio (firmato dallo stesso Soderbergh sotto pseudonimo, a testimonianza della sua consueta indipendenza operativa) costruiscono un’esperienza percettiva di inquietudine silenziosa, in cui ogni rumore sembra una voce trattenuta, ogni scricchiolio un segreto non confessato.
La soggettiva principale del film diventa l’occhio del vuoto, una visualità che interviene senza bisogno di didascalie, che altera lo spazio e manipola le linee narrative a proprio piacimento. Dietro l’escamotage tecnico della “prima persona”, apparentemente freddo e tacciato perlopiù di formalismo vuoto dagli spettatori, si cela invece l’abilità di Soderbergh di mostrare ciò che è rimasto attraverso una prospettiva eterea e apparentemente inconsistente, capace di cercare attraverso la MDP ciò che non è più raccontabile, ma solo ascoltabile. In più di una scena centrale di Presence - come quella del ballo o quella della cena - si percepisce un presagio d’azione: non è Soderbergh a dirigere la narrazione, ma lo stesso “protagonista” incorporeo. Un’intuizione brillante, che trasforma il film in un esperimento percettivo potente, dove l’essenziale non è ciò che accade, ma ciò che sopravvive al visibile.
Con Presence, il regista porta alle estreme conseguenze la riflessione sul dispositivo cinematografico già avviata con Kimi (2022) e Unsane (2018). Non siamo più nell’era della sorveglianza e del controllo, come nei due film precedenti, ma in quella della sensibilità spaziale, dove l’immagine non è più semplice rappresentazione, ma si fa atmosfera condensata, tensione del non detto. Il cinema, per Soderbergh, è ancora capace di far parlare ciò che non ha voce: l’architettura dell’invisibile, la traccia del dolore inscritta anche in oggetti apparentemente banali (come un battiscopa), la malinconia intrappolata nella luce di una stanza.
La “presenza” del film è, in fondo, una figura quasi dolente, che trasforma l’assenza in autentica melanconia. Anche per questo motivo, Presence non punta mai allo spavento facile, ma cerca piuttosto di rendere visibile l’impalpabile, l’eco affettivo dei luoghi. Un cinema della memoria, dove per “memoria” non si intende lo spazio semantico delle conoscenze e dei ricordi, quanto piuttosto l’ambiente dello spazio vissuto, trattato alla stregua di un soggetto emotivo in pectore. Un’opera rigorosa, muta e struggente, che rilancia la sfida del cinema come arte del percepire l’invisibile. In un’epoca in cui tutto è sorvegliato, tracciato e narrato, Soderbergh confeziona, dunque, un film sul diritto al silenzio delle cose.
Un lungometraggio che non si limita solamente a mostrare i fantasmi, come accade nelle ghost story più convenzionali, ma che ci fa sentire cosa si prova a essere il luogo in cui quei fantasmi proliferano. Un'opera indispensabile per ridefinire lo spazio del cinema, trasformato in tessuto emozionale, nella filmografia di uno dei cineasti più importanti del XXI secolo.