La nobile arte dell'autoinganno
recensione di Beatrice Gangi
RV-110
02.07.2025
L’essere umano è maestro nell’arte di raccontare, e raccontarsi, delle belle storie. Storie in cui un gesto crudele può trasformarsi in un gesto di pietà, un atto di dominio in filantropia, la violenza in necessità. È un talento che gli ha permesso, storicamente, di scegliere se stesso a scapito dell’altro, elevandosi a martire della “mancanza di alternative" e beneficiario, suo malgrado, di forze più grandi di lui. Di fatto, nel The End di Joshua Oppenheimer, la genesi del nostro fallimento come specie è risultante proprio da questa innata facilità all’autogiustificazione: una capacità che rende più facile preferire la prosperità all’equità, la sopravvivenza all’empatia, la sicurezza all’abnegazione.
In un tempo posteriore alla fine - della civiltà, dell’ambiente, del progresso - The End conduce lo spettatore all’interno dell’ultimo rifugio del sistema famiglia: una miniera sotterranea che ospita il microcosmo composto da Madre, Padre, Figlio. Tra gli unici (forse soli) sopravvissuti dell'élite globale, vi abitano in compagnia di una selezionata cerchia di “amici”, in realtà servi, graziati da Madre e Padre dalla fine del mondo. Il disastro all’esterno non viene mai spiegato con precisione, ma appare riconducibile alla conseguenza della reale crisi ambientale contemporanea.
Madre (Tilda Swinton) e Padre (Michael Shannon) consumano il proprio tempo illudendosi produttivi benefattori: lei come salvatrice delle arti, per aver conservato una selezione di grandi capolavori pittorici, lui come scrittore filantropo, un uomo che ha sì contribuito al collasso climatico, ma al solo scopo di favorire prosperità nelle popolazioni più povere. Figlio (George McKay) assorbe come assoluti gli insegnamenti dei genitori, nella convinzione di star venendo allevato come finale e più grande rappresentante dell’umanità. In sintesi, un sistema perfetto di narrazione, costruzione e illusione di significato. Con The End, Oppenheimer disegna una forma di autoassoluzione sistematica, quella dei salotti del potere reale, in cui l’impatto di scelte discutibili ma “finalizzate a scopi più alti” è derubricato a effetto collaterale, tragico ma giusto.
A incrinare l'equilibrio di tale microcosmo perfetto è l’arrivo di un’estranea, identificata come Ragazza e interpretata da Moses Ingram. Il personaggio, tra tutti il più ambivalente, rappresenta una presenza in bilico tra la tentazione di scivolare nello stesso gratificante sistema illusorio vigente, e l’urgenza di scendere a patti, forse redimersi, dalle proprie colpe. È in primo luogo la cura registica di Oppenheimer a evidenziare il progressivo espandersi del conflitto tra queste due forze. All’interno di ogni inquadratura, l’evoluzione dell’elemento compositivo, quanto il raffinato simbolismo nell’uso del colore, accompagna la progressiva presa d’atto collettiva dello scarto tra illusione e realtà dei fatti. Il regista esordisce quindi con i toni freddi e blu del sogno per traslare verso i bagliori di luce gialla, quasi accecante, della consapevolezza, sino a sprazzi di rosso, residui di sentimenti prima sopiti, vergogna e colpa.
Il film è un musical, ma non nella sua forma tradizionale. Le canzoni non rappresentano rivelazioni interiori, ma l'eco delle menzogne condivise esternamente. La musica, anziché liberare, è un ulteriore stratificazione dell’autoinganno sistemico dei personaggi, atto a giustificare l’ingiustificabile. Viene espresso nei brani come la sopravvivenza dei protagonisti non sia risultante del privilegio, ma volere del fato. Come le vittime della storia, abbiano presumibilmente trovato nel dolore il senso dell’esistenza. E come, chi è stato da loro lasciato indietro, lo sia stato per propria volontà o demerito.
Se un limite dell’opera va segnalato, è però nella struttura narrativa, che in alcuni momenti appare rarefatta, quasi pretestuosa. Anche l’elemento musicale, pur centrale nel concept, non sempre si rivela necessario nella sua esecuzione: è straniante ma a tratti monodimensionale. Si tratta di elementi che tuttavia non compromettono la forza complessiva di un’opera in cui Oppenheimer, ancora una volta, scava nelle fondamenta psicologiche del sopruso e della violenza. Come già accadeva in The Act of Killing (L'atto di uccidere, 2012), il regista si è infatti interrogato, in primis, sul potere distruttivo della narrazione. Non solo quella pubblica, ma soprattutto quella privata: la storia che ognuno si racconta per evitare di disprezzare se stesso. In questo senso, si può fare un parallelismo con altri sguardi recenti come quello di Jonathan Glazer in The Zone of Interest (La Zona d’Interesse, 2023), in cui il male si insinua non nella brutalità esplicita, ma nel linguaggio che lo razionalizza.
In una delle sue opere più rinomate, 1984, George Orwell scrisse: “La libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente”; ed è proprio questa libertà - quella di guardare la realtà per ciò che è, senza piegarla al racconto che ci è più comodo - a mancare nel mondo chiuso e protetto di The End. Oppenheimer lascia i propri personaggi, così come gli spettatori, con una verità scomoda, e per questo urgente: due più due farà sempre quattro. Per quanto ci si possa sforzare di credere il contrario, privilegiare il proprio benessere è un atto di egoismo, mietere una vittima significa diventarne il carnefice, una scelta razionale, o giustificabile, non è automaticamente una scelta etica. The End non è quindi solo un film sul dopo, ma sul prima: su quel momento esatto in cui abbiamo scelto noi stessi, e ci siamo raccontati che era giusto così.
La nobile arte dell'autoinganno
recensione di Beatrice Gangi
RV-110
02.07.2025
L’essere umano è maestro nell’arte di raccontare, e raccontarsi, delle belle storie. Storie in cui un gesto crudele può trasformarsi in un gesto di pietà, un atto di dominio in filantropia, la violenza in necessità. È un talento che gli ha permesso, storicamente, di scegliere se stesso a scapito dell’altro, elevandosi a martire della “mancanza di alternative" e beneficiario, suo malgrado, di forze più grandi di lui. Di fatto, nel The End di Joshua Oppenheimer, la genesi del nostro fallimento come specie è risultante proprio da questa innata facilità all’autogiustificazione: una capacità che rende più facile preferire la prosperità all’equità, la sopravvivenza all’empatia, la sicurezza all’abnegazione.
In un tempo posteriore alla fine - della civiltà, dell’ambiente, del progresso - The End conduce lo spettatore all’interno dell’ultimo rifugio del sistema famiglia: una miniera sotterranea che ospita il microcosmo composto da Madre, Padre, Figlio. Tra gli unici (forse soli) sopravvissuti dell'élite globale, vi abitano in compagnia di una selezionata cerchia di “amici”, in realtà servi, graziati da Madre e Padre dalla fine del mondo. Il disastro all’esterno non viene mai spiegato con precisione, ma appare riconducibile alla conseguenza della reale crisi ambientale contemporanea.
Madre (Tilda Swinton) e Padre (Michael Shannon) consumano il proprio tempo illudendosi produttivi benefattori: lei come salvatrice delle arti, per aver conservato una selezione di grandi capolavori pittorici, lui come scrittore filantropo, un uomo che ha sì contribuito al collasso climatico, ma al solo scopo di favorire prosperità nelle popolazioni più povere. Figlio (George McKay) assorbe come assoluti gli insegnamenti dei genitori, nella convinzione di star venendo allevato come finale e più grande rappresentante dell’umanità. In sintesi, un sistema perfetto di narrazione, costruzione e illusione di significato. Con The End, Oppenheimer disegna una forma di autoassoluzione sistematica, quella dei salotti del potere reale, in cui l’impatto di scelte discutibili ma “finalizzate a scopi più alti” è derubricato a effetto collaterale, tragico ma giusto.
A incrinare l'equilibrio di tale microcosmo perfetto è l’arrivo di un’estranea, identificata come Ragazza e interpretata da Moses Ingram. Il personaggio, tra tutti il più ambivalente, rappresenta una presenza in bilico tra la tentazione di scivolare nello stesso gratificante sistema illusorio vigente, e l’urgenza di scendere a patti, forse redimersi, dalle proprie colpe. È in primo luogo la cura registica di Oppenheimer a evidenziare il progressivo espandersi del conflitto tra queste due forze. All’interno di ogni inquadratura, l’evoluzione dell’elemento compositivo, quanto il raffinato simbolismo nell’uso del colore, accompagna la progressiva presa d’atto collettiva dello scarto tra illusione e realtà dei fatti. Il regista esordisce quindi con i toni freddi e blu del sogno per traslare verso i bagliori di luce gialla, quasi accecante, della consapevolezza, sino a sprazzi di rosso, residui di sentimenti prima sopiti, vergogna e colpa.
Il film è un musical, ma non nella sua forma tradizionale. Le canzoni non rappresentano rivelazioni interiori, ma l'eco delle menzogne condivise esternamente. La musica, anziché liberare, è un ulteriore stratificazione dell’autoinganno sistemico dei personaggi, atto a giustificare l’ingiustificabile. Viene espresso nei brani come la sopravvivenza dei protagonisti non sia risultante del privilegio, ma volere del fato. Come le vittime della storia, abbiano presumibilmente trovato nel dolore il senso dell’esistenza. E come, chi è stato da loro lasciato indietro, lo sia stato per propria volontà o demerito.
Se un limite dell’opera va segnalato, è però nella struttura narrativa, che in alcuni momenti appare rarefatta, quasi pretestuosa. Anche l’elemento musicale, pur centrale nel concept, non sempre si rivela necessario nella sua esecuzione: è straniante ma a tratti monodimensionale. Si tratta di elementi che tuttavia non compromettono la forza complessiva di un’opera in cui Oppenheimer, ancora una volta, scava nelle fondamenta psicologiche del sopruso e della violenza. Come già accadeva in The Act of Killing (L'atto di uccidere, 2012), il regista si è infatti interrogato, in primis, sul potere distruttivo della narrazione. Non solo quella pubblica, ma soprattutto quella privata: la storia che ognuno si racconta per evitare di disprezzare se stesso. In questo senso, si può fare un parallelismo con altri sguardi recenti come quello di Jonathan Glazer in The Zone of Interest (La Zona d’Interesse, 2023), in cui il male si insinua non nella brutalità esplicita, ma nel linguaggio che lo razionalizza.
In una delle sue opere più rinomate, 1984, George Orwell scrisse: “La libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente”; ed è proprio questa libertà - quella di guardare la realtà per ciò che è, senza piegarla al racconto che ci è più comodo - a mancare nel mondo chiuso e protetto di The End. Oppenheimer lascia i propri personaggi, così come gli spettatori, con una verità scomoda, e per questo urgente: due più due farà sempre quattro. Per quanto ci si possa sforzare di credere il contrario, privilegiare il proprio benessere è un atto di egoismo, mietere una vittima significa diventarne il carnefice, una scelta razionale, o giustificabile, non è automaticamente una scelta etica. The End non è quindi solo un film sul dopo, ma sul prima: su quel momento esatto in cui abbiamo scelto noi stessi, e ci siamo raccontati che era giusto così.