NC-306
27.05.2025
Sabato scorso la 78ª edizione del Festival di Cannes è giunta al termine. Per questo ultimo appuntamento ci concentreremo su cinque titoli della Competizione, tra cui il vincitore del Grand Prix della giuria Sentimental Value di Joachim Trier con protagonista Renate Reinsve, il rivoluzionario Resurrection di Bi Gan, The Mastermind di Kelly Reichardt, Woman and Child di Saeed Roustaee ed infine Eagles of the Republic di Tarik Saleh. Da Un Certain Regard vi racconteremo delle due opere prime che hanno vinto il premio per il Miglior film e il Miglior attore, La misteriosa mirada del flamenco di Diego Cespedes e Urchin di Harris Dickinson, oltre a Aisha Can’t Fly Away di Murad Mustaf. Dalla Quinzaine daremo risalto a Yes di Nadav Lapid, Kokuo di Lee Sang-il, Amour apocalypse di Anne Émond e Les filles désir di Prïncia Car. Concluderemo con The Disappearance of Josef Mengele di Kirill Serebrennikov dalla sezione Cannes Premiere e Ciudad sin sueño di Guillermo Galoe dalla Semaine de la Critique.
Sentimental Value, di Joachim Trier
Una villa di famiglia può raccontare il passato delle generazioni che ci hanno vissuto. Un’abitazione puó rappresentare l’impersonificazione dei dolori, delle gioie e dei traumi intergenerazionali che si sono ripetuti nei decenni. Nella prima sequenza di Sentimental Value, Nora (Renate Reinsve), recitando un poema scritto quando era ragazzina, inizia a riflettere sull’importanza del luogo in cui è cresciuta, una grande casa vittoriana che, ancora una volta, deve assistere alla dipartita di un membro della famiglia. Dopo la morte della madre, le due sorelle Nora e Agnes (Inga Isbdotter Lilleaas) devono affrontare il ritorno del padre assente Gustav (Stellan Skarsagard), regista che prova a riappacificarsi con la vulnerabile Nora proponendole il ruolo da protagonista del suo nuovo film, un’opera personale che narra della depressione della madre e del suo suicidio avvenuto nella casa di famiglia. La figlia più grande rifiuta all’istante l’offerta, non solo non ha ancora superato il trauma dell’abbandono, ma sta anche vivendo un periodo di profonda crisi personale. Joachim Trier dirige un’opera stratificata, nella quale non svela mai le sue carte ed invita lo spettatore a perdersi nella mondanità dei personaggi; questa struttura non lineare o senza un approccio diretto è la conseguenza del fascino che Trier ha verso il medium cinematografico, il processo creativo dell’artista e quel potere salvifico dietro ad esso. La struttura a capitoli di The Worst Person in the World (2021) si ripete anche in Sentimental Value, ma senza che il regista espliciti questi cambi repentini, l’uso della dissolvenza in nero mostra i continui salti temporali, amplificando ancora di più i segreti e i silenzi dietro alla famiglia raccontata. I tre attori principali hanno quindi l’arduo compito di colmare queste "mancanze narrative" e di trasmettere le complesse emozioni dei propri personaggi, risultando il filo conduttore del film. Eskil Vogt e Joachim Trier portano ancora una volta il tono dramedy che aveva riscontrato tanto successo nella loro sceneggiatura precedente; scene comiche ed esilaranti si susseguono a momenti drammaticamente intensi e viceversa, il mix costruito dai due sceneggiatori non stona ma cattura in maniera veritiera le intricate dinamiche famigliari. Tra Ingmar Bergman ed Henrik Ibsen, Sentimental Value è un film straordinario, nel quale Trier riesce continuamente a costruire e smontare la percezione che lo spettatore ha della storia, immergendolo in un meraviglioso dramma famigliare meta-cinematografico.
Resurrection, di Bi Gan
Ambientato in un futuro distopico dove le persone riescono a vivere più a lungo dopo aver perso l’abilità di sognare, si possono trovare i Fantasmers, delle entità che riescono ad entrare in una dimensione onirica, esplorando le molteplici realtà di un regno illusorio non lineare di cui sono ossessionati. La loro vita è dolorosa, questa via d’uscita dalla realtà sta deteriorando sempre più la condizione di queste creature ed è il compito dei Big Others di aiutare e porre fine alle sofferenze dei Fantasmers, riportando una certa linearità nella loro concezione temporale. Da questa premessa scifi, Bi Gan ha tratto Resurrection, un’odissea cinematografica che spazia i cento anni del ventesimo secolo per compiere un’analisi introspettiva sul legame uomo/cinema/cultura nella società cinese. Diviso in sei parti specifiche, Bi adopera in ognuna di esse diversi generi e tecniche cinematografiche, creando un ambizioso metissage che incarna una lettera d’amore verso la Settima Arte nelle sue forme più pure. La prima sezione segue il Big Other (interpretato da Shu Qi) nella sua ricerca del Fantasmer (Jackson Yee), e Bi Gan struttura questa parte come se fosse un film muto, più nello specifico dell’’espressionismo tedesco; gli omaggi sono molteplici, dalla figura della creatura che richiama quella del Nosferatu di Murnau, o l’uso delle prospettiva forzata e del fenachistoscopio, ed infine la tinteggiatura della pellicola. “Sognare ti porterà all’esaurimento”, già con questa frase si capisce la connotazione drammatica e triste tra il Fantasmer e il Big Other e, prima di porre fine alla sua esistenza, quest’ultimo permette al Fantasmer di rivisitare altri cento anni di sogni, racchiusi nello spazio delle due ore e mezza del film. Una pellicola cinematografica viene inserita nel corpo della creatura e da lì Bi Gan ci porta all’interno di quattro ere diverse. La prima ambientata negli anni ‘30 durante la Guerra sino-Giapponese, una spy story con al centro una valigia, il cui interno potrebbe risolvere il conflitto, la seconda durante la Rivoluzione culturale seguendo un giovane che sta affrontando il lutto del padre, la terza ambientata a cavallo degli anni ‘70 e ‘80 e segue le storie di un uomo che stringe una forte amicizia con una ragazza orfana ed insigne cercheranno di costruirsi un futuro grazie a dei giochi di magia. Ed infine l’ultimo sogno, una vampire story ambientata il 31 dicembre 1999, poche ore prima della “fine del mondo” e segue una giovane ragazza che non ha mai trasformato nessuno ed un giovane senza speranze, il tutto girato tramite un sensazionale piano sequenza di quasi 35 minuti che mette in risalto la maestria di Bi, come l’inserimento di un time-lapse che dura quanto L’Arroseur arrosé di Louie Lumière che cattura un paio d’ore della vita di diversi spettatori che stanno guardando il celebre cortometraggio. Queste persone, nei presunti ultimi istanti della loro vita optano di riunirsi e guardare un film, un forte messaggio commovente sull’importanza del cinema nelle nostre vite, rimarcato successivamente nella scena finale del film ambientata in una sala cinematografica, nella quale lo stesso regista si rivolge allo spettatore. Resurrection di Bi Gan non solo è il capolavoro del Festival di Cannes, ma un'opera che entrerà di diritto nella storia del cinema come una delle esperienze visive più incantevoli di sempre.
Woman and Child, di Saeed Roustaee
Già nel precedente Leila’s Brothers (2022), Saeed Roustaee aveva dato sfoggio alle sua grandi abilità nel gestire intensi melodrammi con al centro le dinamiche di un nucleo famigliare. Una sceneggiatura serrata e il focus sulle intense interpretazioni del cast sono ancora una volta cardini di Woman and Child, la nuova opera del cineasta iraniano presentata in Competizione. Mahnaz è un’infermiera vedova di quarant’anni che sta passando un momento complesso della sua vita; da una parte è in procinto di sposarsi con Hamid, dall’altra fatica a gestire il sempre più ribelle primogenito Aliyar. Quando una tragedia inaspettata accade, la protagonista rimarrà sola e dovrà confrontarsi non solo con i propri cari ma anche con il sistema giuridico nazionale. Woman and Child non ha grosse pretese, è un dramma denso di dialoghi nel quale Roustaee compie anche un’analisi sul ruolo della donna all’interno della società iraniana - come già accaduto in Leila’s Brothers - e sull’ingiustizia del sistema legale. Gli eccessi nella narrativa, quali sottotrame a tratti superflue e svolte nel genere thriller, non sempre funzionano, questi "vuoti" vengono però colmati da una sensazionale Parinaz Izadyar, il cui sguardo riesce a portare l’enorme fardello emotivo del film, spaziando dalla disperazione alla rabbia. La sua interpretazione è ciò che rende Woman and Child un film più che solido e trascinante dall’inizio alla fine.
The Mastermind, di Kelly Reichardt
Nel corso della sua carriera, Kelly Reichardt ha saputo raccontare con grande accuratezza determinate epoche storiche degli Stati Uniti, basti pensare a Meek’s Cutoff (2010) e First Cow (2018), film ambientati nella prima metà dell’Ottocento e con al centro storie di pionieri, oppure i più recenti Showing Up (2022) e Certain Women (2016), due ritratti "diversi" della nostra modernità. Qualunque sia il frangente storico affrontato, Reichardt ingegnosamente riesce sempre a ritrarre uno spaccato della società americana attraverso i suoi personaggi e a decostruire i generi cinematografici; in Meek’s Cutoff le suggestioni visive del film di frontiera venivano messe da parte per creare una sorta di realismo contemporaneo, e lo stesso si può affermare in The Mastermind. Ambientato negli anni ‘70, più nello specifico nel periodo della guerra in Vietnam, il film segue le vicende di James (un sempre accattivante Josh O’Connor), una persona tanto carismatica quanto disillusa che decide di ideare una rapina per rubare dei dipinti appartenenti al museo locale. Non si sa il motivo preciso di certe azioni ne se James abbia esperienza nel settore. Reichardt tramite il suo personaggio e l’atto della rapina vuole rappresentare una sorta di metafora sugli Stati Uniti e il loro coinvolgimento nella Guerra in Vietnam; James è ossessionato dalla rapina nonostante non abbia pianificato minimamente le conseguenze o i passi successivi, e anche se all’inizio sembra che l’abbia fatta franca, le ripercussioni ben presto lo raggiungeranno. Diretto come se fosse una commedia nera dei fratelli Coen, The Mastermind sfoggia un senso dell’umorismo atipico per il cinema di Reichardt, soprattutto nella dinamica centrale tra James e i goffi colleghi di rapina. Il senso del luogo, la rappresentazione nostalgica degli anni ‘70 e il ritmo pacato, tutti tratti tipici del cinema della regista, funzionano meticolosamente. Inoltre, pur essendo un heist movie, non è presente nel lungometraggio quel senso di urgenza tipico del genere, tantomeno il focus su set up action o inseguimenti vari - questi sono presenti, ma non sono mai diretti pensando al cinema di genere. The Mastermind è l’ennesimo gioiellino di Kelly Reichardt, che sapientemente mostra le sue doti camaleontiche confermando, ancora una volta, di essere una delle cineaste più adatte a raccontare la storia degli Stati Uniti con uno sguardo originale e distintivo rispetto ai suoi contemporanei.
Eagles of the Republic, di Tarik Saleh
George Fahmy (Fares Fares) è l’attore più famoso in Egitto, il suo status ha raggiunto una fama e un rispetto che vanno oltre alla sua professione, è una persona che può avere un forte impatto su ciò che accade al Cairo. Il governo ne è consapevole e mette pressione su Fahmy per far sì che reciti in un film di propaganda con l’intento di monopolizzare e condizionare il futuro della nazione. Eagles of the Republic aveva molto potenziale, un thriller politico alla John le Carré, ma Tarik Saleh sorprendentemente fatica a dare un’identità al film; la prima parte sembra più una commedia sul “wrong man” dove l’attore si trova bloccato in delle sequenze "vignettistiche" che risultano poco simpatiche, mentre le svolte drammatiche non centrano l’obbiettivo e risultano piuttosto inconcludenti. Eagles of the Republic doveva puntare interamente sullo stato di paranoia di Fahmy, sull’intricata rete spionistica dietro alla sua scelta di fare il film e sulla ricerca personale dell’attore per la verità. Saleh raggiunge questo solo nell’ultima parte del lungometraggio, grazie ad una incitante sequenza d’azione, ma purtroppo è troppo tardi per salvare un’opera che per la prima ora e mezza lascerà piuttosto indifferenti. Fares Fares parzialmente riesce a far interessare per l’intera durata del film, ma questa risulta comunque la sua interpretazione più debole nella trilogia del Cario di Tarik Saleh.
The Disappearance of Josef Mengele, di Kirill Serebrennikov
Dopo la sovrabbondante odissea punk di Limonov (2023), Kirill Serebrennikov torna al Festival di Cannes con The Disappearance of Josef Mengele, un adattamento dell’omonimo romanzo di Olivier Guez che segue le vicende dell’ “Angelo della morte” dopo la Seconda Guerra Mondiale. Mengele era un dottore della SS che compieva crudeli esperimenti sui deportati nei campi di concentramento, e per via della sua triste notorietà, fu costretto a scappare in Sud America. Serebrennikov primeggia dapprima nell’infondere l’opera con un’atmosfera languida, deliberatamente lenta per trasmettere lo stato di costante paranoia che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni dell'esistenza del protagonista, ma, man mano che il film prosegue, sembra quasi che esso voglia mostrare un certo sentimentalismo e una sorta di redenzione da parte di Mengele - un approccio pericoloso che viene affrontato da Serebrennikov in maniera troppo didascalica. August Diehl è l’unica nota considerevole del film, la sua interpretazione racchiude perfettamente la personalità ripugnante e trasudante d’odio di Mengele. The Disappearance of Josef Mengele non è un film da bocciare, ci sono dei notevoli pregi a livello tecnico e la già citata interpretazione centrale, ma sembra quasi che il regista non riesca a trovare una via di mezzo tra l’eccesso di opere come Limonov, l’approccio troppo sicuro di Tchaikovsky’s Wife (2021) e quest’ultimo film.
Urchin, di Harris Dickinson
In soli pochi anni, Harris Dickinson è riuscito a costruirsi una buona carriera come attore, mostrando di essere uno degli interpreti più versatili della sua generazione. All’apice di questo buon momento della sua carriera decide di prendere un rischio e dirigere la sua opera prima, selezionata al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Urchin si concentra sulle vicende di Mike (Frank Dillane, vincitore del premio come Miglior attore), un tossicodipendente che, dopo aver aggredito un uomo e aver scontato otto mesi di prigione, prova a ricostruirsi una nuova vita. L’opera prima di Dickinson evita abilmente i cliché del genere, non è intenzionata a mostrare l’arco di redenzione del protagonista, ma a regalare una panoramica sull’autodistruzione di una persona che crede che le sue sventure siano dovute ad un mondo crudele. C’è un qualcosa di affascinante nel modo in cui Dillane ritrae Mike; la sua personalità tossica e repellente dovrebbe creare una certa distanza, ma la presenza carismatica dell’attore fa affezionare e credere nelle “buone intenzioni” del protagonista. Dickinson dirige un interessante character study, un mix tra i primi film dei Safdie e Naked (1993) di Mike Leigh, e si prende anche lo sfizio di interpretare un piccolo ruolo nel film, una sorta di antitesi di Mike che riesce ad uscire dal turbinio della dipendenza. La regia di Dickinson prende alcuni rischi con l’inserimento di alcune sequenze che tendono alla dimensione onirica, queste non solo non stonano con l’opera, ma aggiungono quel tocco che rende Urchin un’opera prima ammaliante e per nulla prevedibile.
La mirada misteriosa del flamenco, di Diego Céspedes
A trionfare nella sezione Un Certain Regard è stata l’opera prima di Diego Céspedes. Ambientata nel 1982, La misteriosa mirada del flamenco narra di una cittadina remota in un deserto cileno durante l’epidemia di AIDS. Ciò che rende vivo questo villaggio sperduto è una cantina dove i minatori, dopo una lunga giornata di lavoro, trovano sollievo interagendo con una comunità queer di travestiti, tra cui la carismatica Flamingo (Matías Catalán), la “madre” di questo gruppo, che vive insieme alla figlia dodicenne Linda. Sin dalle prime sequenze, Céspedes riesce a trasmettere accuratamente quel senso di comunità e sostegno reciproco, rappresentando la cantina come un rifugio dalle discriminazioni locali - la popolazione infatti accusa Flamingo e il resto della comunità queer di diffondere la “peste” attraverso il loro sguardo. L’allegoria visiva di Céspedes strizza l’occhio al realismo magico e raggiunge il suo apice nella prima parte grazie alla carismatica presenza di Matías Catalán e per come il regista cileno riesce a trasmettere la prospettiva della giovane Linda sull’intera storia. Tuttavia, La misteriosa mirada del flamenco prende un andamento piuttosto prevedibile una volta che uno dei personaggi principale esce di scena, ciò nonostante riesce comunque a concludere su una forte nota emotiva. Tutto sommato l’opera prima di Céspedes è più che riuscita e si possono tralasciare parzialmente le carenze della seconda parte.
Aisha Can’t Fly Away, di Murad Mustafa
Ci sono storie che ci ricordano come noi europei siamo privilegiati in molti aspetti aspetti, soprattutto quando si tratta di spostarci in un altra Nazione per cambiare vita. Per molti altri, lasciare il proprio paese per migliorare la propria esistenza, spesso non è un sogno che si realizza, ma un incubo che sta per prendere forma. Morad Mostafa si presenta a Cannes, nella categoria Un certain regard, col suo primo lungometraggio Aisha can’t Fly away, dove racconta le difficoltà di una ragazza sudanese che emigra in Egitto. Aisha ha 26 anni e ha lasciato la famiglia in Sudan per trasferirsi al Cairo. Qui secondo i suoi piani, avrebbe dovuto portare avanti gli studi di medicina e poi trovarsi un lavoro in ospedale, invece si ritrova a lavorare come caregiver nelle case di diversi anziani. Attraverso gli occhi di Aisha, Morad ci mostra la dura realtà e la tensione che esiste tra i cittadini del Cairo e gli immigrati provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana. I vari quartieri vengono controllati da gang violente che decidono delle vite di chi ci abita, compresa quella di Aisha. La camera a mano segue la protagonista come fosse un ombra e ci mostra la sua quotidianità e le sue paure, creando così un film che risulta lento ma carico di tensione. Buliana Simon nei panni di Aisha, incanta lo spettatore fin da subito. La sua presenza è magnetica, e i suoi lunghi silenzi trasmettono più di mille parole. Il film, infatti, riesce a trasmettere molto nonostante la quasi assenza di lunghi dialoghi, che sarebbero infatti risultati di troppo. Morad per tanto gioca con i silenzi e lascia che siano gli sguardi e gli ambienti a parlare. Aisha Can’t fly away non vuole essere solo un film di denuncia, ma la fotografia di una realtà che purtroppo esiste e la testimonianza che ,come Aisha, sono in tanti a credere di non avere una via di fuga da un incubo.
Yes, di Nadav Lapid
Ambientato dopo il 7 Ottobre 2023, Yes di Nadav Lapid segue le vicende di Y., un artista jazz che, insieme alla moglie ballerina Yasmin, sta faticando a trovare ingaggi e a crescere il figlio nato l’indomani dello scoppio della guerra. I due prendono quindi la decisione di vendersi artisticamente all’élite militarista di Tel Aviv, assecondando ogni loro richiesta, tra cui quella di comporre un nuovo inno che possa galvanizzare il popolo d’Israele nella loro lotta contro la Palestina. Il film di Lapid non è interessato a prendere una posizione politica poiché più volte il cineasta riafferma in maniera estenuante gli orrori perpetrati da parte di Israele, soprattutto in un monologo chiave di Y. nel quale rompe la quarta parete e interpella direttamente il pubblico in sala. Lapid dirige un’opera pretenziosa ed eccessiva, la cui satira è talmente diretta da nauseare lo spettatore. È proprio questa forte identità tumultuosa e rabbiosa che rende Yes un film unico nel suo genere; la prima parte è un susseguirsi di scene caotiche ed esilaranti dove la satira raggiunge il suo apice, come anche lo stile di Lapid. La camera non è mai ferma, segue ininterrottamente la frenesia della vita di Y., che esso sia ad un party o durante una conversazione con la moglie che scaturisce in un ballo frenetico. La seconda parte, nella quale Y. intraprende questo viaggio sul confine Israele/Palestina per cercare “ispirazione” per l’inno che deve comporre, risulta più pacata stilisticamente, ma più sfrontata nella critica morale delle azioni del protagonista. Non tutto funziona all’interno del film, particolarmente negli istanti finali, ciò nondimeno la visione di Yes è risultata una delle più gratificanti del festival per l’ambizione stilistica e narrativa mostrata dal cineasta.
Kokuho, di Lee Sang-il
Tendiamo a pensare che la mitologia racconti sempre e solo dei tempi antichi, che vede come protagonisti gli uomini e le divinità; eppure la mitologia la si può trovare anche nelle storie a noi contemporanee. Lee Sang-il col suo nuovo film Kokuho, presentato nella sezione Quinzaine des cinéastes, ci restituisce un dramma degno di una leggenda mitologica. Il film inizia nel 1964, il Giappone è in piena crescita economica e il giovane Kikuo (interpretato da giovane da Soya Kurosawa conosciuto al grande pubblico per L’innocenza di Hirokazu Kore’eda), nato in una famiglia della yakuza, per uno strano gioco del destino si ritroverà a vivere sotto il tetto del grande attore kabuki Hanjiro Hanai (interpretato da Ken Watanabe famoso a livello internazionale per film come Memorie di una Geisha e Inception) e a diventare suo discepolo. Lee Sang-il porta il mondo del teatro kabuki – forma teatrale giapponese nata nel diciassettesimo secolo che prevede che combina danza e recitazione e che è recitato solo da uomini – in tutto il suo splendore, ma non vuole mostrare al pubblico ciò che avviene sotto ai riflettori, ma soprattutto raccontare quel mondo dietro le quinte, dove le maschere cadono e la realtà si fa più crudele di quel che sembra. Come ogni mito che si rispetti, il protagonista ha la propria nemesi, il figlio del suo maestro, Shunsuke, che ha la sua stessa età e come lui studia per diventare onnagata (attore specializzato nei ruoli femminili). Il regista sudcoreano concentra la storia sul rapporto tra i due ragazzi, che a modo loro si completano ma si scontrano. Se da una parte Kikuo rappresenta il talento naturale, quello che tutti invidiano pur rimanendo affascinati, Shunsuke, invece, è figlio d’arte, e pertanto ha un nome di famiglia da tutelare che gli pesa sulle spalle. Kokuho è un film lungo e complesso che tratta diverse tematiche: il rapporto fraterno, la competizione nel mondo culturale, la fame di successo e la determinazione. Lee Sang-il ci incanta con le scene di kabuki, ma soprattutto ci fa empatizzare con chi ogni giorno sacrifica qualcosa di sé e della propria vita per portare quell’arte davanti a un pubblico.
Les filles desir, di Prïncia Car
Prïncia Car è uno dei nomi nuovi del cinema francofona, data la sua provenienza belga. Fin da giovanissima, ha sviluppato una notevole passione per le arti performative, dedicandosi a musica, alla danza, al canto e alla recitazione. A 13 anni ha ricevuto la sua prima videocamera VHS, segnando l'inizio del suo interesse per il cinema. Dopo un percorso scolastico scientifico, ha deciso di seguire la sua vocazione artistica iscrivendosi all'INRACI di Bruxelles, dove si è diplomata in regia e direzione della fotografia nel 2012. Durante questi anni di studio, ha realizzato diversi cortometraggi, tra cui Tony (2012) e Pépita (2011). Nel 2018, la regista ha fondato una propria scuola di cinema autonoma a Marsiglia, con l'obiettivo di rendere l'arte accessibile ai giovani provenienti da contesti svantaggiati. Dopo aver prodotto vari cortometraggi e numerosi video musicali premiati, nel 2025 ha scritto il suo primo lungometraggio, dal titolo Les Filles Désir, presentato per la Quinzaine des Cinéastes. Il film esplora le dinamiche del desiderio e delle relazioni di genere attraverso una storia molto giovanile e fresca, e si contraddistingue per essere un coming-of-age dai caratteri estremamente libertini, che si muove con coraggio sul crinale tra intimità e brutalità del desiderio. Les Filles Désir mette in scena una sensualità inquieta, mai addomesticata, che emerge tra sguardi, gesti trattenuti, dialoghi interrotti, e la regista costruisce una narrazione rarefatta, quasi diaristica, che sembra più intenta a captare vibrazioni emotive che a raccontare eventi e che, inevitabilmente, richiama da vicino lo stile e le ambientazioni tipiche del cinema francese di Abdellatif Kechiche. Paragone che incalza sempre di più nel corso della narrazione, in quanto, come in La vie d’Adèle (2013), anche qui il corpo è messo al centro, filmato con una prossimità quasi invasiva, ma senza mai indulgere nel voyeurismo. Se Kechiche tende, però, ad una saturazione sensoriale, alla ripetizione e all’estasi carnale, Prïncia Car invece predilige la sottrazione, il non-detto, il vuoto come spazio di tensione. La sua regia è più ellittica, meno interessata alla performance degli attori quanto alla loro presenza, alla loro fragilità esposta, e soprattutto si caratterizza per un uso sobrio ma espressivo del digitale: la grana dell’immagine non viene mai levigata, restituendo una qualità materica che si sposa bene con il tono sospeso del racconto. I piani-sequenza non sono esibiti ma timidamente insinuati, come se volessero rimanere invisibili, e proprio per questo anche la luce naturale è dominante, lasciando quindi spazio alle varie emotività che caratterizzano i personaggi adolescenti del film e trasformando il film in un atto di ascolto nei confronti non solo dei desideri più reconditi, quanto anche del tempo che passa e delle trasformazioni che avvengono senza annuncio.
Amour apocalypse, di Anne Émond
In un mondo dove tutto è incerto e la fine è sempre più vicina è giusto voler cercare la gioia per andare avanti? Anne Émond si presenta a Cannes, nella Quinzaine des cinéastes, col suo nuovo film Amour Apocalypse (tradotto per il mercato estero Peak Everything) dove affronta con ironia, ma soprattutto una grande consapevolezza, l’ansia che si può provare a vivere su un pianeta che sta morendo. Adam ha 45 anni e da sempre si sente schiacciato dalla vita e dalla paura di non avere più un futuro, timore che sa nascere dall’avanzare del cambiamento climatico. Adam porta avanti una vita tranquilla, gestisce un canile, ha a che fare con una collaboratrice più giovane e sessualmente problematica, e nel tempo libero si incontra con suo padre. Nonostante la serenità delle sue giornate, cerca una soluzione alla propria tristezza, a cui non riesce a dare il nome di depressione, e compra una lampada per l’umore, ancora non sa che sarà proprio grazie a quello strano oggetto che conoscerà Tina, una dipendente del call center dell’azienda di produzione, che con la sua voce, bassa e dolce, lo distrarrà dai brutti pensieri.Anne Émond fa un uso sapiente del montaggio, dove la libera dalla mera funzione di grammatica cinematografica, ma lo utilizza come elemento di stile, soprattutto sonoro. Infatti le catastrofi naturali che ci presenta nel corso del film, le percepiamo prima con l’udito e solo dopo (non sempre) ci vengono mostrate. Inoltre, la regista canadese gioca con la percezione dello spettatore, portandolo nella mente di Adam, rimanendo dunque in equilibrio tra sogno e realtà. La tematica ambientale è molto sentita all’interno del film, non solo dai discorsi di Adam, ma soprattutto dalle continue crisi che Anne Émond porta sul grande schermo e che mostrano però la dubbia natura dell’uomo – causa scatenante del problema – che se da una parte si spaventa davanti alla forza della natura, dall’altra si adegua subito al cambiamento fino a rinnegare che esista davvero un pericolo. Non è un caso se il protagonista si chiami come il primo uomo, perché come l'Adamo biblico dovette rinunciare al paradiso terrestre per ricominciare tutto da capo in un ambiente più ostile, così il protagonista di Émond, si fa metafora di tutti noi che stiamo assistendo allo sgretolamento del mondo che conosciamo e dobbiamo trovare il modo di imparare a viverci di nuovo.
Ciudad sin sueño, di Guillermo Galoe
Esordio nel lungometraggio di Guillermo Galoe, Ciudad sin sueño è una storia ambientata ai margini di Madrid, nella baraccopoli di Cañada Real, la più grande d'Europa. Rielaborando temi e situazioni di un suo precedente, il regista spagnolo dipinge con grande umanità il ritratto di un ragazzo, Toni, che è nato e cresciuto in quel ghetto. Ciudad sin sueño ricorda il Jonas Carpignano di A ciambra sia per la direzione degli attori, non professionisti, sia per alcune scelte stilistiche. A colpire però, nel film, sono alcune scelte che si distaccano in qualche modo dalla consuetudine realista del cinema d'autore europeo. Ci riferiamo, in particolare, alla scelta di ricorrere a filtri che, distorcendo i colori, ci fanno percepire le modalità con cui i giovani protagonisti del film percepiscono la realtà della baraccopoli e a un utilizzo insolito per questo genere di cinema di lunghe panoramiche che rallentano il ritmo dell'azione, ma che concedono allo spettatore la possibilità di esperire a 360 gradi dell’universo in cui è ambientato il film. Non mancano, purtroppo, alcune lungaggini proprie di molti film che vengono tratti da cortometraggi e un utilizzo sin troppo scolastico dei simboli. Ma la potenza di alcune intuizioni e la capacità del regista di far trasparire una certa autenticità del suo sguardo rendono Ciudad sin sueño un esordio più che convincente di un autore che, ci auguriamo, possa fare molta strada in futuro.
Baise-en-ville, di Martin Jauvat
Presentato nella sezione Semaine de la Critique, Baise-en-ville è il secondo lungometraggio di Martin Jauvat, una spensierata e stramba commedia che analizza quello stato d’ansia e crisi esistenziale presente nei giovani ventenni del giorno d’oggi. Ambientato nei sobborghi parigini, il film segue le vicissitudini di Sprite (interpretato dallo stesso Jauvat), un venticinquenne costretto a tornare a vivere con i genitori che è alla disperata ricerca di un lavoro. Ma per far sì che abbia un impiego fisso ha bisogno della patente di guida, e per pagare le lezioni ha bisogno di un impiego, Sprite deciderà di iniziare a lavorare come addetto notturno delle pulizie e per evitare di dover prendere mezzi di trasporto notturni, la sua istruttrice di guida gli insegnerà la tattica del “baise-en-ville”, ovvero quella di farsi ospitare dalle ragazze con cui esce. L’operazione di Jauvat sembra un mix tra la commedia quirky statunitense alla Cooper Raiff ed un ultra-realismo che richiama lo stile fumettistico, tra cui risalta l’uso di colori sgargianti e di luoghi/situazioni che sfidano i limiti dell’inverosimile. Baise-en-ville è una visione piacevole e frivola, che da una premessa piuttosto semplice riesce a costruire una commediola senza grosse pretese. Il senso dell’umorismo non sempre funziona e diverte, ma i vari momenti di stasi vengono superati ogni volta che la dinamica tra Sprite e l’istruttrice Marie-Charlotte (un’esuberante Emmanuelle Bercot) appare sullo schermo.
NC-306
27.05.2025
Sabato scorso la 78ª edizione del Festival di Cannes è giunta al termine. Per questo ultimo appuntamento ci concentreremo su cinque titoli della Competizione, tra cui il vincitore del Grand Prix della giuria Sentimental Value di Joachim Trier con protagonista Renate Reinsve, il rivoluzionario Resurrection di Bi Gan, The Mastermind di Kelly Reichardt, Woman and Child di Saeed Roustaee ed infine Eagles of the Republic di Tarik Saleh. Da Un Certain Regard vi racconteremo delle due opere prime che hanno vinto il premio per il Miglior film e il Miglior attore, La misteriosa mirada del flamenco di Diego Cespedes e Urchin di Harris Dickinson, oltre a Aisha Can’t Fly Away di Murad Mustaf. Dalla Quinzaine daremo risalto a Yes di Nadav Lapid, Kokuo di Lee Sang-il, Amour apocalypse di Anne Émond e Les filles désir di Prïncia Car. Concluderemo con The Disappearance of Josef Mengele di Kirill Serebrennikov dalla sezione Cannes Premiere e Ciudad sin sueño di Guillermo Galoe dalla Semaine de la Critique.
Sentimental Value, di Joachim Trier
Una villa di famiglia può raccontare il passato delle generazioni che ci hanno vissuto. Un’abitazione puó rappresentare l’impersonificazione dei dolori, delle gioie e dei traumi intergenerazionali che si sono ripetuti nei decenni. Nella prima sequenza di Sentimental Value, Nora (Renate Reinsve), recitando un poema scritto quando era ragazzina, inizia a riflettere sull’importanza del luogo in cui è cresciuta, una grande casa vittoriana che, ancora una volta, deve assistere alla dipartita di un membro della famiglia. Dopo la morte della madre, le due sorelle Nora e Agnes (Inga Isbdotter Lilleaas) devono affrontare il ritorno del padre assente Gustav (Stellan Skarsagard), regista che prova a riappacificarsi con la vulnerabile Nora proponendole il ruolo da protagonista del suo nuovo film, un’opera personale che narra della depressione della madre e del suo suicidio avvenuto nella casa di famiglia. La figlia più grande rifiuta all’istante l’offerta, non solo non ha ancora superato il trauma dell’abbandono, ma sta anche vivendo un periodo di profonda crisi personale. Joachim Trier dirige un’opera stratificata, nella quale non svela mai le sue carte ed invita lo spettatore a perdersi nella mondanità dei personaggi; questa struttura non lineare o senza un approccio diretto è la conseguenza del fascino che Trier ha verso il medium cinematografico, il processo creativo dell’artista e quel potere salvifico dietro ad esso. La struttura a capitoli di The Worst Person in the World (2021) si ripete anche in Sentimental Value, ma senza che il regista espliciti questi cambi repentini, l’uso della dissolvenza in nero mostra i continui salti temporali, amplificando ancora di più i segreti e i silenzi dietro alla famiglia raccontata. I tre attori principali hanno quindi l’arduo compito di colmare queste "mancanze narrative" e di trasmettere le complesse emozioni dei propri personaggi, risultando il filo conduttore del film. Eskil Vogt e Joachim Trier portano ancora una volta il tono dramedy che aveva riscontrato tanto successo nella loro sceneggiatura precedente; scene comiche ed esilaranti si susseguono a momenti drammaticamente intensi e viceversa, il mix costruito dai due sceneggiatori non stona ma cattura in maniera veritiera le intricate dinamiche famigliari. Tra Ingmar Bergman ed Henrik Ibsen, Sentimental Value è un film straordinario, nel quale Trier riesce continuamente a costruire e smontare la percezione che lo spettatore ha della storia, immergendolo in un meraviglioso dramma famigliare meta-cinematografico.
Resurrection, di Bi Gan
Ambientato in un futuro distopico dove le persone riescono a vivere più a lungo dopo aver perso l’abilità di sognare, si possono trovare i Fantasmers, delle entità che riescono ad entrare in una dimensione onirica, esplorando le molteplici realtà di un regno illusorio non lineare di cui sono ossessionati. La loro vita è dolorosa, questa via d’uscita dalla realtà sta deteriorando sempre più la condizione di queste creature ed è il compito dei Big Others di aiutare e porre fine alle sofferenze dei Fantasmers, riportando una certa linearità nella loro concezione temporale. Da questa premessa scifi, Bi Gan ha tratto Resurrection, un’odissea cinematografica che spazia i cento anni del ventesimo secolo per compiere un’analisi introspettiva sul legame uomo/cinema/cultura nella società cinese. Diviso in sei parti specifiche, Bi adopera in ognuna di esse diversi generi e tecniche cinematografiche, creando un ambizioso metissage che incarna una lettera d’amore verso la Settima Arte nelle sue forme più pure. La prima sezione segue il Big Other (interpretato da Shu Qi) nella sua ricerca del Fantasmer (Jackson Yee), e Bi Gan struttura questa parte come se fosse un film muto, più nello specifico dell’’espressionismo tedesco; gli omaggi sono molteplici, dalla figura della creatura che richiama quella del Nosferatu di Murnau, o l’uso delle prospettiva forzata e del fenachistoscopio, ed infine la tinteggiatura della pellicola. “Sognare ti porterà all’esaurimento”, già con questa frase si capisce la connotazione drammatica e triste tra il Fantasmer e il Big Other e, prima di porre fine alla sua esistenza, quest’ultimo permette al Fantasmer di rivisitare altri cento anni di sogni, racchiusi nello spazio delle due ore e mezza del film. Una pellicola cinematografica viene inserita nel corpo della creatura e da lì Bi Gan ci porta all’interno di quattro ere diverse. La prima ambientata negli anni ‘30 durante la Guerra sino-Giapponese, una spy story con al centro una valigia, il cui interno potrebbe risolvere il conflitto, la seconda durante la Rivoluzione culturale seguendo un giovane che sta affrontando il lutto del padre, la terza ambientata a cavallo degli anni ‘70 e ‘80 e segue le storie di un uomo che stringe una forte amicizia con una ragazza orfana ed insigne cercheranno di costruirsi un futuro grazie a dei giochi di magia. Ed infine l’ultimo sogno, una vampire story ambientata il 31 dicembre 1999, poche ore prima della “fine del mondo” e segue una giovane ragazza che non ha mai trasformato nessuno ed un giovane senza speranze, il tutto girato tramite un sensazionale piano sequenza di quasi 35 minuti che mette in risalto la maestria di Bi, come l’inserimento di un time-lapse che dura quanto L’Arroseur arrosé di Louie Lumière che cattura un paio d’ore della vita di diversi spettatori che stanno guardando il celebre cortometraggio. Queste persone, nei presunti ultimi istanti della loro vita optano di riunirsi e guardare un film, un forte messaggio commovente sull’importanza del cinema nelle nostre vite, rimarcato successivamente nella scena finale del film ambientata in una sala cinematografica, nella quale lo stesso regista si rivolge allo spettatore. Resurrection di Bi Gan non solo è il capolavoro del Festival di Cannes, ma un'opera che entrerà di diritto nella storia del cinema come una delle esperienze visive più incantevoli di sempre.
Woman and Child, di Saeed Roustaee
Già nel precedente Leila’s Brothers (2022), Saeed Roustaee aveva dato sfoggio alle sua grandi abilità nel gestire intensi melodrammi con al centro le dinamiche di un nucleo famigliare. Una sceneggiatura serrata e il focus sulle intense interpretazioni del cast sono ancora una volta cardini di Woman and Child, la nuova opera del cineasta iraniano presentata in Competizione. Mahnaz è un’infermiera vedova di quarant’anni che sta passando un momento complesso della sua vita; da una parte è in procinto di sposarsi con Hamid, dall’altra fatica a gestire il sempre più ribelle primogenito Aliyar. Quando una tragedia inaspettata accade, la protagonista rimarrà sola e dovrà confrontarsi non solo con i propri cari ma anche con il sistema giuridico nazionale. Woman and Child non ha grosse pretese, è un dramma denso di dialoghi nel quale Roustaee compie anche un’analisi sul ruolo della donna all’interno della società iraniana - come già accaduto in Leila’s Brothers - e sull’ingiustizia del sistema legale. Gli eccessi nella narrativa, quali sottotrame a tratti superflue e svolte nel genere thriller, non sempre funzionano, questi "vuoti" vengono però colmati da una sensazionale Parinaz Izadyar, il cui sguardo riesce a portare l’enorme fardello emotivo del film, spaziando dalla disperazione alla rabbia. La sua interpretazione è ciò che rende Woman and Child un film più che solido e trascinante dall’inizio alla fine.
The Mastermind, di Kelly Reichardt
Nel corso della sua carriera, Kelly Reichardt ha saputo raccontare con grande accuratezza determinate epoche storiche degli Stati Uniti, basti pensare a Meek’s Cutoff (2010) e First Cow (2018), film ambientati nella prima metà dell’Ottocento e con al centro storie di pionieri, oppure i più recenti Showing Up (2022) e Certain Women (2016), due ritratti "diversi" della nostra modernità. Qualunque sia il frangente storico affrontato, Reichardt ingegnosamente riesce sempre a ritrarre uno spaccato della società americana attraverso i suoi personaggi e a decostruire i generi cinematografici; in Meek’s Cutoff le suggestioni visive del film di frontiera venivano messe da parte per creare una sorta di realismo contemporaneo, e lo stesso si può affermare in The Mastermind. Ambientato negli anni ‘70, più nello specifico nel periodo della guerra in Vietnam, il film segue le vicende di James (un sempre accattivante Josh O’Connor), una persona tanto carismatica quanto disillusa che decide di ideare una rapina per rubare dei dipinti appartenenti al museo locale. Non si sa il motivo preciso di certe azioni ne se James abbia esperienza nel settore. Reichardt tramite il suo personaggio e l’atto della rapina vuole rappresentare una sorta di metafora sugli Stati Uniti e il loro coinvolgimento nella Guerra in Vietnam; James è ossessionato dalla rapina nonostante non abbia pianificato minimamente le conseguenze o i passi successivi, e anche se all’inizio sembra che l’abbia fatta franca, le ripercussioni ben presto lo raggiungeranno. Diretto come se fosse una commedia nera dei fratelli Coen, The Mastermind sfoggia un senso dell’umorismo atipico per il cinema di Reichardt, soprattutto nella dinamica centrale tra James e i goffi colleghi di rapina. Il senso del luogo, la rappresentazione nostalgica degli anni ‘70 e il ritmo pacato, tutti tratti tipici del cinema della regista, funzionano meticolosamente. Inoltre, pur essendo un heist movie, non è presente nel lungometraggio quel senso di urgenza tipico del genere, tantomeno il focus su set up action o inseguimenti vari - questi sono presenti, ma non sono mai diretti pensando al cinema di genere. The Mastermind è l’ennesimo gioiellino di Kelly Reichardt, che sapientemente mostra le sue doti camaleontiche confermando, ancora una volta, di essere una delle cineaste più adatte a raccontare la storia degli Stati Uniti con uno sguardo originale e distintivo rispetto ai suoi contemporanei.
Eagles of the Republic, di Tarik Saleh
George Fahmy (Fares Fares) è l’attore più famoso in Egitto, il suo status ha raggiunto una fama e un rispetto che vanno oltre alla sua professione, è una persona che può avere un forte impatto su ciò che accade al Cairo. Il governo ne è consapevole e mette pressione su Fahmy per far sì che reciti in un film di propaganda con l’intento di monopolizzare e condizionare il futuro della nazione. Eagles of the Republic aveva molto potenziale, un thriller politico alla John le Carré, ma Tarik Saleh sorprendentemente fatica a dare un’identità al film; la prima parte sembra più una commedia sul “wrong man” dove l’attore si trova bloccato in delle sequenze "vignettistiche" che risultano poco simpatiche, mentre le svolte drammatiche non centrano l’obbiettivo e risultano piuttosto inconcludenti. Eagles of the Republic doveva puntare interamente sullo stato di paranoia di Fahmy, sull’intricata rete spionistica dietro alla sua scelta di fare il film e sulla ricerca personale dell’attore per la verità. Saleh raggiunge questo solo nell’ultima parte del lungometraggio, grazie ad una incitante sequenza d’azione, ma purtroppo è troppo tardi per salvare un’opera che per la prima ora e mezza lascerà piuttosto indifferenti. Fares Fares parzialmente riesce a far interessare per l’intera durata del film, ma questa risulta comunque la sua interpretazione più debole nella trilogia del Cario di Tarik Saleh.
The Disappearance of Josef Mengele, di Kirill Serebrennikov
Dopo la sovrabbondante odissea punk di Limonov (2023), Kirill Serebrennikov torna al Festival di Cannes con The Disappearance of Josef Mengele, un adattamento dell’omonimo romanzo di Olivier Guez che segue le vicende dell’ “Angelo della morte” dopo la Seconda Guerra Mondiale. Mengele era un dottore della SS che compieva crudeli esperimenti sui deportati nei campi di concentramento, e per via della sua triste notorietà, fu costretto a scappare in Sud America. Serebrennikov primeggia dapprima nell’infondere l’opera con un’atmosfera languida, deliberatamente lenta per trasmettere lo stato di costante paranoia che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni dell'esistenza del protagonista, ma, man mano che il film prosegue, sembra quasi che esso voglia mostrare un certo sentimentalismo e una sorta di redenzione da parte di Mengele - un approccio pericoloso che viene affrontato da Serebrennikov in maniera troppo didascalica. August Diehl è l’unica nota considerevole del film, la sua interpretazione racchiude perfettamente la personalità ripugnante e trasudante d’odio di Mengele. The Disappearance of Josef Mengele non è un film da bocciare, ci sono dei notevoli pregi a livello tecnico e la già citata interpretazione centrale, ma sembra quasi che il regista non riesca a trovare una via di mezzo tra l’eccesso di opere come Limonov, l’approccio troppo sicuro di Tchaikovsky’s Wife (2021) e quest’ultimo film.
Urchin, di Harris Dickinson
In soli pochi anni, Harris Dickinson è riuscito a costruirsi una buona carriera come attore, mostrando di essere uno degli interpreti più versatili della sua generazione. All’apice di questo buon momento della sua carriera decide di prendere un rischio e dirigere la sua opera prima, selezionata al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Urchin si concentra sulle vicende di Mike (Frank Dillane, vincitore del premio come Miglior attore), un tossicodipendente che, dopo aver aggredito un uomo e aver scontato otto mesi di prigione, prova a ricostruirsi una nuova vita. L’opera prima di Dickinson evita abilmente i cliché del genere, non è intenzionata a mostrare l’arco di redenzione del protagonista, ma a regalare una panoramica sull’autodistruzione di una persona che crede che le sue sventure siano dovute ad un mondo crudele. C’è un qualcosa di affascinante nel modo in cui Dillane ritrae Mike; la sua personalità tossica e repellente dovrebbe creare una certa distanza, ma la presenza carismatica dell’attore fa affezionare e credere nelle “buone intenzioni” del protagonista. Dickinson dirige un interessante character study, un mix tra i primi film dei Safdie e Naked (1993) di Mike Leigh, e si prende anche lo sfizio di interpretare un piccolo ruolo nel film, una sorta di antitesi di Mike che riesce ad uscire dal turbinio della dipendenza. La regia di Dickinson prende alcuni rischi con l’inserimento di alcune sequenze che tendono alla dimensione onirica, queste non solo non stonano con l’opera, ma aggiungono quel tocco che rende Urchin un’opera prima ammaliante e per nulla prevedibile.
La mirada misteriosa del flamenco, di Diego Céspedes
A trionfare nella sezione Un Certain Regard è stata l’opera prima di Diego Céspedes. Ambientata nel 1982, La misteriosa mirada del flamenco narra di una cittadina remota in un deserto cileno durante l’epidemia di AIDS. Ciò che rende vivo questo villaggio sperduto è una cantina dove i minatori, dopo una lunga giornata di lavoro, trovano sollievo interagendo con una comunità queer di travestiti, tra cui la carismatica Flamingo (Matías Catalán), la “madre” di questo gruppo, che vive insieme alla figlia dodicenne Linda. Sin dalle prime sequenze, Céspedes riesce a trasmettere accuratamente quel senso di comunità e sostegno reciproco, rappresentando la cantina come un rifugio dalle discriminazioni locali - la popolazione infatti accusa Flamingo e il resto della comunità queer di diffondere la “peste” attraverso il loro sguardo. L’allegoria visiva di Céspedes strizza l’occhio al realismo magico e raggiunge il suo apice nella prima parte grazie alla carismatica presenza di Matías Catalán e per come il regista cileno riesce a trasmettere la prospettiva della giovane Linda sull’intera storia. Tuttavia, La misteriosa mirada del flamenco prende un andamento piuttosto prevedibile una volta che uno dei personaggi principale esce di scena, ciò nonostante riesce comunque a concludere su una forte nota emotiva. Tutto sommato l’opera prima di Céspedes è più che riuscita e si possono tralasciare parzialmente le carenze della seconda parte.
Aisha Can’t Fly Away, di Murad Mustafa
Ci sono storie che ci ricordano come noi europei siamo privilegiati in molti aspetti aspetti, soprattutto quando si tratta di spostarci in un altra Nazione per cambiare vita. Per molti altri, lasciare il proprio paese per migliorare la propria esistenza, spesso non è un sogno che si realizza, ma un incubo che sta per prendere forma. Morad Mostafa si presenta a Cannes, nella categoria Un certain regard, col suo primo lungometraggio Aisha can’t Fly away, dove racconta le difficoltà di una ragazza sudanese che emigra in Egitto. Aisha ha 26 anni e ha lasciato la famiglia in Sudan per trasferirsi al Cairo. Qui secondo i suoi piani, avrebbe dovuto portare avanti gli studi di medicina e poi trovarsi un lavoro in ospedale, invece si ritrova a lavorare come caregiver nelle case di diversi anziani. Attraverso gli occhi di Aisha, Morad ci mostra la dura realtà e la tensione che esiste tra i cittadini del Cairo e gli immigrati provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana. I vari quartieri vengono controllati da gang violente che decidono delle vite di chi ci abita, compresa quella di Aisha. La camera a mano segue la protagonista come fosse un ombra e ci mostra la sua quotidianità e le sue paure, creando così un film che risulta lento ma carico di tensione. Buliana Simon nei panni di Aisha, incanta lo spettatore fin da subito. La sua presenza è magnetica, e i suoi lunghi silenzi trasmettono più di mille parole. Il film, infatti, riesce a trasmettere molto nonostante la quasi assenza di lunghi dialoghi, che sarebbero infatti risultati di troppo. Morad per tanto gioca con i silenzi e lascia che siano gli sguardi e gli ambienti a parlare. Aisha Can’t fly away non vuole essere solo un film di denuncia, ma la fotografia di una realtà che purtroppo esiste e la testimonianza che ,come Aisha, sono in tanti a credere di non avere una via di fuga da un incubo.
Yes, di Nadav Lapid
Ambientato dopo il 7 Ottobre 2023, Yes di Nadav Lapid segue le vicende di Y., un artista jazz che, insieme alla moglie ballerina Yasmin, sta faticando a trovare ingaggi e a crescere il figlio nato l’indomani dello scoppio della guerra. I due prendono quindi la decisione di vendersi artisticamente all’élite militarista di Tel Aviv, assecondando ogni loro richiesta, tra cui quella di comporre un nuovo inno che possa galvanizzare il popolo d’Israele nella loro lotta contro la Palestina. Il film di Lapid non è interessato a prendere una posizione politica poiché più volte il cineasta riafferma in maniera estenuante gli orrori perpetrati da parte di Israele, soprattutto in un monologo chiave di Y. nel quale rompe la quarta parete e interpella direttamente il pubblico in sala. Lapid dirige un’opera pretenziosa ed eccessiva, la cui satira è talmente diretta da nauseare lo spettatore. È proprio questa forte identità tumultuosa e rabbiosa che rende Yes un film unico nel suo genere; la prima parte è un susseguirsi di scene caotiche ed esilaranti dove la satira raggiunge il suo apice, come anche lo stile di Lapid. La camera non è mai ferma, segue ininterrottamente la frenesia della vita di Y., che esso sia ad un party o durante una conversazione con la moglie che scaturisce in un ballo frenetico. La seconda parte, nella quale Y. intraprende questo viaggio sul confine Israele/Palestina per cercare “ispirazione” per l’inno che deve comporre, risulta più pacata stilisticamente, ma più sfrontata nella critica morale delle azioni del protagonista. Non tutto funziona all’interno del film, particolarmente negli istanti finali, ciò nondimeno la visione di Yes è risultata una delle più gratificanti del festival per l’ambizione stilistica e narrativa mostrata dal cineasta.
Kokuho, di Lee Sang-il
Tendiamo a pensare che la mitologia racconti sempre e solo dei tempi antichi, che vede come protagonisti gli uomini e le divinità; eppure la mitologia la si può trovare anche nelle storie a noi contemporanee. Lee Sang-il col suo nuovo film Kokuho, presentato nella sezione Quinzaine des cinéastes, ci restituisce un dramma degno di una leggenda mitologica. Il film inizia nel 1964, il Giappone è in piena crescita economica e il giovane Kikuo (interpretato da giovane da Soya Kurosawa conosciuto al grande pubblico per L’innocenza di Hirokazu Kore’eda), nato in una famiglia della yakuza, per uno strano gioco del destino si ritroverà a vivere sotto il tetto del grande attore kabuki Hanjiro Hanai (interpretato da Ken Watanabe famoso a livello internazionale per film come Memorie di una Geisha e Inception) e a diventare suo discepolo. Lee Sang-il porta il mondo del teatro kabuki – forma teatrale giapponese nata nel diciassettesimo secolo che prevede che combina danza e recitazione e che è recitato solo da uomini – in tutto il suo splendore, ma non vuole mostrare al pubblico ciò che avviene sotto ai riflettori, ma soprattutto raccontare quel mondo dietro le quinte, dove le maschere cadono e la realtà si fa più crudele di quel che sembra. Come ogni mito che si rispetti, il protagonista ha la propria nemesi, il figlio del suo maestro, Shunsuke, che ha la sua stessa età e come lui studia per diventare onnagata (attore specializzato nei ruoli femminili). Il regista sudcoreano concentra la storia sul rapporto tra i due ragazzi, che a modo loro si completano ma si scontrano. Se da una parte Kikuo rappresenta il talento naturale, quello che tutti invidiano pur rimanendo affascinati, Shunsuke, invece, è figlio d’arte, e pertanto ha un nome di famiglia da tutelare che gli pesa sulle spalle. Kokuho è un film lungo e complesso che tratta diverse tematiche: il rapporto fraterno, la competizione nel mondo culturale, la fame di successo e la determinazione. Lee Sang-il ci incanta con le scene di kabuki, ma soprattutto ci fa empatizzare con chi ogni giorno sacrifica qualcosa di sé e della propria vita per portare quell’arte davanti a un pubblico.
Les filles desir, di Prïncia Car
Prïncia Car è uno dei nomi nuovi del cinema francofona, data la sua provenienza belga. Fin da giovanissima, ha sviluppato una notevole passione per le arti performative, dedicandosi a musica, alla danza, al canto e alla recitazione. A 13 anni ha ricevuto la sua prima videocamera VHS, segnando l'inizio del suo interesse per il cinema. Dopo un percorso scolastico scientifico, ha deciso di seguire la sua vocazione artistica iscrivendosi all'INRACI di Bruxelles, dove si è diplomata in regia e direzione della fotografia nel 2012. Durante questi anni di studio, ha realizzato diversi cortometraggi, tra cui Tony (2012) e Pépita (2011). Nel 2018, la regista ha fondato una propria scuola di cinema autonoma a Marsiglia, con l'obiettivo di rendere l'arte accessibile ai giovani provenienti da contesti svantaggiati. Dopo aver prodotto vari cortometraggi e numerosi video musicali premiati, nel 2025 ha scritto il suo primo lungometraggio, dal titolo Les Filles Désir, presentato per la Quinzaine des Cinéastes. Il film esplora le dinamiche del desiderio e delle relazioni di genere attraverso una storia molto giovanile e fresca, e si contraddistingue per essere un coming-of-age dai caratteri estremamente libertini, che si muove con coraggio sul crinale tra intimità e brutalità del desiderio. Les Filles Désir mette in scena una sensualità inquieta, mai addomesticata, che emerge tra sguardi, gesti trattenuti, dialoghi interrotti, e la regista costruisce una narrazione rarefatta, quasi diaristica, che sembra più intenta a captare vibrazioni emotive che a raccontare eventi e che, inevitabilmente, richiama da vicino lo stile e le ambientazioni tipiche del cinema francese di Abdellatif Kechiche. Paragone che incalza sempre di più nel corso della narrazione, in quanto, come in La vie d’Adèle (2013), anche qui il corpo è messo al centro, filmato con una prossimità quasi invasiva, ma senza mai indulgere nel voyeurismo. Se Kechiche tende, però, ad una saturazione sensoriale, alla ripetizione e all’estasi carnale, Prïncia Car invece predilige la sottrazione, il non-detto, il vuoto come spazio di tensione. La sua regia è più ellittica, meno interessata alla performance degli attori quanto alla loro presenza, alla loro fragilità esposta, e soprattutto si caratterizza per un uso sobrio ma espressivo del digitale: la grana dell’immagine non viene mai levigata, restituendo una qualità materica che si sposa bene con il tono sospeso del racconto. I piani-sequenza non sono esibiti ma timidamente insinuati, come se volessero rimanere invisibili, e proprio per questo anche la luce naturale è dominante, lasciando quindi spazio alle varie emotività che caratterizzano i personaggi adolescenti del film e trasformando il film in un atto di ascolto nei confronti non solo dei desideri più reconditi, quanto anche del tempo che passa e delle trasformazioni che avvengono senza annuncio.
Amour apocalypse, di Anne Émond
In un mondo dove tutto è incerto e la fine è sempre più vicina è giusto voler cercare la gioia per andare avanti? Anne Émond si presenta a Cannes, nella Quinzaine des cinéastes, col suo nuovo film Amour Apocalypse (tradotto per il mercato estero Peak Everything) dove affronta con ironia, ma soprattutto una grande consapevolezza, l’ansia che si può provare a vivere su un pianeta che sta morendo. Adam ha 45 anni e da sempre si sente schiacciato dalla vita e dalla paura di non avere più un futuro, timore che sa nascere dall’avanzare del cambiamento climatico. Adam porta avanti una vita tranquilla, gestisce un canile, ha a che fare con una collaboratrice più giovane e sessualmente problematica, e nel tempo libero si incontra con suo padre. Nonostante la serenità delle sue giornate, cerca una soluzione alla propria tristezza, a cui non riesce a dare il nome di depressione, e compra una lampada per l’umore, ancora non sa che sarà proprio grazie a quello strano oggetto che conoscerà Tina, una dipendente del call center dell’azienda di produzione, che con la sua voce, bassa e dolce, lo distrarrà dai brutti pensieri.Anne Émond fa un uso sapiente del montaggio, dove la libera dalla mera funzione di grammatica cinematografica, ma lo utilizza come elemento di stile, soprattutto sonoro. Infatti le catastrofi naturali che ci presenta nel corso del film, le percepiamo prima con l’udito e solo dopo (non sempre) ci vengono mostrate. Inoltre, la regista canadese gioca con la percezione dello spettatore, portandolo nella mente di Adam, rimanendo dunque in equilibrio tra sogno e realtà. La tematica ambientale è molto sentita all’interno del film, non solo dai discorsi di Adam, ma soprattutto dalle continue crisi che Anne Émond porta sul grande schermo e che mostrano però la dubbia natura dell’uomo – causa scatenante del problema – che se da una parte si spaventa davanti alla forza della natura, dall’altra si adegua subito al cambiamento fino a rinnegare che esista davvero un pericolo. Non è un caso se il protagonista si chiami come il primo uomo, perché come l'Adamo biblico dovette rinunciare al paradiso terrestre per ricominciare tutto da capo in un ambiente più ostile, così il protagonista di Émond, si fa metafora di tutti noi che stiamo assistendo allo sgretolamento del mondo che conosciamo e dobbiamo trovare il modo di imparare a viverci di nuovo.
Ciudad sin sueño, di Guillermo Galoe
Esordio nel lungometraggio di Guillermo Galoe, Ciudad sin sueño è una storia ambientata ai margini di Madrid, nella baraccopoli di Cañada Real, la più grande d'Europa. Rielaborando temi e situazioni di un suo precedente, il regista spagnolo dipinge con grande umanità il ritratto di un ragazzo, Toni, che è nato e cresciuto in quel ghetto. Ciudad sin sueño ricorda il Jonas Carpignano di A ciambra sia per la direzione degli attori, non professionisti, sia per alcune scelte stilistiche. A colpire però, nel film, sono alcune scelte che si distaccano in qualche modo dalla consuetudine realista del cinema d'autore europeo. Ci riferiamo, in particolare, alla scelta di ricorrere a filtri che, distorcendo i colori, ci fanno percepire le modalità con cui i giovani protagonisti del film percepiscono la realtà della baraccopoli e a un utilizzo insolito per questo genere di cinema di lunghe panoramiche che rallentano il ritmo dell'azione, ma che concedono allo spettatore la possibilità di esperire a 360 gradi dell’universo in cui è ambientato il film. Non mancano, purtroppo, alcune lungaggini proprie di molti film che vengono tratti da cortometraggi e un utilizzo sin troppo scolastico dei simboli. Ma la potenza di alcune intuizioni e la capacità del regista di far trasparire una certa autenticità del suo sguardo rendono Ciudad sin sueño un esordio più che convincente di un autore che, ci auguriamo, possa fare molta strada in futuro.
Baise-en-ville, di Martin Jauvat
Presentato nella sezione Semaine de la Critique, Baise-en-ville è il secondo lungometraggio di Martin Jauvat, una spensierata e stramba commedia che analizza quello stato d’ansia e crisi esistenziale presente nei giovani ventenni del giorno d’oggi. Ambientato nei sobborghi parigini, il film segue le vicissitudini di Sprite (interpretato dallo stesso Jauvat), un venticinquenne costretto a tornare a vivere con i genitori che è alla disperata ricerca di un lavoro. Ma per far sì che abbia un impiego fisso ha bisogno della patente di guida, e per pagare le lezioni ha bisogno di un impiego, Sprite deciderà di iniziare a lavorare come addetto notturno delle pulizie e per evitare di dover prendere mezzi di trasporto notturni, la sua istruttrice di guida gli insegnerà la tattica del “baise-en-ville”, ovvero quella di farsi ospitare dalle ragazze con cui esce. L’operazione di Jauvat sembra un mix tra la commedia quirky statunitense alla Cooper Raiff ed un ultra-realismo che richiama lo stile fumettistico, tra cui risalta l’uso di colori sgargianti e di luoghi/situazioni che sfidano i limiti dell’inverosimile. Baise-en-ville è una visione piacevole e frivola, che da una premessa piuttosto semplice riesce a costruire una commediola senza grosse pretese. Il senso dell’umorismo non sempre funziona e diverte, ma i vari momenti di stasi vengono superati ogni volta che la dinamica tra Sprite e l’istruttrice Marie-Charlotte (un’esuberante Emmanuelle Bercot) appare sullo schermo.