di Omar Franini, Antonio Orrico, Arturo Garavaglia, Lorenzo Sartor e Cecilia Parini
NC-305
26.05.2025
Sabato scorso la 78ª edizione del Festival di Cannes è giunta al termine. Per questo penultimo appuntamento ci concentreremo su altri quattro film presentati in Competizione, tra cui A Simple Accident di Jafar Panahi, il film vincitore della Palma d’Oro, Alpha, il tanto atteso ritorno sulla Croisette di Julia Ducournau, The History of Sound di Oliver Hermanus, con protagonisti Paul Mescal e Josh O’Connor, ed infine Romeria, il nuovo film di Carla Simon. Dal fuori concorso vi racconteremo di Highest 2 Lowest di Spike Lee con protagonista Denzel Washington. Da Un Certain Regard daremo spazio a quattro film; il vincitore del premio per la miglior regia Once Upon a Time in Gaza dei fratelli Nasser, Eleanor the Great, l’opera prima di Scarlett Johansson, Love Me Tender di Anna Cazenave Cambet, Meteors di Hubert Charuel e Caravan di Zuzana Kirchnerová. Concluderemo con il documentario Militantropos dalla Quinzaine, Dites-lui que je l'aime di Romane Bohringer, dalle selezioni speciali, ed infine A Useful Ghost di Ratchapoom Boonbunchachoke e Nino di Pauline Loquès dalla Semaine de la Critique.
It Was Just an Accident, di Jafar Panahi
In piena notte, Eghbal, di ritorno a casa con la sua famiglia, investe accidentalmente un cane. Cercando soccorsi, l’uomo finisce nel garage di Vahid che, dopo averlo aiutato, inizia a nutrire dei dubbi sulla sua identità e a pensare di aver dato una mano all’ufficiale carcerario che l’aveva torturato anni prima. Convinto di questo, Vahid decide di sequestrare Eghbal, portarlo nel deserto e seppellirlo vivo. Ma i dubbi iniziano a intensificarsi e per avere certezza sull’identità di Eghbal, “arruola” altre quattro vittime. It Was Just an Accident di Jafar Panahi rappresenta una direzione diversa rispetto ai suoi lavori precedenti; la componente meta-cinematografica viene leggermente a mancare, per dare spazio ad un thriller con tratti di sfumature comiche. La messa in scena di Panahi coglie subito l’occhio con l’uso di grandangoli e piani sequenza per costruire la tensione e la disperazione della situazione. Seguendo questo continuo crescendo ansiogeno, It Was Just an Accident esplora abilmente la morale delle cinque vittime, ognuna di esse con un punto di vista diverso sul da farsi. Compiere giustizia nei confronti del perpetratore di atroci azioni o avere misericordia e “capire” la sua posizione? Panahi non da risposte facili a questo quesito e mostra quanto il regime iraniano sia sempre più in difficoltà. It Was Just an Accident è un film superbo e una Palma d’Oro più che meritata.
Alpha, di Julia Ducournau
Dopo il grande successo di Raw (2016) e Titane (2021), ci si aspettava un altro body horror puro da parte di Julia Ducournau, che invece è tornata sulla Croisette con Alpha, film più intimo che esamina il coming of age di una tredicenne che contrae una malattia contagiosa dopo che si fa fare un tatuaggio con un ago non sterilizzato. Già dalle prime scene del suo terzo lungometraggio, si può capire l’intento di Ducornau nel costruire una palese allegoria dell’epidemia di AIDS. I tratti del body horror rimangono ovviamente, soprattutto nel modo in cui la cineasta mostra la decadenza dei corpi dei malati, come se questi stessero diventando una materia fragile e facilmente sgretolatile. Questo declino rappresenta una metafora sul lasciare andare e, dopo una prima parte piuttosto elementare, Alpha finalmente sembra diventare interessante quando viene introdotto il personaggio di Amin, lo zio tossicodipendente della protagonista. La regista francese costruisce questo intreccio tra passato e presente, tra le due forme di malattia dei personaggi e su come la madre di Alpha, e sorella di Amin, provi a gestire il lutto e la perdita. Un approccio intrigante che purtroppo si sgretola nelle mani di Ducornau; la sovrapposizione delle due linee narrative appare confusionaria con una scrittura raffazzonata che non è in grado di esplorare o approfondire i parallelismi e le allegorie . La visione risulta quindi inutilmente pretenziosa con davvero pochi pregi, quali un’intensa e convincente interpretazione da parte di Tahar Rahim e qualche sequenza che ricorda il buon occhio stilistico della regista, come una toccante sequenza tra zio e nipote sulle note di Nick Cave. Alpha è una grossa occasione sprecata e mostra i limiti di una cineasta che al di fuori del body horror, fatica a creare qualcosa di coeso e che rimarrà a lungo nella mente dello spettatore. I personaggi della storia faticano a lasciare andare i propri cari, mentre per noi è l’opposto, siamo già pronti a dimenticare questo film.
Romeria, di Carla Simon
Dopo aver vinto l’Orso d’Oro con il suo ultimo film, Carla Simon ha debuttato nella competizione di Cannes con Romeria, il capitolo conclusivo di una trilogia tematica iniziata con Estiu 1993 (2017) e proseguita con Alcarras (2022). Come i due capitoli precedenti, Romeria è un film semi autobiografico che, con sguardo nostalgico, analizza i legami famigliari. Ambientato nel 2004, il filmi focalizza su Marina (Llucía Garcia), orfana diciottenne che decide di andare a Vigo, il posto natio dei suoi genitori, perché vuole essere riconosciuta legalmente come la figlia di suo padre. La famiglia di quest’ultimo infatti ha rinnegato l’esistenza della giovane Marina poiché nata fuori dal matrimonio e da una relazione che ha portato l’uomo alla tossicodipendenza e alla morte per AIDS. Simon presenta una narrativa nella quale la giovane protagonista prova a ricostruire gli avvenimenti passati tramite i diari della madre, ma ben presto scoprirà che la realtà vissuta dalla donna non corrisponde a ciò che dicono i famigliari del padre. Con un atmosfera quieta, senza melodrammi ed eccessi stilistici, Simón riesce a donare una nota onirica assente nei film precedenti, soprattutto in una strabiliante sequenza che racconta lo sviluppo e la rottura della relazione tra i genitori. Romeria è un film squisito, che grazie ad un’ottima interpretazione centrale di Llucía Garcia riesce ad accompagnare lo spettatore in una navigazione letterale tra la memoria e l’accettazione della perdita.
The History of Sound, di Oliver Hermanus
Nel 1917, Lionel (Paul Mescal), ragazzo proveniente da un paesino rurale che studia al conservatorio del New England nota David (Josh O’Connor), un altro studente in un bar mentre sta intonando un brano folkloristico che gli fa ricordare quelli che i genitori gli cantavano. Grazie a questa passione che li accomuna, tra i due nascerà un forte rapporto che li porterà, due anni dopo, ad intraprendere un viaggio alla ricerca di canti originali folkloristici con lo scopo di preservare e diffondere quest’arte canora. The History of Sound, adattato dalla omonima short story di Ben Shattuck, aveva tutte le carte in regola per essere l’erede di Benediction (2021) di Terrence Davies, ma Oliver Hermanus fatica a sviluppare ogni tematica che introduce nell’opera, che essa sia il conflitto tra ambiente rurale ed urbano o la repressione dell’omosessualità dei due protagonisti. Nella prima parte non c’è pathos e chimica tra i due attori principali, grave lacuna che influenza la buona riuscita della seconda parte del film incentrata solamente su Lionel. Oliver Hermanus invece di approfondire certi aspetti inesplorati della storia di partenza, opta di usare dei tempi piuttosto lenti con una serie di scene che, invece di amplificare lo stato tormentato del protagonista tramite i suoi silenzi, finiscono per rendere la visione soporifera e aumentare quel distacco emotivi nei confronti di Lionel. The History of Sound è un film deludente che spreca non solo il talento dei due attori principali, ma anche quello di una storia piuttosto interessante.
Highest 2 Lowest, di Spike Lee
Il caos e l’imprevedibilità regnano sovrani in Highest 2 Lowest, la reinterpretazione moderna del classico di Akira Kurosawa High and Low (1963). All’inizio si pensava che Spike Lee avrebbe diretto un thriller teso, focalizzato sul cercare di replicare il tormento e l’ansia del post guerra giapponese trasportandolo ai giorni nostri nell’industria dell’Hip Hop, e lo è in parte, ma quello che sorprende di più è l’operazione compiuta sul tono e i generi cinematografici da parte di Lee. Questo si evince già dalla prima mezz’ora, il set update del rapimento e la reazione dei personaggi richiamano più una satira del melodramma. L’eccessiva messa in scena del regista con dissolvenze esilaranti, una stucchevole colonna sonora ed un Denzel Washington macchiettistico, rendono la visione dell'opera stravagantemente ipnotica, come se lo stesso Lee volesse sperimentare quanto più possibile con la forma e la storia di partenza. Ed è qui che entra in gioco l’estro creativo del cineasta nella reinterpretazione dell’opera di Kurosawa; Lee mantiene solo la lotta di classe della storia, la dinamica del rapimento risulta alterata poiché il ragazzo scomparso non è il figlio di David King (Denzel Washington), ma quello del suo autista personale Paul (Jeffrey Wright), un cambio di trama che porta ad uno sviluppo morale della storia differente ed un discorso affascinante sull’ossessione materialista del giorno d’oggi. Highest 2 Lowest non rimane un melodramma per tutta la sua durata e nella seconda parte c’è un crescendo adrenalinico sul lato thriller ed action, ma pur sempre mantenendo quella vena comica e satirica della prima parte. Come il suo predecessore Tsutomu Yamazaki, che era riuscito a tenere testa se non oscurare un mostro sacro come Toshiro Mifune, A$AP Rocky, nel ruolo del rapinatore Yung Felon, riesce nella stessa impresa e ruba la scena da Denzel Washington nelle poche sequenze che condividono. Il rapper statunitense in pochi minuti riesce a costruire il ritratto disilluso di un artista che pretende un’opportunità, un’occasione per mostrare il suo vero talento. La famosa sequenza del confronto tra i due è l’ennesimo colpo di genio di Lee, che trasforma una conversazione accesa in una rap battle tanto intensa quanto esilarante. Spassoso ed originale, Highest 2 Lowest è l’ennesima “joint” ben rollata da parte di Lee, forse il suo film più d’intrattenimento dai tempi di The Inside Man (2006).
Once Upon a Time in Gaza, di Arab e Tarzan Nasser
I due fratelli palestinesi Arab e Tarzan Nasser si erano già fatti notare nel 2020 al Festival di Venezia con il loro precedente lungometraggio, Gaza Mon Amour, mostrando come anche in un territorio oppresso dall’autorità israeliana fosse possibile, per dei registi con pochi mezzi e molte idee stilistiche, esprimere uno sguardo sul presente. Il loro nuovo film, Once Upon a Time in Gaza, sceglie invece come contesto gli anni della presa di controllo di Hamas sui territori della Striscia, per raccontare una vicenda divisa in due parti: la prima espone l’amicizia tra Yahya (Nader Abd Alhay) e Osama (Majd Eid), i quali cercano di sopravvivere in una Gaza perennemente soffocata dai bombardamenti; la seconda racconta invece di come Yahya due anni dopo riuscirà a diventare protagonista di un film d’azione a budget risicato basato su un vero martire della rivoluzione palestinese. Se la prima sezione del film è quindi un noir contaminato dalle influenze del cinema occidentale e alternato alle vere immagini dei bombardamenti sulla città palestinese, la seconda rappresenta invece il tentativo metacinematografico di ragionare su come le immagini e i loro significati vengono costruiti in contesti di guerra, inserendo una linea narrativa thriller che porterà progressivamente a farci dubitare di come tali simboli vengono mediati al nostro sguardo privilegiato. I cineasti puntano quindi a una forma che pesca a piene mani dalla televisione americana, costruendo così un discorso su come i messaggi rivoluzionari, per arrivare allo spettatore occidentale, debbano essere svuotati della loro crudezza, per venire ripuliti e diventare anch’essi un prodotto da "servire a un cliente". Gli schermi in bassa risoluzione attraverso cui ci arrivano queste immagini artificiali di martiri ed eroi appaiono così come una magra consolazione rispetto alla realtà quotidiana della vita a Gaza, dove invece vige ancora la legge del più forte e sembra essersi perso qualunque senso di solidarietà. La storia di vendetta che prende così piede nel secondo atto diventa solo un altro modo con cui la lotta tra poveri prende il sopravvento sulla lotta contro il potere, in un contesto dove diventa necessario usare l’artificio del cinema per mostrare un’altra via al cittadino palestinese, anche a costo di fabbricare altre storie a cui credere, altri film da far diventare moniti per il futuro. Sono pochi i momenti in cui l’opera nel suo complesso riesce a reggere alle proprie ambizioni visive e narrative, esattamente come si percepiscono spesso la povertà di mezzi e le difficoltà di fare cinema in un contesto come quello che ci viene mostrato sullo schermo, ma tutto ciò non rende comunque Once upon a time in Gaza meno rilevante per la politica e l’arte del contemporaneo.
Eleanor the Great, di Scarlett Johansson
Dopo la tragica scomparsa della sua migliore amica, Eleanor (June Squibb) si trasferisce insieme alla figlia a New York che, per cercare di aiutare la madre a superare il lutto e la solitudine, decide di iscriverla ad un gruppo canoro locale. Ma per via di una svista, l’anziana signora si unirà invece ad un gruppo di sopravvissuti all’Olocausto e, trovando compagnia in queste persone, Eleanor deciderà di creare una rete di bugie per far sì che lei venga accettata in questa nuova comunità. L’opera prima di Scarlett Johansson non è un buon film. All’inizio il lungometraggio inganna per via dello charm della grandiosa June Squibb - che porta sullo schermo il ritratto di una vecchietta tanto tenera quanto impertinente, una buona interpretazione che però non raggiunge gli apici del lavoro fatto in Thelma (2024) lo scorso anno - ma appena il film entra nel vivo, ci si renderà conto che il lavoro dell'attrice non riuscirà a salvare un’opera tanto sciapa ed impersonale quanto problematica. Vista la premessa iniziale, si poteva fare un discorso piuttosto complesso sulle conseguenze morali delle azioni di Eleanor, tuttavia Johansson non è sembrata interessata e si è limitata a dirigere un lungometraggio che sembra più provenire dal Sundance che dal Festival di Cannes. L’eccessivo tono quirky, le emozioni forzate, l’evoluzione didascalica degli eventi e i molteplici finali rendono Eleanor the Great l’apoteosi di ciò che c’è di problematico nel cinema indipendente americano.
Love Me Tender, di Anna Cazenave Cambet
Anna Cazenave Cambet non è un nome sconosciuto a Cannes. Il suo primo lungometraggio Gabber Lover fu presentato nella sezione Cinéfondation nel 2016. La regista francese torna quest’anno a Cannes nella sezione Un Certain Regard col suo ultimo film: Love Me Tender. Protagonista Clémence, una giovane avvocata che inizia una nuova vita dopo essersi separata dal marito (interpretato da Antoine Reinartz, volto a noi noto per la sua interpretazione in Anatomia di una caduta). Lascia la carriera forense per dedicarsi alla scrittura e inizia a frequentarsi con le donne. Clémence non può immaginare che sarà propria la sua nuova vita sessuale a scatenare le ire dell’ex marito, che farà di tutto per ottenere l’esclusività della tutela legale di suo figlio. In questo film vediamo tutti gli elementi che contraddistinguono la regia di Cambet, in primis un ritratto a 360 gradi di una giovane donna che si ritrova a dover decidere tra l’essere madre e la propria libertà. Il lungometraggio, in realtà, non si sofferma sulla questione della maternità o della denuncia nei confronti di un uomo che non accetta la bisessualità dell'ex moglie, l’intento della regista è quello di farci conoscere Clémence in ogni sua piccola sfumatura. Lei non è la protagonista perfetta, non è una madre perfetta, un’amante perfetta o una donna perfetta; é umana. Con tutti i suoi difetti e pregi. Ama il figlio ma non vuole rinunciare alla propria libertà sottostando alle regole imposte dall’ex marito a dal tribunale. Cerca di costruire delle relazioni durature ma senza mai aprirsi davvero alle sue partner, che si sentono spesso messe da parte. Se Clémence riesce arrivare così tanto al pubblico e a far si che chiunque guardi il film empatizzi con la sua storia, non è solamente merito di una buona sceneggiatura alla base, ma è soprattutto grazie all’incredibile interpretazione di Vicky Krieps, che conferisce al proprio personaggio una grande profondità. Anna Cazenave Cambet come regista ci presenta un’estetica senza pari, ricordandoci il suo passato da fotografa. Infatti, ogni inquadratura è una foto a sé. Piccola sbavatura nella fotografia, forse è il cambio di tono tra le scene di vita quotidiana e quelle di sesso. Se le prime sono brillanti, caratterizzate da una luce “naturale”, le seconde, invece, fanno l’uso di toni scuri (fin troppo abusati), che più che richiamare l’intimità, sembrano riportare alla mente il "fascino proibito" del sesso lesbico, che possiamo dire che, forse, nel 2025 ha leggermente stancato come scelta stilistica. Love Me Tender non vuole essere un manifesto o una dichiarazione femminista omosessuale, ma vuole semplicemente raccontare la storia di Clémence, una donna imperfetta ma che ama la propria vita e la propria libertà, un po’ come tutti noi.
Meteors, di Hubert Charuel
Hubert Charuel è un regista “agricoltore”, data la sua provenienza familiare e la sua predisposizione al lavoro agricolo, prima di intraprendere gli studi di cinematografia. Il regista si è laureato a La Fémis di Parigi nel 2011 in regia, e il suo corto di presentazione, Diagonale du vide (2011), viene selezionato per numerosi concorsi di genere. Dopo aver presentato il corto K-Nada (2014), il regista ha poi sviluppato il suo esordio nel mondo del lungometraggio con Petit Paysan (2017), presentato in anteprima alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2017 e successivamente trionfatore di notevoli premi ai Cesàr del 2018, dove ha vinto il premio per il miglior attore (Swann Arlaud), miglior attrice non protagonista (Sara Giraudeau) e migliore opera prima. La storia delinea tutto l’approccio realistico e intimista, spesso ispirato alla sua esperienza personale nel mondo agricolo, del regista francese. Caratteristiche che, però, superano le rappresentazioni stereotipate del mondo rurale, evitando estetiche decadenti o nostalgiche, e puntando invece a una rappresentazione autentica e coinvolgente della realtà contadina. Un appendice che, inevitabilmente, ritorna anche nel suo ultimo film, Meteors (2025), presentato al Festival di Cannes 2025 nella sezione Un Certain Regard. Il film esplora direttamente la precarietà esistenziale e sociale in contesti rurali o periferici, con una particolare attenzione alle dinamiche di amicizia maschile e alle tensioni che si creano tra sogni e realtà. Nella storia di Mika e Dan (Paul Kircher e Idir Azougli), ambientata nella cosiddetta “diagonale del vuoto” (che comprende la vecchia Borgogna e la Lorena), è ritratta anche l’insoddisfazione personale di giovani che si ritrovano senza un posto fisso e alle prese con sogni e aspettative che, purtroppo, il loro territorio non può minimamente soddisfare. Meteors è, a tratti, un film apocalittico, in cui Charuel esplora le contraddizioni dell'esistenza umana in un mondo in trasformazione, dove proprio quest’ultimo diventa veicolo per le crisi d’identità personali degli attanti in gioco e dove la lotta per la sopravvivenza e per la minima possibilità di un futuro migliore è resa vana dalle dinamiche socio-economiche, in base alla quale il regista crea un meccanismo di tensione costante tra individuo e società. Proprio questo tira e molla garantisce al regista francese una certa esplorazione delle contraddizioni dell'esistenza umana in un mondo in trasformazione, ben impersonato anche dalle diverse fisicità di Paul Kircher e Idir Azougli, sulla cui pelle scorrono tutte le frustrazioni legate a questo scenario precario e tutte le necessità, da parte di questa gioventù bruciata, di ricostruirsi un proprio spazio. Dunque Charuel gira un melò sul collasso, sulla disillusione creata da queste realtà, combinando l’esplorazione documentaristica della realtà circostante (alimentata anche dalla macchina a mano di alcune sequenze) ad un linguaggio cinematografico molto giovanile, pieno di scenografie al neon, musica techno, panoramiche improvvise e un montaggio frenetico che intrattiene lo spettatore e che incalza la narrazione, rendendo questa “bromance” molto divertente nella sua esposizione.
Caravan, di Zuzana Kirchnerová
Zuzana Kirchnerovà dopo aver vinto nel 2008 la sezione Cinéfodation col suo film Bàba, torna a Cannes nella categoria Un Certain Regard col suo ultimo lavoro Karavan. Un film intimista che racconta il rapporto tra Ester e il figlio David. I due sono felici, ma il resto del mondo sembra volerli tenere distanti, soprattutto a causa di David che ha 15 anni e la sindrome di Down. Kirchnerovà affronta le difficoltà di una donna che ama suo figlio ma si sente anche schiacciata dall’incomprensione e il pietismo degli altri. La storia si svolge durante una vacanza in Italia a casa di amici, che dopo un po’ reputano il comportamento di David pericoloso e invitano madre e figlio a dormire nel caravan anziché in casa. Per Ester questo trattamento è la goccia che fa traboccare il vaso, e una notte decide di partire con David proprio a bordo di quel caravan. Nel corso del viaggio Ester e David faranno la conoscenza di tante persone che li aiuteranno, tra cui Zuza, una ragazza Ceca, che starà vicino a madre e figlio e gli farà vivere momenti felici e spensierati. Kirchnerovà si presenta con un road movie che non vuole tanto mostrare i paesaggi italiani, ma vuole essere più un viaggio alla scoperta dell’io da parte di Ester. Durante questo cammino vediamo la donna cambiare e comprendere che non è obbligata ad essere la madre di David 24 ore su 24, ma tornerà anche a ricordarsi cosa significava essere se stessa, libera da tutto e tutti.
Militantropos, di Alina Gorlova, Simon Mozgovyi e Yelizaveta Smith
Una nuvola nera si staglia sull’orizzonte di Kiev, mentre un giovane soldato la guarda smarrito. Già da questa prima immagine noi spettatori siamo portati a chiederci: come ci rapportiamo con la visione dell’orrore? Come reagiamo di fronte alla distruzione e all’incombenza della morte? Da questi interrogativi parte lo studio di osservazione del collettivo composto da Alina Gorlova, Yelizaveta Smith e Simon Mozgovyi, che attraverso le riprese dei militari al fronte e dei cittadini delle zone riabitate durante la guerra, cercano di dare una nuova prospettiva alle modalità con cui il conflitto russo-ucraino ci viene mostrato. Militantropos è infatti una parola greca per indicare una tipologia di persona che ha accettato la guerra come unico stato possibile dell’esistenza, infatti l’umanità mostrata nell’opera non sembra più disposta a credere in una possibile restaurazione della pace, ma attende la fine di ogni cosa con rassegnazione. Per gran parte del minutaggio i registi non riprendono eventi importanti, ma rovine di un passato recente, ciò che rimane delle macerie del conflitto. Il film assume così la dimensione contemplativa della semplice osservazione di ciò che è stato, senza mai cedere alla retorica della “lotta di resilienza”, ma abbracciando invece la vicinanza silenziosa alle vittime del conflitto. C’è chi reagisce con violenza, chi invece sceglie di rimanere immobile davanti all’orrore. Ma lo sguardo non è mai giudicante nei confronti di nessuno, se non per quanto riguarda l’assenza della politica e l’indifferenza per chi soffre. Le immagini più potenti esposte dall’opera sono proprio quelle filmate al fronte, dove l’orrore della guerra si manifesta attraverso la paura del fuoricampo, verso l’inconoscibile. Le riprese notturne espongono una visione inedita del fronte ucraino, quasi mistica per come le immagini danno vita agli incubi dei soldati e all’impossibilità di dare una forma al male che li opprime. I registi adoperano così la forma del documentario per realizzare una concatenazione di quadri di umanità, per far dialogare tra loro i rimasugli della guerra e i volti di un popolo che ha perduto se stesso. In tal senso l’opera riesce a mantenere una cifra stilistica coerente, non abusando mai di strumenti sensazionalisti e rimanendo fedele a una rappresentazione chirurgica degli agenti del conflitto. La freddezza del mezzo non diventa però mai distacco dai corpi e dal loro dolore e il film porta avanti uno sguardo sulla resistenza che non ha alcun bisogno della forza del messaggio per commuovere, ma che riesce invece a reggersi sulle proprie gambe e sulla forma con cui i cineasti hanno veicolato il loro sguardo.
Dites-lui que je l'aime, di Romane Bohringer
Si tende a dire che il dolore per la perdita di qualcuno passi col tempo, ma è davvero così? Se da una parte forse il dolore si addolcisce col passare degli anni, rimane però quell’assenza nelle nostre vite, come un piccolo buco nero fatto di domande: “avrebbe approvato le mie scelte” “andrebbe d’accordo coi suoi nipoti?” “Ci saremo mai capite un giorno?” È su queste domande che Romane Bohriger e Clémentine Autain si trovano, si comprendono e si consolano a vicenda. Una è una regista cinematografia, l’altra una politica, pur essendo molto lontane, le due donne condividono entrambe la mancanza di una madre. Entrambe, però, non solo hanno perso la madre da giovanissime, ma si sono scontrate contro la realtà di essere figlie di donne perse nei propri mondi e tristezze, tanto da chiedersi se non fossero assenti dalle loro vite ancora prima di morire. Romane Bohriger porta sul grande schermo non solo la storia di Clémentine Autain – romanzo memori da cui nasce l’idea del film – che racconta del proprio rapporto con la madre Dominique Laffin, celebre attrice francese degli anni ’70, ma affronta anche il proprio rapporto con la sua di madre, Marguerite Bourry. Nel corso del film assistiamo come Dominique e Marguerite siano molto simili, entrambe affamate della vita e divenute madri troppo presto. Pur sembrando spesso egoiste e assenti nella vita delle loro figlie, la regista francese riesce a farne un ritratto sincero e senza alcun pregiudizio. Dites-lui que je l’aime è un film che mischia finzione e documentario con una tale eleganza e conoscenza della tecnica da incantare lo spettatore. Romane Bohriger sa perfettamente come mischiare i due registri senza mai stancare o creare distacco con lo spettatore, ma anzi lo fa immergere ancora di più nella storia di queste quattro donne. Dites-lui que je l’aime vuole essere una lettera d’amore a chi non c’è più, ma soprattutto a chi rimane.
A Useful Ghost, di Ratchapoom Boonbunchachoke
Mischia diversi generi e diversi temi A Useful Ghost, esordio di Ratchapoom Boonbunchachoke, presentato nel corso della Quinzaine des Réalisateurs. Nel mischiarli, tuttavia, il regista thailandese mantiene una coerenza stilistica e formale notevole che permette al contenuto del film di essere veicolato senza particolari intoppi. Fra commedia dell’assurdo, fantascienza e film di fantasmi, A useful ghost è una irriverente invettiva nei confronti dell’autorità thailandesi e una riuscita satira sociale sul paese del sud-est asiatico. Si prende tanti rischi, Boonbunchachoke, arrivando addirittura a citare espressamente il Mizoguchi de I racconti della luna pallida d’agosto (1953). Eppure, terminata la visione del film non si può che rimanere estasiati dalla capacità del regista di gestire le varie sezioni del racconto, di rielaborare suggestioni dell’immaginario collettivo in una chiave pop e di non far mai venir meno la veemenza della denuncia politica. A mancare è, forse, un’adeguata gestione dei ritmi del racconto, che appaiono ora sin troppo repentini ora sin troppo distesi. Ma sono ingenuità che non vanno ad inficiare sulla complessiva riuscita dell’opera, che regala allo spettatore sia grandi momenti di tenerezza, sia sincere risate, sia amara indignazione.
Planètes, di Momoko Seto
Momoko Seto è nata nel 1980 in Giappone, ma si è trasferita in Francia fin dai tempi universitari, avendo studiato alla Ecole Supérieure des Beaux-Arts de Marseille e al Le Fresnoy National Studio for Contemporary Arts. La sua carriera da regista è cominciata realizzando dei cortometraggi di finzione e, soprattutto, tramite documentari realizzati per il CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) di Marsiglia. In seguito, la regista giapponese ha intrapreso un’attività cinematografica più autoriale, realizzando vari film che sfruttano l’ibridazione tra diversi generi, distinti tra loro. Tra questi vi sono sicuramente il cortometraggio Planet Z (2011), che parla della seria minaccia dei funghi nei confronti delle piante nel contesto di un pianeta sconosciuto, e Planet Σ (2015), presentato alla Berlinale del 2015 e vincitore del Audi Short Film Award, corto d’animazione sperimentale che indaga il rapporto tra alcune creature gigantesche, intrappolate all’interno di una piattaforma ghiacciata, e il fenomeno incombente e attuale del riscaldamento globale. Proprio questa sensibilità marcatamente ambientalista assume nuovamente la sua centralità nel suo nuovo Dandelion’s Odyssey (2025), presentato ufficialmente alla Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2025. Nel raccontare le avventure di quattro semi di tarassaco, dai nomi Dendelion, Baraban, Léonto e Taraxa, alla ricerca di una nuova casa dopo la catastrofe nucleare che ha colpito il loro pianeta d’origine, la regista configura un’allegoria ecologica potente ma mai didascalica. La sopravvivenza dei semi rispecchia, infatti, l’incredibile capacità di adattamento, non solo delle piante ma anche dell’essere umano, alle situazioni più ostili, soprattutto nel rigenerarsi anche nelle situazioni più estreme, concernenti il cambiamento climatico, le diverse faune e le diverse flore, che mettono alla prova i protagonisti del film. Simbolicamente, la concentrazione nei confronti delle discrepanze che questa natura riesce ad esprimere nello spettatore le conferiscono un carattere profondo, che si ricollega ad uno spirito pienamente mondialista, diventando un inno di forza nei confronti di quelle forze migratorie (anche umane) che si spostano per sopravvivere, anche a costo di affrontare insidie e pericoli che, molto spesso, non occupano i pensieri di chi non combatte in prima persona questa battaglia. Dandelion’s Odyssey è dunque un monito per tutti, un messaggio d’umanità molto importante che fonde animazione 3D, tecniche di timelapse (per comprimere e decomprimere il tempo del montaggio), slow motion e che costruisce un discorso cosmico ed esistenziale proprio attraverso le immagini, utilizzando una costruzione estetica post-apocalittica per rappresentare il paesaggio mediante un approccio surreale alla messa in scena come opportunità e luogo di rinascita, collocandosi in una zona di confine tra sperimentalismo, animazione poetica e riflessione ecocritica.
Nino, di Pauline Loquès
Nino è l'esordio alla regia della francese Pauline Loquès. Il film, presentato nel corso della Settimana della Critica, segue tre giorni della vita di un giovane a cui viene inaspettatamente diagnosticato un cancro. Prima di iniziare le terapie, il medico gli comunica che dopo il ciclo di cure diventerà sterile e di congelare il proprio sperma se ha intenzione di avere bambini in futuro. Con una scansione spazio-temporale che sembra ricordare da vicino Oslo, 31. august (2011) di Joachim Trier, la macchina da presa della Loquès segue Nino, un'eccezionale Théodore Pellerin, in una serie di incontri che lo porteranno al lunedì, giorno dell'inizio delle cure. Nonostante la semplicità della trama e dei suoi snodi narrativi, colpisce di Nino la sensibilità dello sguardo della regista, capace di farci entrare naturalmente in empatia con lo spaesato protagonista. Con un uso sapiente della camera a mano e delle riprese a seguire, la Pauline Loquès ci porta a percepire le diverse situazioni con lo stesso sguardo del giovane. Il risultato è un film che si apre ora al divertimento ora alla malinconia, ora al drammatico ora alla commedia. Nonostante la scontatezza di alcuni passaggi, si percepisce una sensibilità e una naturalezza nell'alternarsi dei registri che rende il film un ottimo esordio. Un lavoro che ha la freschezza di uno sguardo esordiente, ma che fa trasparire anche una piena consapevolezza nell'utilizzo di ogni immagine, di ogni stacco e di ogni scena. Dalla prima all'ultima.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Arturo Garavaglia, Lorenzo Sartor e Cecilia Parini
NC-305
26.05.2025
Sabato scorso la 78ª edizione del Festival di Cannes è giunta al termine. Per questo penultimo appuntamento ci concentreremo su altri quattro film presentati in Competizione, tra cui A Simple Accident di Jafar Panahi, il film vincitore della Palma d’Oro, Alpha, il tanto atteso ritorno sulla Croisette di Julia Ducournau, The History of Sound di Oliver Hermanus, con protagonisti Paul Mescal e Josh O’Connor, ed infine Romeria, il nuovo film di Carla Simon. Dal fuori concorso vi racconteremo di Highest 2 Lowest di Spike Lee con protagonista Denzel Washington. Da Un Certain Regard daremo spazio a quattro film; il vincitore del premio per la miglior regia Once Upon a Time in Gaza dei fratelli Nasser, Eleanor the Great, l’opera prima di Scarlett Johansson, Love Me Tender di Anna Cazenave Cambet, Meteors di Hubert Charuel e Caravan di Zuzana Kirchnerová. Concluderemo con il documentario Militantropos dalla Quinzaine, Dites-lui que je l'aime di Romane Bohringer, dalle selezioni speciali, ed infine A Useful Ghost di Ratchapoom Boonbunchachoke e Nino di Pauline Loquès dalla Semaine de la Critique.
It Was Just an Accident, di Jafar Panahi
In piena notte, Eghbal, di ritorno a casa con la sua famiglia, investe accidentalmente un cane. Cercando soccorsi, l’uomo finisce nel garage di Vahid che, dopo averlo aiutato, inizia a nutrire dei dubbi sulla sua identità e a pensare di aver dato una mano all’ufficiale carcerario che l’aveva torturato anni prima. Convinto di questo, Vahid decide di sequestrare Eghbal, portarlo nel deserto e seppellirlo vivo. Ma i dubbi iniziano a intensificarsi e per avere certezza sull’identità di Eghbal, “arruola” altre quattro vittime. It Was Just an Accident di Jafar Panahi rappresenta una direzione diversa rispetto ai suoi lavori precedenti; la componente meta-cinematografica viene leggermente a mancare, per dare spazio ad un thriller con tratti di sfumature comiche. La messa in scena di Panahi coglie subito l’occhio con l’uso di grandangoli e piani sequenza per costruire la tensione e la disperazione della situazione. Seguendo questo continuo crescendo ansiogeno, It Was Just an Accident esplora abilmente la morale delle cinque vittime, ognuna di esse con un punto di vista diverso sul da farsi. Compiere giustizia nei confronti del perpetratore di atroci azioni o avere misericordia e “capire” la sua posizione? Panahi non da risposte facili a questo quesito e mostra quanto il regime iraniano sia sempre più in difficoltà. It Was Just an Accident è un film superbo e una Palma d’Oro più che meritata.
Alpha, di Julia Ducournau
Dopo il grande successo di Raw (2016) e Titane (2021), ci si aspettava un altro body horror puro da parte di Julia Ducournau, che invece è tornata sulla Croisette con Alpha, film più intimo che esamina il coming of age di una tredicenne che contrae una malattia contagiosa dopo che si fa fare un tatuaggio con un ago non sterilizzato. Già dalle prime scene del suo terzo lungometraggio, si può capire l’intento di Ducornau nel costruire una palese allegoria dell’epidemia di AIDS. I tratti del body horror rimangono ovviamente, soprattutto nel modo in cui la cineasta mostra la decadenza dei corpi dei malati, come se questi stessero diventando una materia fragile e facilmente sgretolatile. Questo declino rappresenta una metafora sul lasciare andare e, dopo una prima parte piuttosto elementare, Alpha finalmente sembra diventare interessante quando viene introdotto il personaggio di Amin, lo zio tossicodipendente della protagonista. La regista francese costruisce questo intreccio tra passato e presente, tra le due forme di malattia dei personaggi e su come la madre di Alpha, e sorella di Amin, provi a gestire il lutto e la perdita. Un approccio intrigante che purtroppo si sgretola nelle mani di Ducornau; la sovrapposizione delle due linee narrative appare confusionaria con una scrittura raffazzonata che non è in grado di esplorare o approfondire i parallelismi e le allegorie . La visione risulta quindi inutilmente pretenziosa con davvero pochi pregi, quali un’intensa e convincente interpretazione da parte di Tahar Rahim e qualche sequenza che ricorda il buon occhio stilistico della regista, come una toccante sequenza tra zio e nipote sulle note di Nick Cave. Alpha è una grossa occasione sprecata e mostra i limiti di una cineasta che al di fuori del body horror, fatica a creare qualcosa di coeso e che rimarrà a lungo nella mente dello spettatore. I personaggi della storia faticano a lasciare andare i propri cari, mentre per noi è l’opposto, siamo già pronti a dimenticare questo film.
Romeria, di Carla Simon
Dopo aver vinto l’Orso d’Oro con il suo ultimo film, Carla Simon ha debuttato nella competizione di Cannes con Romeria, il capitolo conclusivo di una trilogia tematica iniziata con Estiu 1993 (2017) e proseguita con Alcarras (2022). Come i due capitoli precedenti, Romeria è un film semi autobiografico che, con sguardo nostalgico, analizza i legami famigliari. Ambientato nel 2004, il filmi focalizza su Marina (Llucía Garcia), orfana diciottenne che decide di andare a Vigo, il posto natio dei suoi genitori, perché vuole essere riconosciuta legalmente come la figlia di suo padre. La famiglia di quest’ultimo infatti ha rinnegato l’esistenza della giovane Marina poiché nata fuori dal matrimonio e da una relazione che ha portato l’uomo alla tossicodipendenza e alla morte per AIDS. Simon presenta una narrativa nella quale la giovane protagonista prova a ricostruire gli avvenimenti passati tramite i diari della madre, ma ben presto scoprirà che la realtà vissuta dalla donna non corrisponde a ciò che dicono i famigliari del padre. Con un atmosfera quieta, senza melodrammi ed eccessi stilistici, Simón riesce a donare una nota onirica assente nei film precedenti, soprattutto in una strabiliante sequenza che racconta lo sviluppo e la rottura della relazione tra i genitori. Romeria è un film squisito, che grazie ad un’ottima interpretazione centrale di Llucía Garcia riesce ad accompagnare lo spettatore in una navigazione letterale tra la memoria e l’accettazione della perdita.
The History of Sound, di Oliver Hermanus
Nel 1917, Lionel (Paul Mescal), ragazzo proveniente da un paesino rurale che studia al conservatorio del New England nota David (Josh O’Connor), un altro studente in un bar mentre sta intonando un brano folkloristico che gli fa ricordare quelli che i genitori gli cantavano. Grazie a questa passione che li accomuna, tra i due nascerà un forte rapporto che li porterà, due anni dopo, ad intraprendere un viaggio alla ricerca di canti originali folkloristici con lo scopo di preservare e diffondere quest’arte canora. The History of Sound, adattato dalla omonima short story di Ben Shattuck, aveva tutte le carte in regola per essere l’erede di Benediction (2021) di Terrence Davies, ma Oliver Hermanus fatica a sviluppare ogni tematica che introduce nell’opera, che essa sia il conflitto tra ambiente rurale ed urbano o la repressione dell’omosessualità dei due protagonisti. Nella prima parte non c’è pathos e chimica tra i due attori principali, grave lacuna che influenza la buona riuscita della seconda parte del film incentrata solamente su Lionel. Oliver Hermanus invece di approfondire certi aspetti inesplorati della storia di partenza, opta di usare dei tempi piuttosto lenti con una serie di scene che, invece di amplificare lo stato tormentato del protagonista tramite i suoi silenzi, finiscono per rendere la visione soporifera e aumentare quel distacco emotivi nei confronti di Lionel. The History of Sound è un film deludente che spreca non solo il talento dei due attori principali, ma anche quello di una storia piuttosto interessante.
Highest 2 Lowest, di Spike Lee
Il caos e l’imprevedibilità regnano sovrani in Highest 2 Lowest, la reinterpretazione moderna del classico di Akira Kurosawa High and Low (1963). All’inizio si pensava che Spike Lee avrebbe diretto un thriller teso, focalizzato sul cercare di replicare il tormento e l’ansia del post guerra giapponese trasportandolo ai giorni nostri nell’industria dell’Hip Hop, e lo è in parte, ma quello che sorprende di più è l’operazione compiuta sul tono e i generi cinematografici da parte di Lee. Questo si evince già dalla prima mezz’ora, il set update del rapimento e la reazione dei personaggi richiamano più una satira del melodramma. L’eccessiva messa in scena del regista con dissolvenze esilaranti, una stucchevole colonna sonora ed un Denzel Washington macchiettistico, rendono la visione dell'opera stravagantemente ipnotica, come se lo stesso Lee volesse sperimentare quanto più possibile con la forma e la storia di partenza. Ed è qui che entra in gioco l’estro creativo del cineasta nella reinterpretazione dell’opera di Kurosawa; Lee mantiene solo la lotta di classe della storia, la dinamica del rapimento risulta alterata poiché il ragazzo scomparso non è il figlio di David King (Denzel Washington), ma quello del suo autista personale Paul (Jeffrey Wright), un cambio di trama che porta ad uno sviluppo morale della storia differente ed un discorso affascinante sull’ossessione materialista del giorno d’oggi. Highest 2 Lowest non rimane un melodramma per tutta la sua durata e nella seconda parte c’è un crescendo adrenalinico sul lato thriller ed action, ma pur sempre mantenendo quella vena comica e satirica della prima parte. Come il suo predecessore Tsutomu Yamazaki, che era riuscito a tenere testa se non oscurare un mostro sacro come Toshiro Mifune, A$AP Rocky, nel ruolo del rapinatore Yung Felon, riesce nella stessa impresa e ruba la scena da Denzel Washington nelle poche sequenze che condividono. Il rapper statunitense in pochi minuti riesce a costruire il ritratto disilluso di un artista che pretende un’opportunità, un’occasione per mostrare il suo vero talento. La famosa sequenza del confronto tra i due è l’ennesimo colpo di genio di Lee, che trasforma una conversazione accesa in una rap battle tanto intensa quanto esilarante. Spassoso ed originale, Highest 2 Lowest è l’ennesima “joint” ben rollata da parte di Lee, forse il suo film più d’intrattenimento dai tempi di The Inside Man (2006).
Once Upon a Time in Gaza, di Arab e Tarzan Nasser
I due fratelli palestinesi Arab e Tarzan Nasser si erano già fatti notare nel 2020 al Festival di Venezia con il loro precedente lungometraggio, Gaza Mon Amour, mostrando come anche in un territorio oppresso dall’autorità israeliana fosse possibile, per dei registi con pochi mezzi e molte idee stilistiche, esprimere uno sguardo sul presente. Il loro nuovo film, Once Upon a Time in Gaza, sceglie invece come contesto gli anni della presa di controllo di Hamas sui territori della Striscia, per raccontare una vicenda divisa in due parti: la prima espone l’amicizia tra Yahya (Nader Abd Alhay) e Osama (Majd Eid), i quali cercano di sopravvivere in una Gaza perennemente soffocata dai bombardamenti; la seconda racconta invece di come Yahya due anni dopo riuscirà a diventare protagonista di un film d’azione a budget risicato basato su un vero martire della rivoluzione palestinese. Se la prima sezione del film è quindi un noir contaminato dalle influenze del cinema occidentale e alternato alle vere immagini dei bombardamenti sulla città palestinese, la seconda rappresenta invece il tentativo metacinematografico di ragionare su come le immagini e i loro significati vengono costruiti in contesti di guerra, inserendo una linea narrativa thriller che porterà progressivamente a farci dubitare di come tali simboli vengono mediati al nostro sguardo privilegiato. I cineasti puntano quindi a una forma che pesca a piene mani dalla televisione americana, costruendo così un discorso su come i messaggi rivoluzionari, per arrivare allo spettatore occidentale, debbano essere svuotati della loro crudezza, per venire ripuliti e diventare anch’essi un prodotto da "servire a un cliente". Gli schermi in bassa risoluzione attraverso cui ci arrivano queste immagini artificiali di martiri ed eroi appaiono così come una magra consolazione rispetto alla realtà quotidiana della vita a Gaza, dove invece vige ancora la legge del più forte e sembra essersi perso qualunque senso di solidarietà. La storia di vendetta che prende così piede nel secondo atto diventa solo un altro modo con cui la lotta tra poveri prende il sopravvento sulla lotta contro il potere, in un contesto dove diventa necessario usare l’artificio del cinema per mostrare un’altra via al cittadino palestinese, anche a costo di fabbricare altre storie a cui credere, altri film da far diventare moniti per il futuro. Sono pochi i momenti in cui l’opera nel suo complesso riesce a reggere alle proprie ambizioni visive e narrative, esattamente come si percepiscono spesso la povertà di mezzi e le difficoltà di fare cinema in un contesto come quello che ci viene mostrato sullo schermo, ma tutto ciò non rende comunque Once upon a time in Gaza meno rilevante per la politica e l’arte del contemporaneo.
Eleanor the Great, di Scarlett Johansson
Dopo la tragica scomparsa della sua migliore amica, Eleanor (June Squibb) si trasferisce insieme alla figlia a New York che, per cercare di aiutare la madre a superare il lutto e la solitudine, decide di iscriverla ad un gruppo canoro locale. Ma per via di una svista, l’anziana signora si unirà invece ad un gruppo di sopravvissuti all’Olocausto e, trovando compagnia in queste persone, Eleanor deciderà di creare una rete di bugie per far sì che lei venga accettata in questa nuova comunità. L’opera prima di Scarlett Johansson non è un buon film. All’inizio il lungometraggio inganna per via dello charm della grandiosa June Squibb - che porta sullo schermo il ritratto di una vecchietta tanto tenera quanto impertinente, una buona interpretazione che però non raggiunge gli apici del lavoro fatto in Thelma (2024) lo scorso anno - ma appena il film entra nel vivo, ci si renderà conto che il lavoro dell'attrice non riuscirà a salvare un’opera tanto sciapa ed impersonale quanto problematica. Vista la premessa iniziale, si poteva fare un discorso piuttosto complesso sulle conseguenze morali delle azioni di Eleanor, tuttavia Johansson non è sembrata interessata e si è limitata a dirigere un lungometraggio che sembra più provenire dal Sundance che dal Festival di Cannes. L’eccessivo tono quirky, le emozioni forzate, l’evoluzione didascalica degli eventi e i molteplici finali rendono Eleanor the Great l’apoteosi di ciò che c’è di problematico nel cinema indipendente americano.
Love Me Tender, di Anna Cazenave Cambet
Anna Cazenave Cambet non è un nome sconosciuto a Cannes. Il suo primo lungometraggio Gabber Lover fu presentato nella sezione Cinéfondation nel 2016. La regista francese torna quest’anno a Cannes nella sezione Un Certain Regard col suo ultimo film: Love Me Tender. Protagonista Clémence, una giovane avvocata che inizia una nuova vita dopo essersi separata dal marito (interpretato da Antoine Reinartz, volto a noi noto per la sua interpretazione in Anatomia di una caduta). Lascia la carriera forense per dedicarsi alla scrittura e inizia a frequentarsi con le donne. Clémence non può immaginare che sarà propria la sua nuova vita sessuale a scatenare le ire dell’ex marito, che farà di tutto per ottenere l’esclusività della tutela legale di suo figlio. In questo film vediamo tutti gli elementi che contraddistinguono la regia di Cambet, in primis un ritratto a 360 gradi di una giovane donna che si ritrova a dover decidere tra l’essere madre e la propria libertà. Il lungometraggio, in realtà, non si sofferma sulla questione della maternità o della denuncia nei confronti di un uomo che non accetta la bisessualità dell'ex moglie, l’intento della regista è quello di farci conoscere Clémence in ogni sua piccola sfumatura. Lei non è la protagonista perfetta, non è una madre perfetta, un’amante perfetta o una donna perfetta; é umana. Con tutti i suoi difetti e pregi. Ama il figlio ma non vuole rinunciare alla propria libertà sottostando alle regole imposte dall’ex marito a dal tribunale. Cerca di costruire delle relazioni durature ma senza mai aprirsi davvero alle sue partner, che si sentono spesso messe da parte. Se Clémence riesce arrivare così tanto al pubblico e a far si che chiunque guardi il film empatizzi con la sua storia, non è solamente merito di una buona sceneggiatura alla base, ma è soprattutto grazie all’incredibile interpretazione di Vicky Krieps, che conferisce al proprio personaggio una grande profondità. Anna Cazenave Cambet come regista ci presenta un’estetica senza pari, ricordandoci il suo passato da fotografa. Infatti, ogni inquadratura è una foto a sé. Piccola sbavatura nella fotografia, forse è il cambio di tono tra le scene di vita quotidiana e quelle di sesso. Se le prime sono brillanti, caratterizzate da una luce “naturale”, le seconde, invece, fanno l’uso di toni scuri (fin troppo abusati), che più che richiamare l’intimità, sembrano riportare alla mente il "fascino proibito" del sesso lesbico, che possiamo dire che, forse, nel 2025 ha leggermente stancato come scelta stilistica. Love Me Tender non vuole essere un manifesto o una dichiarazione femminista omosessuale, ma vuole semplicemente raccontare la storia di Clémence, una donna imperfetta ma che ama la propria vita e la propria libertà, un po’ come tutti noi.
Meteors, di Hubert Charuel
Hubert Charuel è un regista “agricoltore”, data la sua provenienza familiare e la sua predisposizione al lavoro agricolo, prima di intraprendere gli studi di cinematografia. Il regista si è laureato a La Fémis di Parigi nel 2011 in regia, e il suo corto di presentazione, Diagonale du vide (2011), viene selezionato per numerosi concorsi di genere. Dopo aver presentato il corto K-Nada (2014), il regista ha poi sviluppato il suo esordio nel mondo del lungometraggio con Petit Paysan (2017), presentato in anteprima alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2017 e successivamente trionfatore di notevoli premi ai Cesàr del 2018, dove ha vinto il premio per il miglior attore (Swann Arlaud), miglior attrice non protagonista (Sara Giraudeau) e migliore opera prima. La storia delinea tutto l’approccio realistico e intimista, spesso ispirato alla sua esperienza personale nel mondo agricolo, del regista francese. Caratteristiche che, però, superano le rappresentazioni stereotipate del mondo rurale, evitando estetiche decadenti o nostalgiche, e puntando invece a una rappresentazione autentica e coinvolgente della realtà contadina. Un appendice che, inevitabilmente, ritorna anche nel suo ultimo film, Meteors (2025), presentato al Festival di Cannes 2025 nella sezione Un Certain Regard. Il film esplora direttamente la precarietà esistenziale e sociale in contesti rurali o periferici, con una particolare attenzione alle dinamiche di amicizia maschile e alle tensioni che si creano tra sogni e realtà. Nella storia di Mika e Dan (Paul Kircher e Idir Azougli), ambientata nella cosiddetta “diagonale del vuoto” (che comprende la vecchia Borgogna e la Lorena), è ritratta anche l’insoddisfazione personale di giovani che si ritrovano senza un posto fisso e alle prese con sogni e aspettative che, purtroppo, il loro territorio non può minimamente soddisfare. Meteors è, a tratti, un film apocalittico, in cui Charuel esplora le contraddizioni dell'esistenza umana in un mondo in trasformazione, dove proprio quest’ultimo diventa veicolo per le crisi d’identità personali degli attanti in gioco e dove la lotta per la sopravvivenza e per la minima possibilità di un futuro migliore è resa vana dalle dinamiche socio-economiche, in base alla quale il regista crea un meccanismo di tensione costante tra individuo e società. Proprio questo tira e molla garantisce al regista francese una certa esplorazione delle contraddizioni dell'esistenza umana in un mondo in trasformazione, ben impersonato anche dalle diverse fisicità di Paul Kircher e Idir Azougli, sulla cui pelle scorrono tutte le frustrazioni legate a questo scenario precario e tutte le necessità, da parte di questa gioventù bruciata, di ricostruirsi un proprio spazio. Dunque Charuel gira un melò sul collasso, sulla disillusione creata da queste realtà, combinando l’esplorazione documentaristica della realtà circostante (alimentata anche dalla macchina a mano di alcune sequenze) ad un linguaggio cinematografico molto giovanile, pieno di scenografie al neon, musica techno, panoramiche improvvise e un montaggio frenetico che intrattiene lo spettatore e che incalza la narrazione, rendendo questa “bromance” molto divertente nella sua esposizione.
Caravan, di Zuzana Kirchnerová
Zuzana Kirchnerovà dopo aver vinto nel 2008 la sezione Cinéfodation col suo film Bàba, torna a Cannes nella categoria Un Certain Regard col suo ultimo lavoro Karavan. Un film intimista che racconta il rapporto tra Ester e il figlio David. I due sono felici, ma il resto del mondo sembra volerli tenere distanti, soprattutto a causa di David che ha 15 anni e la sindrome di Down. Kirchnerovà affronta le difficoltà di una donna che ama suo figlio ma si sente anche schiacciata dall’incomprensione e il pietismo degli altri. La storia si svolge durante una vacanza in Italia a casa di amici, che dopo un po’ reputano il comportamento di David pericoloso e invitano madre e figlio a dormire nel caravan anziché in casa. Per Ester questo trattamento è la goccia che fa traboccare il vaso, e una notte decide di partire con David proprio a bordo di quel caravan. Nel corso del viaggio Ester e David faranno la conoscenza di tante persone che li aiuteranno, tra cui Zuza, una ragazza Ceca, che starà vicino a madre e figlio e gli farà vivere momenti felici e spensierati. Kirchnerovà si presenta con un road movie che non vuole tanto mostrare i paesaggi italiani, ma vuole essere più un viaggio alla scoperta dell’io da parte di Ester. Durante questo cammino vediamo la donna cambiare e comprendere che non è obbligata ad essere la madre di David 24 ore su 24, ma tornerà anche a ricordarsi cosa significava essere se stessa, libera da tutto e tutti.
Militantropos, di Alina Gorlova, Simon Mozgovyi e Yelizaveta Smith
Una nuvola nera si staglia sull’orizzonte di Kiev, mentre un giovane soldato la guarda smarrito. Già da questa prima immagine noi spettatori siamo portati a chiederci: come ci rapportiamo con la visione dell’orrore? Come reagiamo di fronte alla distruzione e all’incombenza della morte? Da questi interrogativi parte lo studio di osservazione del collettivo composto da Alina Gorlova, Yelizaveta Smith e Simon Mozgovyi, che attraverso le riprese dei militari al fronte e dei cittadini delle zone riabitate durante la guerra, cercano di dare una nuova prospettiva alle modalità con cui il conflitto russo-ucraino ci viene mostrato. Militantropos è infatti una parola greca per indicare una tipologia di persona che ha accettato la guerra come unico stato possibile dell’esistenza, infatti l’umanità mostrata nell’opera non sembra più disposta a credere in una possibile restaurazione della pace, ma attende la fine di ogni cosa con rassegnazione. Per gran parte del minutaggio i registi non riprendono eventi importanti, ma rovine di un passato recente, ciò che rimane delle macerie del conflitto. Il film assume così la dimensione contemplativa della semplice osservazione di ciò che è stato, senza mai cedere alla retorica della “lotta di resilienza”, ma abbracciando invece la vicinanza silenziosa alle vittime del conflitto. C’è chi reagisce con violenza, chi invece sceglie di rimanere immobile davanti all’orrore. Ma lo sguardo non è mai giudicante nei confronti di nessuno, se non per quanto riguarda l’assenza della politica e l’indifferenza per chi soffre. Le immagini più potenti esposte dall’opera sono proprio quelle filmate al fronte, dove l’orrore della guerra si manifesta attraverso la paura del fuoricampo, verso l’inconoscibile. Le riprese notturne espongono una visione inedita del fronte ucraino, quasi mistica per come le immagini danno vita agli incubi dei soldati e all’impossibilità di dare una forma al male che li opprime. I registi adoperano così la forma del documentario per realizzare una concatenazione di quadri di umanità, per far dialogare tra loro i rimasugli della guerra e i volti di un popolo che ha perduto se stesso. In tal senso l’opera riesce a mantenere una cifra stilistica coerente, non abusando mai di strumenti sensazionalisti e rimanendo fedele a una rappresentazione chirurgica degli agenti del conflitto. La freddezza del mezzo non diventa però mai distacco dai corpi e dal loro dolore e il film porta avanti uno sguardo sulla resistenza che non ha alcun bisogno della forza del messaggio per commuovere, ma che riesce invece a reggersi sulle proprie gambe e sulla forma con cui i cineasti hanno veicolato il loro sguardo.
Dites-lui que je l'aime, di Romane Bohringer
Si tende a dire che il dolore per la perdita di qualcuno passi col tempo, ma è davvero così? Se da una parte forse il dolore si addolcisce col passare degli anni, rimane però quell’assenza nelle nostre vite, come un piccolo buco nero fatto di domande: “avrebbe approvato le mie scelte” “andrebbe d’accordo coi suoi nipoti?” “Ci saremo mai capite un giorno?” È su queste domande che Romane Bohriger e Clémentine Autain si trovano, si comprendono e si consolano a vicenda. Una è una regista cinematografia, l’altra una politica, pur essendo molto lontane, le due donne condividono entrambe la mancanza di una madre. Entrambe, però, non solo hanno perso la madre da giovanissime, ma si sono scontrate contro la realtà di essere figlie di donne perse nei propri mondi e tristezze, tanto da chiedersi se non fossero assenti dalle loro vite ancora prima di morire. Romane Bohriger porta sul grande schermo non solo la storia di Clémentine Autain – romanzo memori da cui nasce l’idea del film – che racconta del proprio rapporto con la madre Dominique Laffin, celebre attrice francese degli anni ’70, ma affronta anche il proprio rapporto con la sua di madre, Marguerite Bourry. Nel corso del film assistiamo come Dominique e Marguerite siano molto simili, entrambe affamate della vita e divenute madri troppo presto. Pur sembrando spesso egoiste e assenti nella vita delle loro figlie, la regista francese riesce a farne un ritratto sincero e senza alcun pregiudizio. Dites-lui que je l’aime è un film che mischia finzione e documentario con una tale eleganza e conoscenza della tecnica da incantare lo spettatore. Romane Bohriger sa perfettamente come mischiare i due registri senza mai stancare o creare distacco con lo spettatore, ma anzi lo fa immergere ancora di più nella storia di queste quattro donne. Dites-lui que je l’aime vuole essere una lettera d’amore a chi non c’è più, ma soprattutto a chi rimane.
A Useful Ghost, di Ratchapoom Boonbunchachoke
Mischia diversi generi e diversi temi A Useful Ghost, esordio di Ratchapoom Boonbunchachoke, presentato nel corso della Quinzaine des Réalisateurs. Nel mischiarli, tuttavia, il regista thailandese mantiene una coerenza stilistica e formale notevole che permette al contenuto del film di essere veicolato senza particolari intoppi. Fra commedia dell’assurdo, fantascienza e film di fantasmi, A useful ghost è una irriverente invettiva nei confronti dell’autorità thailandesi e una riuscita satira sociale sul paese del sud-est asiatico. Si prende tanti rischi, Boonbunchachoke, arrivando addirittura a citare espressamente il Mizoguchi de I racconti della luna pallida d’agosto (1953). Eppure, terminata la visione del film non si può che rimanere estasiati dalla capacità del regista di gestire le varie sezioni del racconto, di rielaborare suggestioni dell’immaginario collettivo in una chiave pop e di non far mai venir meno la veemenza della denuncia politica. A mancare è, forse, un’adeguata gestione dei ritmi del racconto, che appaiono ora sin troppo repentini ora sin troppo distesi. Ma sono ingenuità che non vanno ad inficiare sulla complessiva riuscita dell’opera, che regala allo spettatore sia grandi momenti di tenerezza, sia sincere risate, sia amara indignazione.
Planètes, di Momoko Seto
Momoko Seto è nata nel 1980 in Giappone, ma si è trasferita in Francia fin dai tempi universitari, avendo studiato alla Ecole Supérieure des Beaux-Arts de Marseille e al Le Fresnoy National Studio for Contemporary Arts. La sua carriera da regista è cominciata realizzando dei cortometraggi di finzione e, soprattutto, tramite documentari realizzati per il CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) di Marsiglia. In seguito, la regista giapponese ha intrapreso un’attività cinematografica più autoriale, realizzando vari film che sfruttano l’ibridazione tra diversi generi, distinti tra loro. Tra questi vi sono sicuramente il cortometraggio Planet Z (2011), che parla della seria minaccia dei funghi nei confronti delle piante nel contesto di un pianeta sconosciuto, e Planet Σ (2015), presentato alla Berlinale del 2015 e vincitore del Audi Short Film Award, corto d’animazione sperimentale che indaga il rapporto tra alcune creature gigantesche, intrappolate all’interno di una piattaforma ghiacciata, e il fenomeno incombente e attuale del riscaldamento globale. Proprio questa sensibilità marcatamente ambientalista assume nuovamente la sua centralità nel suo nuovo Dandelion’s Odyssey (2025), presentato ufficialmente alla Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2025. Nel raccontare le avventure di quattro semi di tarassaco, dai nomi Dendelion, Baraban, Léonto e Taraxa, alla ricerca di una nuova casa dopo la catastrofe nucleare che ha colpito il loro pianeta d’origine, la regista configura un’allegoria ecologica potente ma mai didascalica. La sopravvivenza dei semi rispecchia, infatti, l’incredibile capacità di adattamento, non solo delle piante ma anche dell’essere umano, alle situazioni più ostili, soprattutto nel rigenerarsi anche nelle situazioni più estreme, concernenti il cambiamento climatico, le diverse faune e le diverse flore, che mettono alla prova i protagonisti del film. Simbolicamente, la concentrazione nei confronti delle discrepanze che questa natura riesce ad esprimere nello spettatore le conferiscono un carattere profondo, che si ricollega ad uno spirito pienamente mondialista, diventando un inno di forza nei confronti di quelle forze migratorie (anche umane) che si spostano per sopravvivere, anche a costo di affrontare insidie e pericoli che, molto spesso, non occupano i pensieri di chi non combatte in prima persona questa battaglia. Dandelion’s Odyssey è dunque un monito per tutti, un messaggio d’umanità molto importante che fonde animazione 3D, tecniche di timelapse (per comprimere e decomprimere il tempo del montaggio), slow motion e che costruisce un discorso cosmico ed esistenziale proprio attraverso le immagini, utilizzando una costruzione estetica post-apocalittica per rappresentare il paesaggio mediante un approccio surreale alla messa in scena come opportunità e luogo di rinascita, collocandosi in una zona di confine tra sperimentalismo, animazione poetica e riflessione ecocritica.
Nino, di Pauline Loquès
Nino è l'esordio alla regia della francese Pauline Loquès. Il film, presentato nel corso della Settimana della Critica, segue tre giorni della vita di un giovane a cui viene inaspettatamente diagnosticato un cancro. Prima di iniziare le terapie, il medico gli comunica che dopo il ciclo di cure diventerà sterile e di congelare il proprio sperma se ha intenzione di avere bambini in futuro. Con una scansione spazio-temporale che sembra ricordare da vicino Oslo, 31. august (2011) di Joachim Trier, la macchina da presa della Loquès segue Nino, un'eccezionale Théodore Pellerin, in una serie di incontri che lo porteranno al lunedì, giorno dell'inizio delle cure. Nonostante la semplicità della trama e dei suoi snodi narrativi, colpisce di Nino la sensibilità dello sguardo della regista, capace di farci entrare naturalmente in empatia con lo spaesato protagonista. Con un uso sapiente della camera a mano e delle riprese a seguire, la Pauline Loquès ci porta a percepire le diverse situazioni con lo stesso sguardo del giovane. Il risultato è un film che si apre ora al divertimento ora alla malinconia, ora al drammatico ora alla commedia. Nonostante la scontatezza di alcuni passaggi, si percepisce una sensibilità e una naturalezza nell'alternarsi dei registri che rende il film un ottimo esordio. Un lavoro che ha la freschezza di uno sguardo esordiente, ma che fa trasparire anche una piena consapevolezza nell'utilizzo di ogni immagine, di ogni stacco e di ogni scena. Dalla prima all'ultima.